ASCOLTI / SCOTT MATTHEW
Concerto Angelo Mai Altrove / Roma, 27 ottobre 2013
Il nazareno dalle note sottili
di Vittorio Martone
L’Angelo Mai Altrove, spazio occupato romano che spesso offre interessanti selezioni live, il 27 ottobre 2013 ha ospitato il concerto di Scott Matthew, in tour dopo l’uscita del suo ultimo album, Unlearned. Non ha un seguito numeroso, ma chi lo conosce può convenire che Matthew è prima di tutto un compositore, apprezzato certo per la qualità dei suoi toni vocali, che è eccelsa. Eppure, facendo piena esperienza delle sue produzioni, verrebbe prima di tutto da dire “prosatore” prima ancora che cantante. Di sicuro, un cantautore malinconico. Stupisce quindi che l’australiano – trapiantato a New York – abbia scelto un album di cover come rientro a due anni da Gallantry’s Favorite Son (2011). Buono il titolo scelto per questa raccolta di cover, Unlearned, settimo lavoro con la tedesca Glitterhouse Records, già articolazione europea della Sub Pop ma da tempo autonoma nell’offrire buona musica al vecchio continente e non solo. La selezione dei pezzi mostra l’animo crepuscolare di Matthew, ma anche scelte anomale rispetto al tragitto che ci ha abituati ad esperire, solitamente intriso del freddo delle notti bianche, il freddo che l’animo merita per ritrarsi dalle folle annichilite d’Occidente. L’Occidente che Matthew ha camuffato col suo consistere Australe, quando si presenta a Roma col suo solito camicione rigorosamente ribelle, per portarci un sole arido e più vicino di quanto si potesse immaginare.
Nella tracklist dell’album alcuni segnali – probabili – delle passioni indie della sua gioventù, come Darklands (dei The Jesus and Mary Chain, 1987) o Love Will Tear Us Apart (Joy Division, 1980) evidentemente già rimescolata in tutte le salse. Poi There’s A Place In Hell For Me And My Friends (Morissey, 1991) cui seguono alcuni miti indissipabili come Harvest Moon (Neil Young, 1992), Help Make It Through The Night (Kris Kristofferson, 1969) – nell’album interpretata con il fratello Ian – e Annie’s Song (John Denver, 1974). Ma tra le cover dell’album c’è anche I Wanna Dance With Somebody di una Whitney Houston (1987) al culmine della sua gloria negli anni Ottanta. Un rischio che confonde quasi, se si ascolta come il calore strisciante della versione epatica di Matthew le toglie i sogni da straniera. Versione di calore, che rifugge la malizia e stimola la lama a farsi bella di morte e di cortesia. Ecco, forse è questo il problema: riunire Neil Young, Joy Division, Radiohead (con No Surprises, 1997), i Bee Gees (per To Love Somebody, 1967) e la stessa Witney Houston sotto un’unica coltre di voce e una visione musicale totalmente omogeneizzante, priva di ambiguità, abbandonata alla tristezza senza sé e senza ma, risulta meno riuscito rispetto ai precedenti lavori. Forse sarebbe stato preferibile spacchettare queste reinterpretazioni e offrirle al pubblico in album differenti. Messe così si rischia di tradurre ciò che era bello in noioso.
Ciononostante, da un punto di vista vocale, con questo album Matthew sublima, come è stato notato, una “sensibilità folk di un Bonnie Prince Billy e l’estasi lirica di Antony, presentandosi esteriormente come il cugino serio di Devendra Banhart” (Candellieri, 2008). Cugino neanche tanto serio, sembrerebbe. Andare al concerto di Matthew fa infatti pensare che talvolta è meglio non conoscerli i personaggi che assumiamo come celebratori delle nostre melodie di sconforto. Perché ci sono i soggetti tristi e i soggetti che scrivono canzoni tristi. Matthew a primo impatto è sembrato appartenere alla schiera di questi ultimi. Già dall’ingresso sul palco è apparso un po’ costruito, affiancando all’immagine del nazareno (mostrata incantevolmente nella intrigante copertina dell’album) una più fastidiosa disposizione hipster, vagamente giullare, quasi sgradevole. Che potesse trattarsi di una messinscena l’aveva già anticipato l’opening di Sylvie Lewis: musicista folk, britannica trapiantata a Roma, ha un approccio vocale notevole e sufficiente capacità di palcoscenico, ma francamente ad ascoltarla con lo sguardo altrove si ha quella sensazione di costante dejà vu che spassiona di fronte a melodie trite e ritrite.
Fortunatamente a Scott Matthew è bastato poco a rimettere le cose a posto, lungo il tragitto giusto, quello per un viaggio indefinito, di sicuro remoto, per salutare l’imminente autunno come una salvezza, un primo sonno freddo. E allora anche le sue reinterpretazioni sono venute giù nere e prive di illusioni, come nebbia e compassione, come un cumulo di ricordi che si fa legna per risalire di fumo. To Love Somebody ha fatto ripiombare la platea nell’ottobre malinconico, per guardare la speranza mettersi lo spago nei capelli e fondersi di carta colorata e ritornare ai viali romani che odorano di pino. E pensare che è un pezzo dei Bee Gees. Con I Don’t Want To Talk About It (Crazy Horse, 1971) accompagnata da una chitarra solitaria e riservata, si completa la scalata verso il vento spirituale che dal mare d’inverno ci è passato lungo la schiena di brividi e fino al ventre, noi spettatori raccolti, stretti, come il tufo bagnato delle case dei centri storici sotto la pioggia. Applausi. Poi le interpretazioni meglio riuscite: No Suprises dei Radiohead e Love Will Tear Us Apart, molto davvero molto più pregevoli che nella versione in studio. È a questo punto, quando gli animi colavano lenti e ogni istante nuvoloso scorreva via, che, con uno sguardo infossato come di fronte ai lidi battuti dai pescherecci, Matthew ci ha regalato Abandoned, dell’album omonimo (2008), una delle migliori tracce della sua discografia, sia dal punto di vista melodico che di prosa.
I no longer feel at home
I can’t arrive upon your street
and tell you how I've cried myself to sleep
and now I'm forced to be alone
and left to climb the walls hide in the folds
another bad sad song
and god its weird
god its strange to be the only one to talk to
god its weird
and god its strange to be the only one to dance with
Così, abbandonato, intrecci fantasie e musica a suggellare piccoli istanti di silenzio bagnato di gelo e lunghi meriggi d’isolamento. La materia s’imprimeva come un’istantanea, insieme pianoforte e poca luce. Le mani congelate di Matthew, seduto su uno sgabello, allacciavano mondi di espressioni fugaci e raffreddate come il temporale senza ombrello a scudo. Poi quelle mani hanno preso il microfono e quello star vicine le rendeva come abbracci di spavento per quei soffi di voce, splendido finale dal Sud dell’equatore. Applausi ancora, scroscianti.
Ecco. Con la musica di Matthew come amica della sera, il pensiero oramai andava all’ultimo tabacco da smaltire in una piazza o sulla panca a forma di marmo, prima di un riposo soddisfatto. Ma non ancora. Il 27 ottobre 2013 s’era all’Angelo Mai Altrove con un lutto addosso. Lou Reed se n’era andato, già rari scatti di brivido aggiungevano uno spreco di vita al suo corpo rigido e imbottito. In un giorno ch’era già ricordo di una pioggia che bussava alle finestre in cerca di mangime. Una morte come fine, non di un’icona (quelle non esistono, e poi chissenefrega), ma di un’epoca biografica per ciascuno di noi, innegabile. Ed ecco che Matthew ci presenta il suo tributo, Candy Says (The Velvet Underground, 1969). Magia. Col suo accento australiano e le sillabe di Reed messe a forma di verbo a cifre corte, ci ha lasciato giusto il tempo di pronuncia, a chi ha saputo cantare con Matthew il rammarico della perdita, della morte che arriva anche per i visionari che non si convertono.
Grazie Scott.
ASCOLTI
— Bee Gees, Bee Gees 1st, Reprise, 2007.
— Crazy Horse, Crazy Horse, Reprise, 1994.
— Denver John, Back Home Again, Rca Legacy, 2005.
— Joy Division, Love will tear us apart, in + - Singles 1978-80, Rhino, 2008.
— Kristofferson Kris, Kris Kristofferson, Monument Legacy, 2001.
— Morissey, Kill Uncle, Parlophone, 2013.
— Young Neil, Harvest Moon, Reprise Records, 2012.
— Radiohead, Ok Computer, Parlophone, 2009.
— Matthew Scott, Scott Matthew, Glitterhouse Records, 2008.
— Matthew Scott, Gallantry’s Favorite Son, Glitterhouse Records, 2011.
— The Jesus and Mary Chain, Darklands, in Original Album Series, Rhino, 2009.
— The Velvet Underground, The Velvet Underground, Polydor, 2012.
— Houston Whitney, Whitney, Bmg, 2002.
LETTURE
— Candellieri Gianni, Scott Matthew, in Onda Rock Recensioni, 2008, www.ondarock.it.