VISIONI / UNA PICCOLA IMPRESA MERIDIONALE
di Rocco Papaleo / Paco Cinematografica, Warner Bros Italia, 2013
Quando la banda passò
di Chiara Ribaldo
“La vita è un po’ come il jazz, è meglio quando si improvvisa” diceva George Gershwin, tra i più grandi compositori e direttori d’orchestra statunitensi.
Di quel ritmo sincopato, di quel mood malinconico, di quelle insolite progressioni armoniche che richiamano i battiti del cuore innamorato e poi bistrattato, di quel procedere a braccio seguendo gli umori del tempo e l’incedere claudicante dei pensieri, in fondo, è fatta la vita di ciascuno di noi.
Raffazzonata e imprevedibile, ecco come è la vita. A volte è lanciata verso il futuro, protesa come un arco a seguire frammenti di sogno, altre è rannicchiata sul presente, come quelle vecchie col capo chino, le mani immerse nel rosario, altre ancora la vita scivola all’indietro, si attacca ai ricordi, il vento la scompiglia, ma lei non torna, resta lì dove nessuno la vede. Quasi sempre la vita è una variazione dal tema principale, non è altro che swing. Anche le vite dei personaggi di Una piccola impresa meridionale, secondo film del regista, attore e musicista lucano Rocco Papaleo, suonano così.
Costantino è un prete, lo è sempre stato, “un tifoso di Gesù Cristo fin da piccolo” dice di se stesso. Poi, d’improvviso, l’amore per una donna, non completamente corrisposto, lo costringe a spogliarsi dell’abito talare e di molte sue certezze. Smarrito ed esiliato, non più nocchiero delle rotte altrui, si scopre umile naufrago della propria esistenza.
Rosa Maria è una giovane moglie, lei e Arturo si conoscono da ragazzi, si piacciono, si fidanzano e si sposano, per anni recitano a memoria una parte scritta da altri, come fanno i bambini il giorno di Natale, in piedi davanti agli adulti compiaciuti. Un giorno, però, si stancano e decidono di comune accordo di inseguire altri amori, indicibili e un po’ folli: la musica lui, un’altra donna lei.
Magnolia e Valbona sono due sorelle di un Est imprecisato e caricaturale, che in Italia manda solo escort o donne di servizio. Si ritrovano, litigano e si riappacificano tra polaroid di amanti dormienti, ritornelli, passi di danza e baci saffici. Alle vite che fino a quel momento hanno vestito preferiscono la nudità della scoperta. La verità è un abito leggero, anche se più costoso.
Stella è una mamma del Sud, la tempra di un generale, l’abnegazione di una monaca, un’esistenza spesa per i figli in un paese piccolo dove la gente spia con gli occhi appiccicati alle persiane e mormora e con quel mormorio tesse lodi, condanne, sentenze. E quando l’infamia colpisce la sua casa, tutte quelle rigide regole morali, quella vita irreprensibile, franano come fa il tufo appena c’è scirocco. “Voi mi volete morta”, urla ai figli, colpevoli entrambi di “improvvisare” le loro esistenze, di averle gettato addosso l’onta terribile della cattiva maestra. Non sa ancora, Stella, che la resurrezione è lì a poche note di distanza.
La rinascita è un faro sgarrupato – metafora di crepe meno visibili ma ben più profonde – in cui a poco a poco, come un pentagramma in divenire, si rifugiano tutti: il prete in crisi mistica, il marito cornuto e l’ex moglie, la prostituta redenta, la ragazza delle pulizie innamorata e la mamma sconsolata. Scappano, ciascuno con il proprio carico di guai, da una società che è insieme aula di tribunale e patibolo, dalla vergogna di essere etichettati come trasgressori della Morale e dal timore di finire impigliati nelle storie sui matti che gli anziani si raccontano al bar o di diventare un epiteto osceno scritto con lo spray sui muri dai ragazzi del paese.
Così, in quel lembo di terra sul mare, posto dimenticato da Dio e dagli uomini, malconci e dubbiosi, non possono fare altro che sopravvivere a se stessi e forse, impresa più ardua, all’immagine che di loro ha il resto del mondo. “Vous êtes embarqués” avrebbe detto Blaise Pascal, ricordando a tutti che “navighiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia (…) Nulla si ferma per noi. È questo lo stato che ci è naturale, e tuttavia il più contrario alla nostra inclinazione.” (Pascal, 1995).
È un navigare incerto in un mare attraversato da correnti alle quali è meglio opporsi per non perire. È la precarietà di una zattera, di un tronco sopravvissuto alla tempesta che invece ha inghiottito la nave. Non ci sono che rotte provvisorie, arcipelaghi ai quali si spera di arrivare, senza mappa o bussola, e con il rischio continuo di smarrirsi e tornare indietro, respinti dove la terra ferma non è più visibile. Tuttavia, il naufragio non è la fine del viaggio, né la sua violenta e traumatica interruzione. È, al contrario, l’inizio di una nuova condizione, di un affrancamento, lento ma irreversibile, da ciò che è rigido e stabile, da una scialuppa, da un porto, da una ciurma.
Quell’incertezza e quel senso di smarrimento finiscono, infatti, per trasformare il gruppo di reietti in una comunità stravagante e chiassosa con una cultura e regole proprie. “Dove gruppi di persone hanno un pezzo di vita in comune con un minimo di isolamento dalle altre persone, un angolo comune nella società, dei problemi comuni e forse un paio di nemici comuni, là cresce una cultura”, scriveva il sociologo Everett C. Hughes (Becker, 1987) a proposito di alcune tipologie di gruppi sociali, sottolineando che la condivisione di un comune destino è a volte l’unica risposta possibile contro l’ostilità delle convenzioni, siano essere morali, sociali o religiose.
Una piccola impresa meridionale è la storia di un apparente fallimento umano che, come una moderna commedia plautina, si trasforma in un trionfo di amore, libertà e autocoscienza. L’agnitio arriva, come è ovvio, dopo una serie di avventure rocambolesche e surreali e non riguarda soltanto lo svelamento di un’identità nascosta – tutti alla fine si scoprono diversi – in quella rivelazione c’è soprattutto l’accoglienza e l’accettazione dell’altro. Pretesto per il cambiamento è la ristrutturazione del vecchio faro di famiglia, in cui Costantino e gli altri vivono, ad opera di una bizzarra ditta edile (la Piccola impresa meridionale del titolo), composta da un ex circense e da un padre inguaiato con una figlia ribelle a carico. Allora la scena e il retroscena finiscono per combaciare alla perfezione proprio come in un film espressionista: riparare il tetto, ridipingere le pareti, rimodernare gli interni riciclando il vecchio, trasformare il luogo di esilio in un hotel, equivale a rimettere a nuovo se stessi, a tracciare un destino differente con i rottami sopravvissuti al naufragio. L’inaugurazione del faro, a cui partecipano anche alcuni degli abitanti del paese, è quindi l’inaugurazione di vite faticosamente messe a nuovo, è una testimonianza ironica e irriverente di esserci così come si è, nonostante tutto e tutti. Così, solo quando Costantino decide di celebrare davanti ai presenti l’amore tra la sorella e la giovane donna di servizio della madre, semplicemente “come persona e persona e per tutto il tempo che il tuo amore sarà sincero”, causando l’indignazione della folla e un corale “vergogna!”, il processo di trasformazione può dirsi davvero completo.
Nel raccontare una simile impresa umana Papaleo si serve sapientemente della musica, come d’altronde aveva fatto nella sua opera prima, il road movie scanzonato Basilicata coast to coast (Papaleo, 2010). Musiche scritte anche in questo caso da Rita Marcotulli (Premio Top Jazz 2011 come miglior artista del jazz italiano secondo la rivista Musica Jazz) e da Papaleo, eseguite da un manipolo di jazzisti italiani di spessore, come l’onnipresente Fabrizio Bosso, Roberto Gatto e Giovanni Tommaso, tra gli altri e affidate alle voci dello stesso Papaleo e di Erica Mou, lasciando un po’ di spazio anche a inedite performance vocali di Riccardo Scamarcio e Barbara Bobulova. Oggetto e insieme strumento della narrazione, la musica accompagna lo spettatore dalla prima all’ultima inquadratura senza mai abbandonarlo, trascinandolo in una jam session frenetica, che poi altro non è che la celebrazione della vita così come viene. C’è la musica che si racconta: è ambizione, particolare inclinazione dell’anima, scorciatoia o possibilità, nemica indulgente o amante irrequieta. E c’è la musica che il racconto invece lo fa, come il filo che tesse una trama.
Prevale la dimensione estesica, premessa e chiave di accesso per la comprensione estetica e contenutistica del testo filmico, a sottolineare la forza espressiva che una miscela sapiente di suono, silenzio e immagine può regalare all’intera narrazione, così come teorizzato da Gianfranco Bettetini nel suo Il timpano dell’occhio (Bettetini, 2009).
Papaleo è un cantastorie disincantato che si muove tra la poliritmia del jazz e la malinconia della blue note, ogni inquadratura, ogni scena o scambio di battute tra i personaggi e persino la sua voce off sembrano seguire uno spartito più che un copione. Da abile direttore d’orchestra riesce a dosare comicità e dramma, gag da slapstick comedy e sequenze oniriche che richiamano un altro cinema meno ingessato e più sperimentale, lasciando poi che ciascuno dei suoi musicisti/attori suoni il proprio assolo. Le immagini di una natura incontaminata, indifferente alle tragedie di questa accolita di disperati, fanno da tappeto visivo. L’esotismo della cornice, l’altrove maestoso e selvaggio, non è che un espediente per mostrarci l’unicità dell’essere umano e, insieme, la sua ontologica finitezza. Così, mentre i suoni e la musica ci raccontano del cambiamento in atto, l’immagine ci parla di un immobilismo quasi gattopardiano. Alla fine, il biasimo, i pregiudizi, le condanne sono ancora lì. Lì il piccolo paese sperduto, lì gli anziani al bar, le prezzolate in chiesa a battersi il petto per liberarci dai peccati e non indurci in tentazione, lì i ragazzini in cerca di un diversivo contro la noia che urlano “cornuto, cornuto, cornuto” come fossero allo stadio.
I protagonisti di questa piccola impresa non si riappacificano con la società e i suoi dettami, per loro non ci sono né applausi né palme di benvenuto. L’isolamento al quale sono stati condannati resta. Fine pena mai, ma non importa. Nessuno si è accorto che non ci sono più lì, si sono imbarcati verso una libertà che è ammissione di sé, l’unico consenso di cui ognuno di noi ha davvero bisogno. Mamma Stella, rimasta sulla terra ferma, guarda da lontano e i suoi occhi questa volta non sono più coperti dalla vergogna.
“Ascolta, la senti? La pioggia cade in 5/4”
“Ed è grave?”
“No, è jazz!”.
ASCOLTI
— Marcotulli Rita, Papaleo Rocco, Una piccola impresa meridionale, Less is More Produzioni/Sony, 2013.
LETTURE
— Becker Howard S., Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1987.
— Bettetini Gianfranco, Il timpano dell’occhio, Bompiani, Bologna, 2009.
— Pascal Blaise, Pensieri, Giunti Editore, Firenze, 1995.
VISIONI
— Papaleo Rocco, Basilicata coast to coast, Paco Cinematografica, Eagle Pictures, Ipotesi Cinema, 2010.