ASCOLTI / SKOGSLANDSKAP
di Vàli, Auerbach (Prophecy), 2013
Nel sottobosco di Yggdrasill
di Livio Santoro
Tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta, mentre a Detroit nasce e si consolida la techno, mentre a Chicago comincia a farsi concretezza quell’indistinta riconfigurazione degli schemi che sarà il post-rock, in Scandinavia è il metal cosiddetto estremo a calcare da protagonista emergente lo scenario. Qui, gruppi di giovanissimi ragazzotti più o meno inviperiti e pettoruti imbracciano microfoni e strumenti, e così armati, più che attorno ad un semplice modo di concepire la musica, fanno consesso attorno ad uno stile di vita grande e totale, che naturalmente ha la musica al centro. Uno stile di vita difficilmente incline alla mediazione e alla diplomazia, nato in sostanza per disprezzare profondamente gran parte delle cose del mondo, ma a maggior ragione il Cristianesimo e tutta la serie composita di elementi che attorno a questo stanno, come per esempio la morale degli schiavi d’Israele, l’Angelus del papa alla tivù di domenica e i vicini di casa baciapile, riscoprendo talvolta le radici pagane, altri direbbero folkloristiche, del passato vichingo e variago, delle saghe norrene, delle prore rettili e sputafuoco, che per un periodo piuttosto lungo del nostro passato medievale solcavano le acque dei mari annunciando battaglia a questo e a quell’altro, in giro per l’Europa ed anche oltre, fin su quell’isola che oggi chiamiamo Terranova e quella grossa lingua di terraferma che conosciamo come Labrador, passando per quell’altra isola che un ottimismo del tutto polare ha avuto l’ardire di chiamare Groenlandia, ossia Terra Verde (ma erano altri tempi, ed altro era anche il movimento climatico delle correnti calde dei mari e dell’aria, direbbero forse gli esperti).
Alcuni di questi giovani inviperiti di sopra si lasciano però prendere la mano, sicché le cronache ancora ricordano il fumo venuto fuori da fiamme fatte apposta per divorare chiese e chiesette in giro per tutta la Scandinavia, nonché l’organizzazione sempre più capillare di una nuova orda del male, orientata al growl piuttosto graffiato, alle chitarre più o meno aggressive, alla doppia grancassa marziale e ad una narrazione umbrifora che spesso non tralascia di inneggiare a Satana, alla sua legione di aiutanti perniciosi, o in ogni caso a chiunque altro sostituisca i demonî nelle mansioni che comunemente, noi esseri terreni, attribuiamo loro. Talvolta ci scappa pure il morto, nelle espressioni più espansive di questa totale way of life dal sapore glaciale, ma non è di questi eventi scandalistici che bisogna parlare.
Fatto sta che durante il periodo in questione, lassù, a quelle latitudini, s’eleva oltre ogni più “rosea” aspettativa un immaginario testardo e assoluto, un immaginario che è un pullulare di croci rovesciate e di pentacoli da evocazioni infere, di borchie cromate e di face painting di dubbio gusto, di pelle nera e di vezzosi accessori ossei, di fiordi aspri e di foreste innevate di conifere, di martelli di Thor e di effigi di Jörmungandr, il serpe abissale figlio dell’ambiguo Loki (vero e proprio nume tutelare di questo metal di cui si sta parlando), come ricorderanno i lettori delle cronache dell’Edda.
In questo scenario sincretico a metà strada tra la preghiera inattuale rivolta a Odino e l’inno recitato al cospetto di Bafometto, cresce velocissimamente e si fortifica un vero e proprio albero fatto di musica, al modo del primigenio Yggdrasill (il frassino che tutto regge, come ricorderanno ancora ai lettori dell’Edda), il cui tronco centrale può ben essere individuato nell’intreccio tra death metal (maggiormente presente in Svezia) e il black metal (caratterizzato soprattutto in Norvegia), le cui ramificazioni, più o meno solide, più o meno protese ad occupare l’ambiente circostante, ma comunque sempre munite dell’insostituibile suffisso “metal” (che per comodità d’ora in poi ometteremo) sono il viking, il folk, il symphonic, il depressive, il death doom, il brutal death, il blackened, eccetera eccetera. In ogni caso, come si sarà capito, non c’è da stare molto allegri. Frutti di quest’albero, di questo mondano Yggdrasill del tristo e tardo Novecento, sono gruppi che bene o male hanno fatto la storia di una delle pagine più fosche della musica; in ordine di riverenza possiamo qui ricordare: Bathory, Morbid, Mayhem, Entombed, Darkthrone, Burzum, Satyricon, Emperor e così a seguire. Ma tra le numerosissime band protese come frutti di quest’albero verso l’ideale irrefrenabile e totale di cui sopra s’è parlato, una menzione particolare la meritano gli Ulver (parola norvegese che sta per Lupi), gruppo nato nel 1992 ad Olso per mano ed intenzione di Kristoffer Rygg (Garm, stando all’allora nome di battaglia).
All’inizio della loro carriera, che poi si sarebbe dimostrata piuttosto ondivaga in quanto a territori del suono battuti, i Lupi inanellano una doppietta di album clamorosa (Bergtatt, 1995; Kveldssanger, 1996a), inizialmente mescolando e mettendo in successione il più classico black metal ed un folk gentile e fatto di tonalità lievi ed alquanto silvane, ispirate alla tradizione più diretta della regione scandinava (Bergtatt) e poi insistendo soltanto ed esclusivamente su quest’ultimo tema di diretta connessione con la terra e con la selva (Kveldssanger). L’album successivo, Nattens Madrigal (1996b), avrebbe poi segnato un netto ritorno al black più torbido e sporco, quello meno cortese, insomma. La tradizione della foresta, della luna, delle cose nascoste nel sottobosco e degli esseri che vivono nel muschio o comunque nei suoi pressi, resta in ogni caso come filo conduttore di tutti e tre i lavori.
Sullo stesso ramo del nostro Yggdrasill musicale su cui crebbero le prime note dei Lupi, maturarono così in quegli anni, siamo alla metà dei Novanta, altri lavori (spesso side-project ed esperimenti di strabilianti, almeno nelle intenzioni, supergruppi) invero meno memorabili di Bergtatt e Kveldssanger, ma comunque forti di questa mescolanza tra il metal più duro e il folk dei primordi: si prendano per esempio Nordavind (Storm, 1995), Høstmørke (Isengard, 1995), Aspera Hiems Symfonia (Arcturus, 1995, band alla cui voce c’era lo stesso Kristoffer Garm Rygg degli Ulver), The Olden Domain (Borknagar, 1997, ancora con Garm alla voce). Quello che qui c’importa, tuttavia, è che Kveldssanger, per la precisione, disco che come detto dichiara senza alcun mistero di appartenere al mondo umido del sottobosco, facendosi forte di una panoplia essenzialmente ed esclusivamente acustica, riuscì a esprimere sentori fino ad allora sconosciuti, o quantomeno sottovalutati nella loro forza in solitaria, senza cioè i graffi delle chitarre elettriche, i tonfi delle batterie e il vomito delle voci, nell’ambiente tutto all’intorno. Sicché questo disco, arrivato comunque a maturazione nel tempo a venire, lasciò cadere i suoi semi proprio come fosse un frutto. Semi che andarono a posarsi sulla terra al di sotto del nostro Yggdrasill fatto di musica.
Anni più tardi, siamo ormai nel 2004 uno di questi semi diede vita ad un progetto musicale piuttosto oscuro, ovvero di cui noialtri ascoltatori conosciamo ben poco, in cui un solingo musicista svedese, che sulla copertina dei suoi dischi si firma col nome di Vàli, pubblica un disco che proprio all’atmosfera di Kveldssanger si riferisce, apparentemente senza mezzi termini. Forlatt (2004), è questo il titolo, recupera a piene mani temi e sonorità da quel sottobosco umido che nel tempo, all’ombra di Yggdrasill, non ha perso la sua generosa fertilità, nonostante il freddo e l’aria diaccia che sempre contraddistingue il grande Nord prossimo al Polo. L’album in questione viene pubblicato dalla Prophecy, un’etichetta che nei toni del folk sembra trovare una concreta ragion d’essere (si sfogli il suo catalogo, per sincerarsi di ciò).
Sicché dopo una decina di anni di silenzio, e veniamo definitivamente a noi, Vàli imbraccia nuovamente gli strumenti, per dare alle stampe un altro lavoro, in stretta continuità col precedente, che la stessa Prophecy ci regala nel settembre del 2013. Si tratta di Skogslandskap, disco intimo e garbato, forte di diciannove brevi tracce acustiche (solo in un caso si toccano i quattro minuti) che rappresentano un sensazionale invito alla quiete silvestre, come d’altronde la stessa copertina dell’album ammette d’impatto. Qui le chitarre, che battono lievemente il passo, si appoggiano con discrezione sulle partiture d’archi, mai eccessive, sui frequenti respiri dei fiati, dal canto loro raffinati e mai protagonisti, e sulle periodiche incursioni di un pianoforte misurato. Tutti gli strumenti, senza l’apporto di voci articolate né di cori confusi, come spesso succede nel resto del folk scandinavo, raccontano dolcemente di un mondo fatto di vecchie storie in cui ogni essere (ogni corda, nella fattispecie, oppure anche ogni tasto) sembra avere esattamente il suo ruolo in una storia antica a metà strada tra le favole belle e le elegie della solitudine. Perché alla fine quel lupo che aveva cominciato ad aggirarsi all’ombra di Yggdrasill all’epoca di Kveldssanger, così come ogni altro abitante silvestre, è un essere preferibilmente solitario. Allo stesso modo l’ascoltatore di Vàli, facendo girare questo nuovo e strepitoso Skogslandskap, non può concedere molto alla socievolezza. La luna, il sottobosco e questo folk sono cose da vivere preferibilmente in solitudine, e sembra che Vàli, almeno stando a queste ultime diciannove tracce appena incise, lo sappia piuttosto bene.
ASCOLTI
— Arcturus, Aspera Hiems Symfonia, Ancient Lore Creations, 1995.
— Borknagar, The Olden Domain, Century Black, 1997.
— Isengard, Høstmørke, Moonfog Productions, 1995.
— Storm, Nordavind, Moonfog, 1995.
— Ulver, Bergtatt, Head Not Found, 1995.
— Ulver, Kveldssanger, Head Not Found, 1996a.
— Ulver, Nattens Madrigal, Century Black, 1996b.
— Vàli, Forlatt, Prophecy, 2004.