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VISIONI / VAMPIRI, ZOMBI E LUPI MANNARI


Fermo Immagine – Museo del Manifesto Cinematografico di Milano, 12/7/2013-30/10/2013


 

Occhio della strada e della mente

di Marco Meloni

C’era un tempo, prima del villaggio globale, di Internet, della televisione, in cui la strada era il mondo. Non solo una via di trasporto, passaggio, transito. Ma un vero e proprio luogo di comunicazione, di socialità, di scambio. Era nelle vie polverose che le persone carpivano l’umore della folla, conoscevano segreti, imparavano a vivere e a relazionarsi agli altri. E sempre alla strada e ai suoi oggetti affidavano la conoscenza del mondo, la loro fantasia e il loro immaginario.

Oggi tutto ciò, come spiega bene Joshua Meyrowitz, è impensabile, vista la penetrazione capillare e ossessiva dei media elettronici nella nostra vita. Non viviamo un attimo della nostra giornata senza avere continuamente notizie e aggiornamenti, luoghi e persone che si scontrano con noi come piccole rocce attratte dalla nostra orbita di satelliti. E questi aggiornamenti, che dovrebbero creare una profonda spaccatura con il passato, renderci pronti a dinamiche interattive del tutto nuove, in realtà non fanno altro che offrire schemi già visti e consolidati in epoche precedenti. Afferma, infatti, Meyrowitz:

 

“Nella misura in cui i media elettronici tendono a riunire molte sfere d’interazione precedentemente distinte, non è escluso che si possa ritornare a un mondo ancora più antico del Medioevo. Molte caratteristiche dell’«era informatica» assomigliano alle forme sociali e politiche più primitive: la società dei cacciatori e dei raccoglitori dei frutti spontanei della terra. Essendo popoli nomadi, cacciatori e raccoglitori non hanno un rapporto di fedeltà con il territorio. Anch’essi hanno uno scarso «senso del luogo»; le loro attività e i loro comportamenti specifici non sono strettamente legati a scenari fisici particolari. Il fatto che tanto le società di cacciatori e raccoglitori quanto le società elettroniche siano prive di confini, consente molte sorprendenti analogie. Tra tutti i tipi di società che hanno preceduto la nostra, quelle dei cacciatori e dei raccoglitori sono state le più egualitarie per quel che riguarda i ruoli di maschi e femmine bambini e adulti, capi e popolo” (Meyrowitz, 1985).

 

Eppure rimangono ancora, seppure in forma diversa, minoritaria, possiamo addirittura dire marginale o sussidiaria, alcuni strumenti comunicativi quali il manifesto, i poster, la cartellonistica generale. Tridimensionali, mobili, utilizzati perfino come video-installazioni. Diversi anni luce da Depero, dal Futurismo, dalle prime forme artistiche di pubblicità; tuttavia ancora vivi, in uso, non lasciati andare completamente all’usura del tempo.

Quasi impossibile ipotizzare oggi l’impatto del loro ingresso nel tessuto urbano; le fantasie, i pensieri, le emozioni scatenate nei giovani e negli adolescenti che vedevano questi disegni, queste opere d’arte in alcuni casi, e da essi traevano il proprio giudizio su una pellicola, una bibita, una questione importante. L’attesa per un film tante volte immaginato, il sapore di quel primo aperitivo sinonimo di buon gusto e accettazione sociale, il vigore dato dall’appartenenza a un gruppo politico. Emozioni e sentimenti lontani che la sociologia della memoria ha cercato di raccogliere attraverso i racconti e le esperienze personali (Maurice Halbwachs, Paul Ricoeur, Alessandro Portelli, Franco Ferrarotti), ma che troppo spesso si perdono di vista, come quei semi di tarassaco portati via dal vento.

Permane inoltre, sempre più frequentemente, la sensazione che nel nostro universo iperstimolato, in cui tutto è senso e organo adibito al percepire, la forma pura di comunicazione sia ormai talmente lontana, distante non solo dalla nostra vita ma anche dal nostro pensiero, che non se ne colgono più le caratteristiche originali e fondanti. Una pangea di messaggi e atti comunicativi che non è più scindibile o divisibile in singole unità dotate di senso e specificità univoche. E che rende il lavoro di conservazione delle memorie e dei ricordi, sociali e personali, un’impresa sempre più ardua, laboriosa, a rischio di soggettività e marcati personalismi.

Il Museo del Manifesto Cinematografico di Milano è il primo in Italia a tentare di conservare e proteggere il passato di quest’arte di “coinvolgimento urbano”, mettendolo in relazione con il suo presente e futuro.

Un percorso logico e di analisi non semplice, ma sicuramente importante per la valorizzazione di un’esperienza artistico-commerciale ancora poco riconosciuta e apprezzata; e che presenta proprie linee di sviluppo, crescita, trasformazione sincronica e diacronica. Ciò che l’osservatore ha di fronte è un insieme disomogeneo ma non casuale o caotico d’immagini filmiche, che vanno dalla locandina al grande cartellone, dai primi film in bianco e nero ai blockbuster di nuova uscita. Si espone, senza giudizio o distinzione, ciò che arreda o ha arredato le nostre città, cercando semmai di cogliere delle linee di rivoluzione o continuità nel messaggio e nel contenuto dei manifesti. Anche legandolo a temi o figure specifiche dell’immaginario collettivo. La mostra Vampiri, zombi e lupi mannari, ad esempio, s’interroga sull’evoluzione filmica di questi tre importanti personaggi del mondo dell’orrore. E se oggi sono sotto l’occhio di tutti la forza e la moltitudine di forme che riguardano i succhiasangue o i non morti, è ancora difficile cogliere appieno i cambiamenti di altri personaggi. I lupi mannari, pur prendendo, soprattutto a livello televisivo, un carattere più adolescenziale, simile a quanto accaduto per i vampiri in Twilight, non riescono ancora, infatti, a trovare una strada difforme da quella della tradizione, finendo per rimanere chiusi – o meglio, imprigionati – in rigide forme e caratteri. Partite come tre figure relativamente stabili e omogenee nelle loro narrazioni, hanno vissuto così dei percorsi evolutivi difformi, arrivando a diversi gradi di riflessione e consapevolezza. Il vampiro è stato ed è tutto e il contrario di tutto; lo zombie mantiene un carattere di ostracismo maggiore, pur tuttavia potendo avere una valenza positiva, ad esempio il Kieren Walker del serial televisivo inglese In the Flesh, o di denuncia sociale e politica, come i contagiati da industrie farmaceutiche o armi nucleari; il lupo mannaro è invece più frequentemente una spalla o un aiutante. Trova pochi ruoli da protagonista e difficilmente è colui con il quale lo spettatore si identifica: anche quando ci si schiera dalla “parte del male”, la fascinazione del personaggio è assai minore.

Le evidenze di queste trasformazioni e le riflessioni che esse comportano sono tuttavia riconducibili solo parzialmente alla sola visione o analisi dei manifesti cinematografici. Quest’ultimi, infatti, pur indicando questa evoluzione “differenziata”, presentano una omogeneità di fondo che rende difficile distinguere, o anche solo ordinare, le diverse anime dell’immaginario horror. Rimasti troppo rapidamente schiacciati da altre forme più incisive e pervasive di pubblicità e narrazione, i manifesti si sono saputi adattare ai nuovi spazi loro offerti, ma si sono anche cristallizzati, uniformati. Sperimentazioni e avanguardie hanno lasciato rapidamente il passo alla serializzazione dei contenuti e dei formati, che s’impongono sulla maggioranza dei manifesti cinematografici e delle locandine.

Una mostra a essi dedicata finisce così per creare un’interessante effetto sinottico, nel quale le sovrapposizioni fra epoche, figure e tematiche risultano continue e fluide; non esiste una netta distinzione, ma aree che si sovrappongono per date, tematiche, tecniche realizzative. Ciò permette diverse chiavi interpretative, ma rende anche evidente l’assenza di una direzione principale di analisi e visione.

In un mondo in cui tutto è narrato attraverso canali intersecati e linguaggi sovrapposti, in cui la ri-mediazione (Bolter, Grusin, 2002), più che la mediazione consente di cogliere spesso più il risultato che le forze causali che lo hanno generato, il soffermarsi su un unico strumento, per di più parzialmente stressato e in declino rispetto a media e linguaggi più attuali, è un rischio non di poco conto. Permette un’indagine conoscitiva molto più accurata o profonda, ma allo stesso tempo limita a un solo elemento qualcosa di estremamente più ampio: la costruzione di un immaginario personale e collettivo, che è legato a una stratificazione di contenuti sincronicamente e diacronicamente molteplici. L’occhio della strada, ciò che ogni passante deve vedere o conoscere e che viene esposto pubblicamente, non è più anche occhio della mente, poiché sono altri, molti e diversi, gli stimoli che influenzano il pensiero degli individui. E che trasformano a livello sociale e individuale il vampiro, lo zombie e il licantropo.

 


 

LETTURE

 Bolter Jay David, Grusin Richard, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Guerini e Associati, Milano, 2002.
Elias Norbert, La civiltà delle buone maniere, Il Mulino, Bologna, 1982.
Galli Giorgio, Fortunato Leopoldina (a cura di), Il Vampiro al mercato, Franco Angeli, Milano, 1997.
Meyrowitz Joshua, Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale, Baskerville, Bologna,1985.
Pilo Gianni, Fusco Sebastiano, (a cura di), Storie di vampiri, Newton Compton, Roma, 2005.
Stoker Bram, Dracula, Mondadori, Milano, 1979.