LETTURE / UN OTTIMISTA RAZIONALE
di Matt Ridley / Codice Edizioni, Torino, 2013 / pp. 420, € 15,90
Il migliore dei mondi possibili, forse
di Roberto Paura
Chissà se Adamo ed Eva ebbero mai consapevolezza del fatto di vivere in un’età dell’oro che la loro progenie avrebbe poi sempre invidiato dopo il peccato originale e la Caduta. La riflessione ab ovo non è del tutto campata per aria se si prova a ricostruire una storia del pessimismo che da sempre contraddistingue la nostra civiltà. È mai esistita davvero un’età dell’oro, un’epoca in cui si viveva felici? Esiodo scriveva nell’VIII secolo avanti Cristo, e a suo dire i tempi migliori erano già passati. Lucrezio, nel secondo libro del De Rerum Natura, riporta le riflessioni di un contadino della sua epoca: “E già, scuotendo il capo, il vecchio aratore sospira di frequente: lamenta la sua fatica vana, e confronta il tempo d’oggi coi tempi che furono; loda spesso le fortune del suo genitore […]; protesta che gli uomini di prima, pieni di pietà, trovavano facilissima vita in angusti campi, sebbene molto più piccolo fosse il loro appezzamento di terreno” (cit. in Mazzarino, 2002). Anche Cicerone lamentava la decadenza dei costumi, confrontando i suoi tempi con le grandezze di quelli passati. Dopo la morte di Gesù, i primi cristiani attesero con fervore l’imminente fine del mondo, scrutando con ansia i segni che avrebbero preannunciato il crollo finale. L’Apocalisse di Giovanni risale alla fine del I secolo, quando – ben lungi dall’essere sull’orlo del precipizio – l’Impero romano si trovava al suo apogeo. Nella seconda metà del XIX secolo, nonostante l’Occidente si trovasse in una (rara) breve epoca di pace e di progresso economico, sociale e tecnologico, le cassandre che paventavano il declino della civiltà presero a moltiplicarsi. Sono gli anni, non a caso, del decadentismo. Nella celebre opera di Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, pubblicata all’indomani della Prima guerra mondiale, si erge una funesta profezia per i nostri tempi: “Di tali tramonti, quello dai tratti più distinti, il tramonto del mondo antico, lo abbiamo dinanzi agli occhi, mentre già oggi cominciamo a sentire in noi e intorno a noi i primi sintomi di un fenomeno del tutto simile quanto a decorso e a durata, il quale si manifesterà nei primi secoli del prossimo millennio, il «tramonto dell’Occidente»” (Spengler, 1991).
Ed ecco che, proprio negli anni in cui, secondo Spengler, assisteremo al tramonto della nostra civiltà, il libro di Matt Ridley Un ottimista razionale propone una visione ottimistica (seppur cum grano salis) dei nostri tempi. Alla base del ragionamento di Ridley, celebre e apprezzato divulgatore scientifico britannico e membro della Camera dei Lord inglese (è, per discendenza ereditaria, visconte), c’è l’idea del progresso come motore costante dell’evoluzione umana. Frutto forse delle sue concezioni liberiste, Ridley individua nel progresso la nuova “mano invisibile” che ha consentito alla civiltà di svilupparsi e prosperare nonostante i tanti incidenti di percorso lungo la strada. E lo dimostra anteponendo a ciascun capitolo un grafico incontrovertibile che mostra sempre un miglioramento delle condizioni del parametro di riferimento (il PIL pro capite, l’aspettativa di vita, la produzione alimentare mondiale e così via). Ridley mette in guardia dall’ottimismo irrazionale che sta dietro le grandi crisi finanziarie degli ultimi decenni, prodotte dall’incosciente euforia degli investitori nei confronti del dot-com o dei derivati. L’ottimista razionale guarda invece alle tendenze di lungo periodo, che emergono al di là delle situazioni contingenti: così, anche se durante la Seconda guerra mondiale l’aspettativa di vita si è ridotta sensibilmente, in realtà in un’ottica generazionale la linea del grafico non ha mai smesso di crescere.
Il quadro che Matt Ridley ci presenta all’inizio del volume sbeffeggia l’idea di un’età dell’oro in cui la vita era più facile (“selvaggia, aspra e forte e in gran parte esentasse”, per dirla con Douglas Adams). Lo scenario idilliaco e bucolico di una famiglia americana dei primi anni del XIX secolo che si riunisce per la cena davanti al focolare, con il padre che recita la Bibbia, la madre che serve lo stufato, la sorella maggiore che dà da mangiare ai cavalli, la più piccola che accudisce il fratellino appena nato e l’altro fratello che versa l’acqua nelle tazze, mentre fuori si odono solo gli uccellini, nasconde una realtà da incubo: “Sebbene la loro sia una delle famiglie più benestanti del villaggio, la sacra lettura del padre è interrotta da una tosse bronchitica che presagisce la polmonite che lo stroncherà a 53 anni, aggravata dal fumo del camino… Il neonato morirà a causa di quello stesso vaiolo che in quel momento lo sta facendo piangere; presto la sorella diventerà un oggetto nelle mani di un marito ubriacone. L’acqua che il ragazzino versa ha il gusto delle mucche che si abbeverano nel medesimo ruscello da cui è stata attinta. La madre è torturata dal mal di denti. Il bracciante del vicino sta ingravidando l’altra figlia nel pagliaio, e il bambino che nascerà verrà spedito in orfanotrofio”.
Di fronte a uno scenario del genere, suggerisce Ridley, anche la vita di un operaio di Detroit che ha appena perso il lavoro appare rosea. La sua aspettativa di vita, dopo tutto, resta di 80 anni. Non morirà di polmonite. Può sperare che i suoi figli, dopo aver studiato, trovino un buon lavoro e gli assicurino la serenità negli ultimi anni. Potrà ottenere un sussidio di disoccupazione. Oppure mettersi in macchina e spostarsi per cercare un lavoro altrove, anche a parecchie centinaia di chilometri da casa propria. E tutto ciò grazie al progresso inarrestabile della civiltà. Ma qual è la chiave di questo “miracolo” continuo? L’innovazione. “Finché le nuove idee riusciranno a proliferare in questo modo, il progresso economico dell’umanità non si arresterà”, scrive Ridley. “In alcuni paesi la crescita potrebbe riprendere già tra un paio di anni, mentre in altri la crisi attuale potrebbe tramutarsi in un decennio perduto. Potrebbe anche succedere che alcune parti del mondo rimangano fortemente sconvolte e sprofondino nell’anarchia, nell’autoritarismo e nella violenza, come è accaduto negli anni Trenta, e che una Grande Depressione sfoci in un’altra guerra mondiale. Ma finché qualcuno, da qualche parte nel mondo, è incentivato a inventare nuovi modi per soddisfare meglio i bisogni del prossimo, allora l’ottimista razionale deve concludere che il progresso della vita umana riprenderà sempre il suo corso”.
Una visione che ricorda molto quella del ciclo della Fondazione di Isaac Asimov (2003): l’unico modo per evitare la decadenza della civiltà consiste nel salvaguardare le sue conoscenze scientifiche e tecnologiche, obiettivo che nei romanzi del ciclo viene affidato alla Fondazione, un’organizzazione che assicura lo sviluppo e il progresso della galassia nei lunghi secoli di anarchia e decadenza dopo la caduta dell’Impero Galattico. Al di là delle riflessioni fantascientifiche, la tesi di Matt Ridley non è certo nuova. Nell’epoca del positivismo (a cui del resto anche Asimov s’ispirava) August Comte e Herbert Spencer furono strenui propositori dell’idea di una sorta di “legge ferrea” del progresso umano, replicando alle cassandre decadentiste. Per entrambi è la scienza, e l’innovazione tecnologica che ne consegue, il vero motore dell’evoluzione. Spencer mutua da Darwin il concetto di evoluzione, che nell’ottica naturalistica è un processo casuale e privo di finalità, mentre nell’applicarlo all’analisi della civiltà umana lo rende sinonimo di progresso: così facendo, Spencer infondeva al darwinismo sociale una componente teleologica, un obiettivo, uno scopo ultimo, quello della prosperità garantita dal progresso continuo. Connazionale di Spencer, Ridley ha probabilmente attinto a piene mani dalla filosofia spenceriana, oggi assai poco di moda, dopo l’abbandono del concetto di “darwinismo sociale” a partire dal secondo dopoguerra, considerato troppo legato alle teorie di superiorità del nazismo.
Dal canto suo, Matt Ridley risolve il problema sostenendo che l’unico modo in cui l’innovazione può dispiegare i suoi effetti positivi è facendo a meno del dirigismo statale. Non c’è da stupirsi se la filosofia di Ridley non sia stata accolta con unanime consenso, nemmeno in paesi molto più liberisti del nostro. In un articolo polemico sul Wall Street Journal (2010), Bill Gates ha criticato le tesi esposte in Un ottimista razionale, pur ammettendo che alla base delle sue considerazioni vi sono due idee condivisibili: la prima è che il vero motore della crescita della prosperità nella specie umana è da rintracciarsi nello scambio di beni, ossia nel commercio; la seconda è che l’ottimismo razionale è sicuramente da preferirsi al facile pessimismo dei nostri tempi, i cui scenari catastrofici sono stati finora sconfessati. Ma per il magnate di Microsoft, oggi più noto per essere il più generoso filantropo del mondo, Ridley sbaglia su due punti. Il primo riguarda la critica alla politica degli aiuti in Africa, il cui sistema top-down è considerato dall’autore inutile e pericoloso, mentre secondo Gates – che ha destinato diversi miliardi di dollari alla crescita dei paesi africani – gli effetti a lungo termine degli aiuti, tra cui soprattutto l’aumento della speranza di vita e la riduzione della povertà, stanno iniziando a diventare evidenti. Il secondo riguarda il cambiamento climatico. Ridley bolla infatti le sirene apocalittiche sul cambiamento climatico come eccessive, convinto che le emissioni di gas serra si ridurranno automaticamente nel corso dei prossimi decenni con l’evolversi delle energie sostenibili. Su quest’ultimo punto Bill Gates fa notare come la riduzione delle emissioni di gas serra negli Stati Uniti sia stata l’effetto delle politiche sanzionatorie del governo e non piuttosto di un’autoregolazione del mercato. Sembra quindi esserci un limite alla capacità del libero mercato di produrre solo ed esclusivamente benessere.
Il limite della tesi pur convincente di Un ottimista razionale risiede proprio nel controsenso della proposta iper-liberalista di Ridley. Se da un lato l’autore condanna l’incauto ottimismo della finanza che ha portato alle grandi crisi del 2000 e del 2008, analogamente condanna d’altro canto i tentativi dei governi e degli enti pubblici di incanalare il progresso all’interno di binari predefiniti. Se da un lato sostiene che il motore dell’evoluzione continua della civiltà è l’innovazione tecnologica, dall’altro dimentica che da sempre l’innovazione è stata sostenuta dai grandi capitali pubblici, a partire dallo sviluppo dell’energia atomica e dei programmi spaziali negli anni della Guerra Fredda negli Usa fino all’invenzione di Internet a opera del complesso militare-industriale americano e di un ente di ricerca pubblico europeo come il Cern. Qui sta anche la grande distanza tra l’ottimismo di Ridley e quello dell’economista e saggista Jeremy Rifkin, che nel suo ultimo libro La terza rivoluzione industriale (2011) sostiene invece il ruolo-guida dei governi, e principalmente della Commissione Europea nel Vecchio continente, nella promozione del nuovo modello di industrializzazione.
Pur condividendo un analogo approccio ottimista al futuro, Ridley e Rifkin non potrebbero essere più diversi. Il primo sostiene l’ingegneria genetica, il secondo promuove il biologico; il primo sostiene che i combustibili fossili dureranno per secoli e pertanto avremo tutto il tempo di sviluppare delle alternative, il secondo sostiene che stiamo già subendo le conseguenze della fine del petrolio e che dobbiamo subito passare a un’energia all’idrogeno. Il loro ottimismo sul futuro della civiltà condivide però un’analoga critica al catastrofismo dei nostri tempi. La fine del XX e l’inizio del XXI secolo hanno visto un inquietante rilancio delle tesi decadentiste e decliniste sul modello di Spengler. Già il famoso Rapporto sui limiti dello sviluppo commissionato all’inizio degli anni Settanta dal Club di Roma metteva in guardia sull’illusione di un progresso inarrestabile della civiltà, a causa dei limiti intrinseci della crescita – la scarsità dei beni, l’esaurimento delle risorse energetiche, l’aumento della popolazione (Meadows et al., 1972). Nel 1971 il futurologo italiano Roberto Vacca pubblicava Il medioevo prossimo venturo, prevedendo che l’aumento della complessità avrebbe portato al collasso della civiltà e a un nuovo medioevo; una tesi ripresa recentemente dal matematico John Casti nel suo Eventi X (2012), in cui si sostiene che l’Occidente è giunto allo stesso livello del tardo Impero romano, con un sistema burocratico troppo complesso da gestire destinato al collasso. E Collasso è anche il titolo del bestseller del geografo e antropologo Jared Diamond (2005), nel quale sono tratteggiate le cause che hanno portato alla fine di antiche civiltà come quella dei Maya o dei Vichinghi. Ridley è attento lettore dei saggi di Diamond, che considera un onesto studioso, ma ne critica le conclusioni secondo le quali la civiltà occidentale è probabilmente destinata al collasso per l’ipersfruttamento delle risorse e la mancanza di una visione di lungo periodo. A suo dire, il collasso delle civiltà non è tanto un problema ecologico, quanto di isolamento. La globalizzazione, insomma, è la migliore ricetta contro la minaccia estintiva.
Esattamente il contrario di quanto hanno sostenuto negli ultimi anni i teorici della decrescita, spinti proprio dal Rapporto sui limiti dello sviluppo a invocare la dismissione della retorica della crescita continua e a sollecitare al contempo una de-globalizzazione e un’inversione di tendenza nei modelli di sviluppo economico occidentali. Una decrescita che da “felice”, come la immaginava un movimento italiano nato sull’onda delle tesi di Serge Latouche, è diventata oggi tristemente reale e ineluttabile sotto la spinta della crisi economica.
Ridley li chiama apocaholic, “maniaci dell’apocalisse”. Gli apocaholic sono diffusi soprattutto negli Stati Uniti, paese da sempre ossessionato dall’incubo del declino: basti pensare che proprio negli anni dell’apogeo americano – quelli successivi all’11 settembre – sono usciti almeno due libri di eminenti politologi statunitensi che preconizzavano La fine dell’era americana (Kupchan, 2003) e L’era post-americana (Zakaria, 2008). “Di recente nella libreria di un aeroporto mi sono soffermato nel reparto «attualità» e ho osservato gli scaffali. C’erano libri di Noam Chomsky, Barbara Ehrenreich, Al Franken, Al Gore, John Gray, Naomi Klein, George Monbiot e Michael Moore, e tutti sostenevano, chi più chi meno, che: (a) il mondo è un posto terribile; (b) sta peggiorando; (c) è soprattutto colpa del commercio; e (d) è stato raggiunto un punto di svolta. Non ho visto un solo libro ottimista” (pp. 319-320). Quello di Matt Ridley è un libro ottimista. Forse troppo. Ma leggendolo ci dimostra quanto sia sbagliato il nostro passatismo, quanto sia ingenuo il “mito del buon selvaggio”, e come, dopotutto, quello che stiamo vivendo oggi sia ancora il migliore dei mondi possibili.
LETTURE
— Asimov Isaac, Il ciclo delle Fondazioni, Mondadori, Milano, 2003.
— Casti John, Eventi X, il Saggiatore, Milano, 2012.
— Diamond Jared, Collasso. Come le civiltà scelgono di vivere o morire, Einaudi, Torino, 2005.
— Gates Bill, Africa Needs Aid, Not Flawed Theories, in Wall Street Journal, 26 novembre 2010, http://online.wsj.com/article/SB10001424052748704243904575630761699028330.html.
— Kupchan Charles A., La fine dell’era Americana, Vita e Pensiero, Milano, 2003.
— Mazzarino Santo, La fine del mondo antico. Le cause della caduta dell’Impero romano, Rizzoli, Milano, 2008.
— Meadows Donella H., Meadows Dennis L., Randers Jørgen e Behrens III William W., I limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano, 1972.
— Rifkin Jeremy, La terza rivoluzione industriale, Mondadori, Milano, 2011.
— Spengler Oswald, Il tramonto dell’Occidente, Guanda, Milano, 1991.
— Vacca Roberto, Il medioevo prossimo venturo, Mondadori, Milano, 1971.
— Zakaria Fareed, L’era post-americana, Rizzoli, Milano, 2008.