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LETTURE / PERCHÉ L’AMORE FA SOFFRIRE


di Eva Illouz / Il Mulino, Bologna, 2013 / pp. 312, € 22,00


 

Ti/tubare e soffrire

di Adolfo Fattori

L’amore fa soffrire – fa male – come nel titolo originale del saggio di Eva Illouz, sociologa di origine marocchina che lavora in Israele – una volta tanto, un bell’esempio di superiorità del pensiero critico sull’integralismo – che sviluppa in pieno le riflessioni già accennate nei testi delle cinque conferenze raccolti in Intimità fredde (2007).

L’individualizzazione – e il presunto disincanto della fine del Novecento e dell’inizio del terzo millennio – non hanno modificato questa dimensione fatale della condizione umana: innamorarsi e soffrirne.

Risucchiati nell’irrazionalità delle emozioni e dei sentimenti amorosi, anche noi disincantati individui tardomoderni, nonostante ne siano mutati i tratti, le cause, le conseguenze, quando parliamo d’amore – e delle pene che vi sono legate – per dargli forma e provare a dargli un senso continuiamo a esplorare e a saccheggiare il Mito, da Tristano e Isotta, a Romeo e Giulietta, agli Eduardo e Ottilia de Le affinità elettive, fino ai Rick e Ilsa di Casablanca (1943), e ancora avanti, fino ai Richard e Kate di Castle una delle più belle Tv series attuali.

Il Mito resiste, infatti, come l’unica forza che per la sua adattabilità è capace di farci inoltrare in quei territori dell’esperienza che ci mettono in scacco perché ci scaraventano nell’irrazionalità, grazie alla sua vocazione a trasformarsi, ad adeguarsi alle condizioni delle varie epoche storiche e delle diverse formazioni sociali. Adattiamo volta per volta il Mito alla nostra visione del mondo, sfruttandone il nucleo simbolico, torcendolo, attualizzandolo, cercandovi la descrizione e la spiegazione della nostra condizione.

Così – riconosciuta la presenza tenace dei miti connessi alle sofferenze d’amore nel nostro immaginario – Eva Illouz dichiara la portata sociologica delle questioni connesse ai sentimenti amorosi, e rivendica la possibilità, la necessità, di analizzarli con gli strumenti della sociologia, sottraendoli al monopolio della psicologia e della “narrazione psicologica”.

L’amore ha a che fare con la struttura della nostra individualità, così come è determinata socialmente. E quindi è legittimo che la sociologia se ne occupi, cosa che finora ha trascurato di fare.

Anzi, visto il persistere delle sofferenze d’amore, e l’accordo fra studiosi di diverse discipline sul malessere che sembra segnare l’individuo contemporaneo, secondo Eva Illouz le relazioni amorose e la loro riarticolazione odierna diventano un luogo idealtipico per analizzarle come prodotto (e matrice) delle strutture sociali contemporanee. La dinamica dell’amore è centrale, insomma, per comprendere la nostra formazione sociale.

Sì, c’è stato Anthony Giddens, con il suo La trasformazione dell’intimità del 1992 (2008); e poi un po’ di ricerche quantitative, periodiche, che non hanno aggiunto molto alla conoscenza del fenomeno. Altrimenti bisogna risalire a Talcott Parsons, e al suo classico Famiglia e socializzazione (1974), che, pubblicato nel 1955, è un testo di sociologia della famiglia, quindi di una istituzione, tutto interno alla logica della funzionalità della famiglia nucleare moderna e dei ruoli da essa previsti, che ne trascurava le dinamiche reali e non si preoccupava affatto degli eventuali conflitti al suo interno, né poteva prevedere la tempesta che con l’esplosione del femminismo contemporaneo avrebbe investito questa istituzione. O a Randall Collins, che in L’intelligenza sociologica (2008), pubblicato nel 1982, vi dedica un capitolo, ma sempre nei termini di una sociologia tradizionale. Fino al recentissimo (per l’Italia, 2013) Usi postmoderni del sesso di Zygmunt Bauman, del 2001.

Né sarebbe esauriente per la sociologa nordafricana ragionare sull’amore contemporaneo in termini “quantitativi”: tempo medio di fidanzamento, durata della vita di coppia, dei matrimoni, tasso dei divorzi… dati utili, tutti, ma solo se connessi ad una teoria. Una teoria che dia conto dei rapporti fra processo di individualizzazione e attrazione erotica, scelte affettive, dinamiche di “engagement” e così via.

Su quale base scegliamo il nostro partner? Cos’è che ci frena nel dichiararci? Da cosa nascono i timori e i dubbi che abbiamo quando siamo attratti da un potenziale partner? E dopo, quando lo abbiamo conquistato, o ne siamo stati conquistati?

E, prima di tutto – pur tenendo conto del progressivo tramonto del matrimonio fra “etero” come unica opzione possibile, e del progressivo legittimarsi di unioni non istituzionali e/o fra lo stesso sesso – come scegliamo?

Allora, ponendo fra parentesi la nascita dei racconti che mettono in scena le sofferenze dell’amore, dall’amore impossibile all’amour passion, Eva Illouz si concentra sulla modernità occidentale ormai compiuta per porre alcune premesse al suo discorso: prima di tutto, con l’affermarsi del moderno anche le relazioni sentimentali sono determinate dal regime dello scambio economico, si organizzano all’interno di un mercato; ancora, bisogna guardare a come si definiscono l’ecologia e l’architettura delle scelte affettive nelle varie formazioni sociali; per finire, nella modernità matura la logica di queste scelte è definita dalla condizione di libertà e autonomia che accompagna il procedere dell’individualizzazione.

Per chiarire bene la portata di queste premesse, dopo aver ricordato come l’affermarsi del Protestantesimo avesse già prodotto almeno nell’Europa del nord i primi accenni alla valorizzazione della donna, la sociologa organizza un confronto fra il periodo a cavallo fra XVIII e XIX secolo (non a caso, forse, quello coincidente con la Rivoluzione industriale in Gran Bretagna) e gli anni che vanno dagli ultimi decenni del Novecento ai primi anni Duemila.

Così Eva Illouz si rivolge agli albori del Romanticismo, in particolare ai romanzi di Jane Austen, per esplorare il funzionamento della sfera delle relazioni affettive fra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, all’alba, insomma, della maturazione della modernità. In particolare, prendendo ad esempio Orgoglio e pregiudizio (2007), pubblicato nel 1813, la Illouz mette in luce come le relazioni sentimentali fossero ispirate e guidate, sì, dagli obblighi legati al lignaggio e ai doveri connessi al mantenimento e al rafforzamento del patrimonio – prima di tutto maschile –, ma che comunque tutta la dinamica dell’impegno matrimoniale fosse governata, in ultima analisi, dalla famiglia e dall’ambiente della donna in età da marito, il che dava a quest’ultima un potere superiore a quello che noi potremmo banalmente aspettarci. E che, in ogni caso, gli impegni presi nella sfera sentimentale erano definitivi, residuo, diremmo, del senso dell’onore dell’uomo dell’Umanesimo. Ciò che aveva valore, nella donna, era il carattere, la capacità di affrontare e gestire le situazioni, e di accettarne le condizioni e le conseguenze, con due implicazioni: che la bellezza femminile era un portato del carattere, appunto; che l’amore arrivava, sì, ma come conseguenza necessaria (ma comunque spontanea) del matrimonio. Era quindi il comportamento, cioè gli atti che concretamente venivano compiuti, a dare conto del valore delle persone e provocare l’innamoramento.

Qui c’è un aspetto importante da sottolineare, che spesso non teniamo in considerazione: per le persone dell’epoca, questi comportamenti, atteggiamenti e modi di sentire e di pensare erano naturali, spontanei, non il frutto di decisioni consapevoli: il mondo per loro funzionava così.

Le loro identità erano coerenti con i quadri sociali in cui erano immersi. L’emergere – e l’esplodere – della percezione e della consapevolezza delle istanze della sessualità era ancora di là da venire. Pure – avvertiamo – il fuoco delle pulsioni erotiche covava sotto la cenere: nei decenni immediatamente precedenti a quelli in cui la Austen pubblicava i suoi lavori si era affermato il romanzo gotico, che metteva in scena le contraddizioni fra le consuetudini matrimoniali e i desideri delle persone – Il castello d’Otranto (2007) del 1764; cfr. Auger, 2011, Fattori, 2011; I misteri di Udolpho (2010) del 1794 –, o direttamente, la forza delle pulsioni sessuali più primitive e violente – Il monaco (1994) del 1796. Due facce della stessa medaglia in conflitto fra loro, insomma: da un lato la cogenza delle istituzioni, dall’altro la forza dei bisogni profondi che cominciavano ad emergere negli individui. E il pubblico di questi romanzi era principalmente costituito da donne della borghesia emergente e agiata che, finalmente liberate almeno in parte dagli obblighi domestici, potevano cominciare a trovare una sponda per dare forma alle pulsioni profonde che le abitavano (Punter, 2006). Pulsioni potenti e inquietanti, cui si poteva dar forma e senso solo rimandandole all’immaginario dell’irrazionale, del soprannaturale, all’irruzione di forze demoniache sulla scena del mondo, in attesa che la “scoperta dell’inconscio”, come nel titolo di una famosa storia della psicologia dinamica (Ellenberger, 1976), desse senso e forma comprensibili e legittimabili alle istanze del desiderio.

Ed è qui la differenza sostanziale con l’oggi: il regime delle emozioni nella tarda modernità si sta progressivamente emancipando, se non l’ha già fatto, dai vincoli istituzionali e tradizionali, man mano che la riflessività del Sé conquista aree sempre più ampie di azione e consapevolezza. Ci percepiamo sempre di più come individui del tutto liberi, autonomi, alla ricerca della propria autenticità (qualsiasi cosa voglia dire, ma questo è un altro discorso…). E l’autenticità di ciascuno di noi, la rivendicazione a “essere se stessi” (di nuovo, qualsiasi cosa voglia dire, cfr. Fattori, 2013) è fatta anche dell’unione con il/la partner giusto/a: unico/a, come ognuno di noi.

In effetti, tutto il corso del Novecento occidentale è fatto del progressivo declino degli interdetti e dei vincoli sociali rispetto alla sessualità e alla sfera erotica, a partire dalle battaglie delle suffragette inglesi per il diritto di voto, per dispiegarsi nella Vienna del primo Novecento, come ad esempio nell’arte grafica dei vari Gustav Klimt e Oskar Kokoschka (cfr. Kandel, 2012) e nella narrativa di Arthur Schnitzler (1988) e Robert Musil (2009), che esplorano l’emergere delle istanze della sessualità femminile, e contemporaneamente della trasformazione dell’idea di bellezza – specie di quella femminile – che abbandona progressivamente il suo legame con il carattere (come nei personaggi della Austen) per attribuire il primato alla pura dimensione estetica.

Ancora, l’intera storia del cinema classico americano – vale a dire il cinema, o perlomeno la sua spina dorsale – è una storia del progressivo affermarsi delle metamorfosi dei miti connessi all’amore e alle sofferenze che porta, destinate più o meno a sanarsi: dalle sue versioni drammatiche, come in Gilda (1946), Casablanca, La fiamma del peccato (1944), e perché no, Il bacio della pantera (1942), a quelle offerte dalla commedia sofisticata, come in Scrivimi fermo posta (1940), o avventurosa, come in La regina d’Africa (1951).

Il grande cinema, come farà in seguito la Tv, accompagna il mutamento – dei costumi, dei consumi, delle sensibilità – e mostra come anche gli amori impossibili della prima modernità, quelli ad esempio fra persone di ceto diverso, o già “impegnate”, diventino possibili, come per le sartine che andavano al cinema a vedere i film sentimentali di cui scrive Siegfried Kracauer nei suoi saggi sulla società dei primi decenni del Novecento (1982)… E così per tutto il corso del secolo – il secolo della cultura e della società di massa.

Ma questa libertà ci mette in scacco, perché per definizione è reciproca, è un attributo di tutti, maschi, femmine, gay. E non valgono più gli accordi fra le famiglie, i fidanzamenti precoci, le nozze preprogrammate.

Pur riattualizzando e performando i rituali del corteggiamento e della seduzione, ognuno sceglie, su un mercato del tutto libero: e ognuno può rispondere di no, alla richiesta dell’altro. Perché non è sicuro, o sicura, perché vuole cercare ancora, o semplicemente perché l’attrazione non è reciproca. E perché, alla base di tutto, c’è il malessere profondo della condizione umana tardomoderna: un malessere che ci rende incerti, insicuri, fragili.

Come la maggior parte dei fenomeni sociali, l’amore contemporaneo ha due facce: quello della libertà di scegliere, e quello del rischio di essere rifiutati. In più, sottolinea la Illouz, per certi versi il mercato è troppo ampio, e spinge a non fermarsi mai, a continuare a cercare, nell’illusione di trovare prima o poi un altro perfetto, che forse non esiste… E fa l’esempio dei siti web e dei forum specializzati, citando interviste, post, interventi sulle chatroom.

Il risultato è il disorientamento, l’incertezza. E la sofferenza. Sentimenti ed emozioni che sentiamo governarci senza possibilità di controllo, che ci riprecipitano nell’irrazionale. E ci risucchiano in dimensioni arcaiche, premoderne, quelle dei filtri d’amore (come quello di Tristano e Isotta), del fato, del destino più o meno feroce che attende gli innamorati rifiutati…

Ma la realtà concreta spesso è differente, e più banale: gli alti livelli di autonomia raggiunti dagli individui contemporanei e nello stesso tempo le incertezze identitarie che li caratterizzano semplicemente li rendono più dubbiosi, titubanti, incerti, su se stessi e sugli altri. E rendono difficili certe decisioni. E, insieme, il crollo delle norme sociali tradizionali legate alle unioni affettive, se da un lato offre la possibilità di rompere legami percepiti come sbagliati o insoddisfacenti, lascia incerti sul futuro. Ancora una volta, è la reciprocità delle scelte e delle decisioni, la cifra della “relazione pura”, come scrive Giddens, che si rivela un’arma a doppio taglio. E ci fa titubare – e intanto soffrire – nel dichiararci e nel concederci.

La Tv offre infiniti esempi di queste dinamiche: dai talk show centrati sulla vita e i conflitti di coppia alle Tv series, il focus è sempre lo stesso: l’amore, le sue vicissitudini, le sofferenze che porta.

E così si riattualizza continuamente il Mito: attraverso il melodramma, la commedia, l’avventura. E si rinnova l’immaginario delle gioie e delle sofferenze amorose, del “colpo di fulmine”, del rifiuto senza appello. E, pur soffrendo, si rinuncia a dichiararsi, per la paura di un diniego e del rischio di sofferenze maggiori.

Solo per alcuni di noi – i più fortunati, incoscienti o coraggiosi – si rinnova l’occasione di continuare, dopo giorni come dopo decenni, ad esplorare e a rinnovare il mistero del fulmine che li ha colpiti in un passato più o meno recente.

Come dice in Amare e morire a Los Angeles, (22x3, 2011), uno degli episodi della serie di cui è protagonista, Rick Castle, autore di best seller, a Kate Beckett, la bella detective di cui si è immediatamente e perdutamente innamorato quando l’ha conosciuta – senza speranze, teme – a proposito del mistero che Beckett rappresenta per lui, che ha subito capito che lei sarebbe stata “un mistero che non avrei mai risolto. Anche ora, dopo aver passato tanto tempo con te, sono ancora sorpreso dall’intensità della tua forza, dal tuo cuore… dalla tua bellezza”.

Quella bellezza che attribuiamo all’altro, e che, collocata nella sfera dell’irrazionalità dai demoni dell’innamoramento, si interseca sempre, per tutti, col sublime (Abruzzese, 2012).

 


 

LETTURE

 Abruzzese Alberto, La bellezza per te e per me, Liguori, Napoli, 2012.
Auger Emily, Tech-Noir Film, Intellect, Bristol/Chicago, 2011.
Austen Jane, Orgoglio e pregiudizio, Einaudi, Torino, 2007.
Bauman Zygmunt, Usi postmoderni del sesso, Il Mulino, Bologna, 2013.
Collins Randall, L’intelligenza sociologica, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2008.
Ellenberger Henri F., La scoperta dell’inconscio. Storia della psicologia dinamica, Bollati Boringhieri, Torino, 1976.
Fattori Adolfo, Emily E. Auger: Infinita fertilità del Mito, oscuro nutrimento del Moderno, “Belphégor”, X/3, 2011, http://etc.dal.ca/belphegor/vol10_no3/articles/10_03_fattor_auger_fr.html.
Fattori Adolfo, Sparire a se stessi. Interrogazioni sull’identità contemporanea, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2013, in corso di pubblicazione.
Giddens Anthony, La trasformazione dell’intimità, Il Mulino, Bologna, 2008.
Goethe Wolfgang, Le affinità elettive, Einaudi, Torino, 2007.
Illouz Eva, Intimità fredde, Feltrinelli, Milano, 2007.
Kandel Eric, L’età dell’inconscio, Raffaello Cortina, Milano, 2012.
Kracauer Siegfried, La massa come ornamento, Prismi, Napoli, 1982.
Lewis Matthew, Il monaco, Mondadori, Milano, 1994.
Musil Robert, Tre donne, Einaudi, Torino, 2009.
Parsons Talcott, Famiglia e socializzazione, Mondadori, Milano, 1974.
Punter David, Storia della letteratura del terrore. Il «gotico» dal Settecento a oggi, Editori Riuniti, 2006.
Radcliffe Ann, I misteri di Udolpho, Rizzoli, Milano, 2010.
Schnitzler Arthur, La signorina Else, Adelphi, Milano, 1988.
Walpole Horace, Il castello d’Otranto, Rizzoli, Milano, 2007.

 

VISIONI

 Curtiz Michael, Casablanca, Warner Home Video, 2005.
Huston John, La regina d’Africa, Cecchi Gori Home Video, 2012.
Lubitsch Ernst, Scrivimi fermo posta, Record Service, 2009.
Marlowe Andrew W., Bowman Rob e Schindel Barry, Castle, Beacon Television, ABC Studios, 2009-2013.
Tourneur Jacques, Il bacio della pantera, Terminal Video, 2011.
Vidor Charles, Gilda, Sony Pictures Entertainment, 2010.
Wilder Billy, La fiamma del peccato, A & R Productions, 2012. .