ASCOLTI / CLOUD ROOM, GLASS ROOM
di Pan•American / Kranky, 2013
Alla deriva nella città d'acqua
di Livio Santoro
In musica esistono intere porzioni di universi che, così sembra, riescono a non avere nulla a che fare con tutto il resto. Si tratta, talvolta, di ambienti soffici e sottili, bocce di vetro chiuse dall’interno in cui però entrare non è affatto un’impresa impossibile; tutt’altro. Si tratta, ancora, di mondi solitari nei quali l’umano è preferibilmente uno stadio ormai precedente e sorpassato, ovvero ambienti piuttosto desertici, evolutisi per l’esattezza allo scopo di dare spazio ai toni sommessi e attenuati della calma inorganica che si deve ad un tempo esteso e definitivo, oltre il quale sembra che nulla può più accadere; fortunatamente, direbbero alcuni. Tuttavia, per dare concretezza a quanto si va dicendo, non bisogna pensare a quadri foschi dalle brunite tinte apocalittiche, non bisogna immaginare il postremo risultato di un cataclisma nucleare irreversibile e nemmeno il distopico controllo di una cinematografica tirannia di macchine feroci. Ci si deve figurare tutt’altra cosa.
Ecco, per esempio, che per individuare uno di questi mondi garbati e accoglienti, per quanto sigillati e stagni, basta girare lo sguardo verso un progetto che, ormai da quindici anni, l’artista statunitense Mark Nelson sta a poco a poco edificando con coerente dovizia di temi e sorprendente continuità qualitativa. Questi è infatti il pacato ed unico architetto di una città in costante espansione, una metropoli fluida e abissale fatta essenzialmente di suono, dove non passeggiano né donne né uomini (a dirla tutta nemmeno pesci, polpi e anemoni marine) e dove non si sentono né chiacchiere né scalpiccii. Cloud Room, Glass Room, album recentemente pubblicato dall’etichetta di Chicago Kranky, è l’ultimo tassello nel mosaico che costruisce questo mondo, l’ultimo quartiere aggiunto alla sua pianta urbana.
Già chitarrista e (raramente) voce nella band post-ambient-rock, scioltasi definitivamente nel 2002, Labradford – di cui non si può non ricordare quel capolavoro assoluto di raffinata psichedelia che è Mi media naranja (1996) –, dal 1998 Nelson si è incamminato anche sul sentiero riflessivo del solista, mettendo in piedi la one man band Pan•American che, fin dal suo esordio, con il self-titled album Pan•American (1998), ha tracciato la cartografia di uno spazio invisibile e fantastico – si potrebbe dire, grosso modo, ricordando le città di Italo Calvino (1996) o più di recente quelle di Bernard Quiriny (2013) –, al cui interno si sviluppano storie senza protagonisti, miracoli descrittivi che tratteggiano orizzonti anche soltanto accennandone il profilo, che innalzano palazzi vuoti e che percorrono continuamente strade e cavalcavia fatti, come è ovvio che sia, d’acciaio, asfalto e cemento; tutto etereo, però, tutto di suono, di fluidi ubiquitari. Nulla di nuovo, si direbbe, d’altronde questa è la normale vocazione dell’ambient music, soprattutto quando essa si pone come braccio di un ampio quadrivio in cui confluiscono pure l’elettronica e i suoi parenti (il trip hop, nella fattispecie), il già citato post-rock (di cui purtroppo parleremo in questi termini fin quando non avremo imparato a dimenticare tale termine antipatico forte di un suffisso ancor più antipatico e seccante) e l’altrettanto già citata psichedelica (per la verità ormai onnipresente ai quattro angoli della musica).
Tuttavia va detto che dal 1998, ossia, come detto, dall’anno di esordio del Nelson solista, Pan•American ha fatto ben altro che seguire lo schema tipico dell’ambient passeggera dei giorni nostri, per condensare invece nel suo spazio immaginario il succo più puro dell’ideologia Kranky. Tra il 2000 ed il 2004, infatti, vengono stampati tre album di una sequenza superlativa (360 Business / 360 Bypass, 2000; The River made non Sound, 2002; Quiet City, 2004) in grado di offrire a Pan•American le ali per un volo librato ben al di sopra della superficie media dell’ambient e dell’elettronica, un volo vagamente lisergico ma, e questo è il suo punto di maggior forza, mai manieristico né auto celebrativo e nemmeno metafisico, come purtroppo spesso succede. Un volo garbato, insomma, che in nessun modo sembra voler trascinare forzatamente l’ascoltatore all’interno delle sue teorie costitutive. Detto in altri termini, la musica di Pan•American non è mai stata manifesto di se stessa. E figurarsi che in molti, a torto o a ragione non importa, hanno addirittura scomodato Brian Eno allo scopo di rintracciare una pietra di paragone valida per Nelson.
Qualche anno più tardi tocca ad un nuovo disco memorabile intitolato White Bird Release (2009), in cui è la ricerca degli spazi siderei a farla da padrone; spazi che ben si adattano a quelli acquatici già descritti, ossia localizzazioni a gravità attenuata, come sul fondo degli oceani. La track list di quest’ultimo disco, con i suoi nove titoli, palesa fin da subito siffatta intenzione di visitare i luoghi che stanno al di là della nostra atmosfera componendo, in sequenza, il testo di una lettera che Robert Goddard, inventore di razzi e sognatore, inviò nel 1932 a Herbert George Wells, inventore di mondi e ugualmente sognatore: “There Can Be No Thougt Of Finishing / For «Aiming The Stars»/ Both Literally And Figuratively/ Is A Problem To Occupy Generations/ So That No Matter/ How Much Progress One Makes/ There Is Always The Thrill Of Just Beginning/ Dr. Robert Goddard/ In A Letter To H.G. Wells, 1932”.
Sicché arriviamo ai giorni nostri, appunto a quell’ultimo tassello della città d’acqua che è il recente Cloud Room, Glass Room, disco, sembrerebbe, ispirato dalle atmosfere aeroportuali. Anche qui, come nei precedenti album, il loop, il riverbero e il crescendo sono materia sottostante basilare senza la quale l’incedere del suono fluido sarebbe inimmaginabile (sia detto a margine, questo parallelismo tra atmosfere aeroportuali, riverbero e loop lo leggiamo anche nell’album del 2007 della violoncellista Julia Kent, Delay, le cui note sono state scelte da Paolo Sorrentino in This Must Be the Place, film del 2011, proprio per dare il senso dello sfasamento spaziale e temporale di chi viaggia). Quest’ultimo album è tutto giocato su una sorta di raffreddamento delle vecchie tonalità allo scopo di offrire un sound vagamente più cupo, ma sempre accogliente, che rende ancora inequivocabile il tocco di Nelson. Chi abbia appena concluso l’ascolto dell’album del 2009, infatti, facendo girare Cloud Room, Glass Room, vi troverebbe la dissoluzione della coda di White Bird Release, in una sfumatura che, ricomponendosi, rende il medesimo carattere tipico di Pan•American anche se, come detto, in una tonalità umorale leggermente più bassa. È esattamente in questo modo che The Cloud Room, traccia d’apertura, apre le porte a un disco di fattura davvero elevata, fino all’eccezionale chiusa di Virginia Waveform, che con i suoi droni debolmente graffianti e reiterati in costante crescendo (fonte di suoni mai disperati, come invece capita spesso in questi casi) dà vigore a quel mondo acquatico in cui finora ci siamo mossi come un fluido tra i fluidi, presagendo forse che in futuro Pan•American s’adagerà ancora di più sugli squarci interni, vagamente drammatici ma in questo caso mai autocommiserativi, che ogni città, anche quella più subacquea che ci sia dato conoscere, anche quella più disabitata possiede. Per quanto ci riguarda, in occasioni come quelle reseci possibili da Pan•American, dalla sua produzione e da questo suo ultimo Cloud Room, Glass Room (che, consigliamo vivamente, più di ogni altro disco non deve essere ascoltato su deezer.com), la cosa migliore da fare è andare alla deriva come un liquido tra i liquidi, diventando parte inorganica di quella stessa città d’acqua che ci accoglie. Dove poi ci porteranno le correnti, ebbene, questa è un’altra storia.
ASCOLTI
— Kent Julia, Delay, Important, 2007.
— Labradford, Mi media naranja, Kranky, 1996.
— Pan•American, Pan•American, Kranky, 1998.
— Pan•American, 360 Business / 360 Bypass, Kranky, 2000.
— Pan•American, The River made non Sound, Kranky, 2002.
— Pan•American, Quiet City, Kranky, 2004.
— Pan•American, White Bird Release, Kranky, 2009.
LETTURE
— Calvino Italo, Le città invisibili, Mondadori, Milano, 1996.
— Quiriny Bernard, La biblioteca di Gould, L’orma, Roma, 2013.
VISIONI
— Sorrentino Paolo, This Must Be the Place, Medusa Film, 2011.