qfacebook
filo_bianco
image

 

VISIONI / WORLD WAR Z


di Marc Forster / Plan B, 2013


 

E morirono tutti decomposti e contenti

di Roberta Iannarone

Prendete un genere di tendenza come l'horror zombie. Aggiungete una superproduzione di milioni e milioni di dollari, un superdivo del cinema e un super best-seller del tipo "come avvenne un'apocalisse zombie e noi riuscimmo a cavarcela egregiamente". Ecco a voi World War Z, ultima fatica (e il termine qui è da prendere alla lettera) cinematografica sul tema del morto vivente. Tratta dall'omonimo romanzo del 2006 di Max Brooks e diretta da Marc Forster, già regista di Quantum of Solace (Usa, 2008), la pellicola si apre con l'inizio di un'epidemia di uno strano virus che rianima i morti trasformandoli in terribili mostri azzanna-uomini. Protagonista – nonché produttore – è un Brad Pitt in splendida forma fisica, nei panni dell'ex investigatore delle Nazioni Unite Gerry Lane richiamato alle armi, che sballottato qua e là in giro per il globo, riuscirà a salvare l'umanità dalla misteriosa quanto fatale epidemia di “ritornanti”.

World War Z è arrivato nelle sale dopo ben due rinvii e una storia produttiva abbastanza travagliata tra cambi di sceneggiatore e scene rigirate: quasi un terzo della pellicola è infatti il risultato di un reshooting dell'ultim'ora che ha modificato di sana pianta il finale previsto in prima battuta – molto più avvilente e catastrofico – con cui si lasciava sospesa la narrazione, magari in vista di un futuro sequel. Un'operazione di “riconversione” che probabilmente è servita non solo a farne una storia autoconclusiva ma anche a renderne la visione adatta ad un pubblico under 18, con un “lieto fine” molto più rassicurante e in linea con la scarsa presenza di sangue e budella – che di norma invece abbondano copiosamente in questo genere di lungometraggi. Con questo film si può dire finalmente conclusa l'operazione di blockbusterizzazione di un filone dell'horror che fino a pochi decenni fa era considerato un fenomeno di nicchia, relegato spesso e volentieri nell'alveo dei B-movies (non di rado a causa dei penosi effetti speciali) e il cui pubblico di riferimento era costituito quasi esclusivamente da fanatici brufolosi a caccia di facili spaventi. Con l'inizio del nuovo millennio, il mito del morto vivente ha infatti compiuto una rapida ascesa verso il cinema mainstream, grazie anche all'implementazione delle nuove tecnologie della computer graphic, sempre più all'avanguardia. Probabilmente nel processo di fioritura del genere ha giocato un ruolo decisivo il successo di alcuni videogames horror sul tema, tra cui Resident Evil, titolo della Capcom da cui è stato tratto il film del 2002 con Milla Jovovich, forse uno tra i primi a riportare in auge il mito dello zombie. Si è poi assistito ad una vera e propria escalation, fino ad arrivare all'exploit degli anni Dieci del Duemila, a volte sacrificando in nome della riuscita commerciale parte della componente politica delle prime opere del genere, come The Night of Living Dead (1968) e Dawn of the Dead (1978) di George A. Romero, in cui è palese la critica nei confronti della società consumistica americana (e per estensione occidentale).

Accolto con enorme successo nelle sale di tutto il mondo, il primo kolossal zombie della storia del cinema ha raccolto invece scarso entusiasmo da parte dei cinefili puristi del genere: tra i detrattori di World War Z, c'è chi taccia di eresia regista e sceneggiatore per alcune modifiche apportate al classico "living dead" di romeriana memoria, piuttosto lento nei suoi movimenti, spinto da un unico famelico istinto, cioè divorare tutto ciò che lo circonda e che è ancora in vita. Gli zombie di Forster e compagnia sembrano piuttosto dei maratoneti, corrono come degli invasati e il loro unico obiettivo è mordere e contagiare il più possibile ma senza poi banchettare con i resti delle loro povere vittime (che possono così trasformarsi in tutta tranquillità in altrettanti maratoneti in decomposizione).

Al di là comunque di sterili polemiche che lasciano il tempo che trovano, il film di Forster, sebbene strizzando un po' l'occhio agli action movies che tanto piacciono alle majors di Hollywood, rientra comunque nei canoni del cinema zombie: l'origine del contagio è (e rimane) pressoché sconosciuta, ma ad un certo punto si allude a una mutazione genetica di un ceppo della rabbia. La zombificazione da virus è uno dei fattori scatenanti più utilizzati per giustificare l'inizio dell'epidemia di “walking dead”, come vediamo ad esempio in 28 giorni dopo (Uk, 2002) di Danny Boyle o nella saga di Resident Evil con il famigerato “T-virus” confezionato dalla “Umbrella Corporation”. Spesso virus creati in laboratorio dallo scienziato pazzo di turno, che come un dio (una scimmia di dio) pensa di poter decidere delle sorti di noi comuni mortali. Questo mette sul piatto una questione importante, cioè come l'horror riesce a portare sul grande schermo non solo le paure ancestrali dell'uomo, ma anche le ansie e le ossessioni dell'età moderna e post-moderna.

In quest'ottica, World War Z rappresenta l'ultimo esempio di declinazione della figura del morto vivente in quanto mito della contemporaneità. Secondo Gustav Jung, il mito è uno dei modi in cui la psiche umana percepisce, comprende e costruisce i propri rapporti con il mondo esterno, uno strumento che attraverso il suo valore simbolico soddisfa il bisogno dell'uomo di rappresentare i propri traumi. Tra i vari generi nel panorama dell'industria culturale, l'immaginario messo a punto dalla cinematografia horror si rivela essere un indice estremamente efficace del complesso di emozioni, desideri e soprattutto fobie della società occidentale: tra queste, l'angoscia per gli effetti nefasti dell'uso deviato delle conquiste del progresso scientifico. Quando Romero portò sul grande schermo i suoi mostri che tornavano dalla tomba era il 1968, uno dei momenti peggiori della Guerra Fredda: la popolazione mondiale era attanagliata dal terrore di una possibile distruzione totale, attuata per mano dell'uomo stesso. E in The Night of Living Dead sono proprio le radiazioni a riportare in vita i “cari” estinti. Oggi, dopo gli attacchi terroristici con l'antrace messi a segno nel 2001, abbiamo imparato che anche gli agenti patogeni possono essere usati come armi di distruzione di massa anche peggiori di una bomba atomica, e che sono capaci di decimare il genere umano ad un ritmo impressionante: come Frankenstein (e prima di lui Prometeo) insegna, la creatura si ribella e si ritorce contro il proprio creatore.

Una tra le critiche più gettonate ricevute dal film riguarda la divergenza con l'opera di Brooks di cui pretende essere un adattamento, ma si configura piuttosto come un prequel (e qui i fan del romanziere si scagliano in un sonoro "sciagura a voi!"). Tuttavia la pellicola, che effettivamente racconta una storia molto diversa rispetto al libro, riesce a mantenersi abbastanza fedele al clima, allo spirito e al messaggio veicolato dall'opera originale. Sia Forster che Brooks pongono infatti l'accento su un possibile ritorno alla selezione naturale della specie. Quali sono i criteri in base ai quali un individuo può misurare il proprio successo nella vita? La posizione sociale, il reddito, il livello culturale e così via sono ciò che determinano se siamo dei vincenti o dei falliti. Ma in caso di “armageddon” tutto ciò non ha più senso, a cosa servono i soldi quando non esiste più un sistema economico? A cosa serve essere un manager se non ci sono più aziende da dirigere? Nella prima parte del film il virologo indiano inviato in missione per studiare una cura muore tragicamente (e un po' anche stupidamente) lasciando la missione in mano ai militari e a Gerry Lane. Il libro porta invece numerosi esempi di come grandi dirigenti, incapaci di qualsiasi lavoro manuale, vengono scavalcati da coloro che prima dell'invasione erano relegati nelle fasce più umili, come muratori, macchinisti, falegnami. Sul sapere, sull'intelletto, vincono l'istinto, l'ingegno, l'abilità, tutte quelle caratteristiche frutto dell'apprendimento empirico che hanno fatto sì, nel corso dei millenni, che l'uomo acquisisse la capacità di conoscere, analizzare e sopraffare le forze della natura, per la sopravvivenza e la prosecuzione della specie.

World War Z, insieme a tutta una serie di film su potenziali epidemie zombie, rientra anche in un'altra macrocategoria, quella del catastrophic movie, una delle tendenze più in voga nella filmografia americana dell'ultimo decennio: narrazioni in cui si racconta di come il mondo si stia dirigendo o sia già arrivato alla sua fine e di come l'intrepido eroe di turno – più o meno senza macchia e senza paura e il più delle volte eroe malgré-soi – riuscirà a salvare l'umanità dall'estinzione. Ironia da due soldi a parte, è importante individuare il perché di tanto successo delle pellicole a carattere apocalittico e post-apocalittico. A questo proposito è emblematico il monologo conclusivo della pellicola in analisi.

Sullo schermo scorrono le immagini, provenienti da ogni angolo del pianeta, dei campi di battaglia e degli aerei che distribuiscono i vaccini ai superstiti, mentre la voce off di Gerry Lane recita allo spettatore queste parole: “Se potete combattere fatelo. Aiutate gli altri. Siate pronti a tutto. La guerra è appena iniziata”. Il messaggio è rivolto a coloro che sono scampati all'epidemia: in realtà sta parlando ad una platea di uomini e donne che stanno vivendo la “loro” fine del mondo, o meglio, stanno avendo la percezione di vivere in un mondo che ormai è già definitivamente crollato, devastato dalla “grande crisi economica” di inizio anni Dieci. E sta dicendo loro che devono tenere duro, che i tempi sono bui ma che nonostante tutto si può sopravvivere a tutto questo, pertanto non bisogna arrendersi mai.

La sindrome da “fine del mondo percepita” che affligge l'Occidente (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 17) oggi è simile per certi versi a quanto accadeva negli anni Ottanta del secolo scorso, quando la prospettiva dell'esaurimento delle risorse ingenerò nella popolazione mondiale quella sensazione di non avere più un futuro, che a sua volta avrebbe portato alla nascita di fenomeni culturali e politici, come ad esempio il cyberpunk.

Guardando a quanto è accaduto nella storia recente, tutta una serie di sfortunati eventi – quali terremoti, uragani, tsunami, senza dimenticare la tragedia delle Twin Towers, il trauma con cui l'America ha aperto il nuovo millennio – hanno reso sempre più credibili certe oscure ed enigmatiche profezie. Di certo molto più concrete e realistiche sono state invece le conseguenze della crisi economica tuttora in corso e che ha messo in ginocchio l'intero sistema capitalistico occidentale. Ecco dunque scatenarsi nell'immaginario collettivo al di là (e al di qua) dell'Atlantico un'irrazionale fobia da apocalisse imminente, declinata in tutte le versioni e in tutte le salse, e magari corredata da qualche cadavere che torna a deambulare (come insegna l'apostolo Giovanni). Quasi un fenomeno di isteria collettiva, che si incanala in prodotti culturali come film, libri e serie tv sul tema catastrofico. È possibile anche interpretare il grande successo del genere zombie e horror apocalittico come una sorta di presa di coscienza, come se la società occidentale ormai al collasso avesse finalmente compreso che è proprio il sistema di principi e di norme su cui essa si basa ad averla portata alla rovina. Pensiamo a ciò che realmente fa più paura, cioè il lento processo di disumanizzazione della specie che scaturisce dall'epidemia, il quale avviene in due direzioni: la prima, più scontata e più rapida, è data dal contagio e quindi dalla trasformazione degli esseri umani in mostri; la seconda è invece più sottile e riguarda coloro che umani lo sono ancora ma a cui di umano è rimasto ben poco. Lo zombie, oltre a divorare i corpi, mette in crisi l'assetto stesso della società, minandone le basi su cui è stata costruita: ogni norma della convivenza civile viene sovvertita, viene meno qualsiasi barriera etica o morale e torna in vigore la legge del più forte. Se questo elemento è abbastanza presente all'interno della pellicola di Forster, lo è molto di più nel libro di Max Brooks ed è una costante anche in altre opere contemporanee, come ad esempio in The Walking Dead (Usa, 2010-2013), la serie tv tratta dal fumetto omonimo di Robert Kirkman, dove ognuno dei personaggi finirà col compiere la propria e personalissima discesa verso gli inferi. In questo senso, la recente ascesa di questo genere nel panorama dell'attuale industria culturale può considerarsi come l'indice di un bisogno di cancellare tutto e ripartire da zero: una fine del mondo, certo, ma intesa come un evento traumatico che pone fine ad un mondo e che coincide con il principio di una nuova era. La fine dell'individualismo, del capitalismo spietato e dell'indifferenza come l'inizio di un nuovo modo di pensare, strutturare e vivere la società.

 


 

LETTURE

 Abruzzese Alberto, La grande scimmia. L'immaginario collettivo dalla letteratura al cinema e all'informazione, Luca Sossella Editore, Roma, 2007.
Brooks Max, World War Z. La guerra mondiale degli zombi, Cooper, Roma, 2013.
Campbell Joseph, Mito e modernità. Figure emblematiche di un passato antichissimo nell'eperienza quotidiana, Red Edizioni, Milano, 2007.
Frezza Gino, La macchina del mito tra film e fumetti, La Nuova Italia Editrice, Scandicci (Fi), 1995.

 

VISIONI

 Anderson Paul William Scott, Resident Evil, Sony Pictures, 2012.
Boyle Danny, 28 giorni dopo, 20th Century Fox Home Entertainment, 2004.
Romero George A., La notte dei morti viventi, RaroVideo 2011.
Romero George A., Dawn of the Dead, Moviemax Media Group, 2004.