LETTURE / DI BESTIA IN BESTIA
di Michele Mari / Einaudi, Torino, 2013 / pp. 223, € 19,50
Dall'uomo all'angoscia
di Livio Santoro
Probabilmente ogni libro di Tommaso Landolfi è una bisaccia di panno morbido che contiene gemme e preziosi, e ognuno di questi preziosi può dimostrare, con una certa luce e da una certa angolazione, di essere in grado di rifrangere il mondo di noialtri umani, meschini o probi non importa, nel breve volgere di un semplice sguardo fugace, di un rapido passaggio di voce, perturbandone i colori e ritratteggiandone arbitrariamente i contorni. Prendiamo una di queste bisacce: In società (Landolfi, 2006). E prendiamo una delle gemme lì contenute: I due figli di Stefano. Ecco, nell’incipit (arma essenziale nella panoplia letteraria di Landolfi), quella rifrazione in grado di strutturare per un attimo minimo e indefinito, ma nonostante questo totale, un’immagine del mondo aliena eppure assai concreta: “A suggellare il suo fallimento nella letteratura e nella vita, Stefano si sposò. Il che ad ogni modo vuol dire che tra le due, qualunque fosse in realtà la più importante, aveva vinto la seconda. Ma ecco che appunto ora, quando già tutto era dato per perso, la prima parve volesse riprendere i suoi diritti esclusivi”.
Così comincia la storia. Finirà con la letteratura che inizialmente si prende la sua rivincita sulla vita, nella fattispecie attraverso le immateriali fauci di Patrizio, il figlio letterario (dunque un personaggio) di Stefano (dunque uno scrittore, almeno nelle intenzioni), a manducare, altrettanto immaterialmente ma non troppo, il feto satanico di Andrea, il figlio biologico dello stesso Stefano, aborto sventurato e repellente (dunque suo fratello, gemello se vogliamo, data la contemporaneità della rispettiva gestazione). Tuttavia la vita, che per quanto ci è dato sapere forse è più meschina della letteratura, affianca nuovamente quest’ultima donando a Stefano la consapevolezza che anche l’altro suo figlio, quello letterario, non è che un fallimento senza utilità, sostanza intangibile buona soltanto per la memoria funesta di un padre sciagurato a cui l’esperienza ha per due volte donato la più tragica delle vicende: conoscere la morte del proprio figlio.
La letteratura e la vita, nel caso del racconto di Landolfi appena seguito, combattono l’acre conflitto che sempre sta dentro l’anima del narratore. Il campo di questa battaglia, o almeno la bruma che lo rende indistinto, nemmeno a dirlo, è l’angoscia. E lo è già prima che gli innumeri caduti di quest’alterco violento prendano a concimare le zolle di terra; prima ancora che diano nutrimento e sollazzo all’ingordigia dei vermi, per di più.
Storie siffatte in letteratura sono tante, si prenda per esempio uno dei più classici e clamorosi dei nostri romanzi del Novecento, Se una notte d’inverno un viaggiatore (Calvino, 1979). Oppure si prenda, per parlare d’oggi, quell’umbratile raccolta di impressioni che è Scrittori, del franco-russo Antoine Volodine (2013, cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero43), autore che già di per sé, nascosto nel camuffamento dello pseudonimo, vive nell’ombra. O ancora, per tornare al nostro confortevole suolo patrio, si prenda Di bestia in bestia, romanzo d’esordio di Michele Mari (edito da Longanesi nell’anno 1989), volume che, dopo più di vent’anni dalla sua originaria edizione, viene oggi riproposto da Einaudi, non soltanto in nuova veste ma anche in nuovo contenuto, non stravolto bensì tagliato e suturato rispetto al precedente. Pertanto, dopo Io venìa pien d’angoscia a rimirarti (Mari, 2012, cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero42), da poco ripubblicato in seguito ad anni di assenza dalle librerie (ma in questo caso senza tagli o ripensamenti di sorta), anche un altro grande romanzo dello scrittore milanese, a suo dire quello della vita, trova nuovo spazio sugli scaffali che gli spettano.
Sicché Di bestia in bestia, nel suo essere tale, ossia romanzo della vita, non può far altro che nascondere al suo interno, e nemmeno molto celatamente, la trama inconfondibile e generale dell’uomo alle prese con l’angoscia, o almeno è così che ci piace pensarla. La stessa angoscia che abbraccia la produzione di Landolfi, d’altronde. E ancora la stessa, seppure con diversi toni e numerosi distinguo, che vive in filigrana nel citato romanzo di Calvino. Non è un’intuizione degna di clamore, l’accostamento di Mari con questi altri due autori della nostra letteratura. Tutt’altro. È invece ovvietà autoevidente. Tutti e tre, per quanto ci è dato supporre, poiché ogni dire non è altro che supposizione, ipotesi e congettura, ci sembra abbiano ragionato su quelle increspature del reale, nel nostro caso a partire dall’esperito dello scrittore stesso, da cui bene o male sempre scaturisce il fantastico. Un altro incipit di Landolfi (un’altra di quelle fertili rifrazioni che si hanno al fugace sguardo verso una gemma preziosa) in questo caso quello del racconto Voltaluna (Landolfi, 2001), recita: “Si danno ore, e perfino interi giorni, che sono, lo dico senza ambagi, come strappi nel tessuto approssimativo e plausibile della nostra esistenza. Il potere che presiede a tali cose accumula allora contro di noi, quasi accuse sporte a un oscuro tribunale, fatti a sfavore e, insomma, sembra applicarsi a renderci vivo e presente il senso della morte, che è, secondo il parere di una nostra giovane scrittrice, supporto e fondamento a ogni opera d’arte degna di questo nome”.
Ecco. Autori come quelli di cui abbiamo parlato, Mari in ultimo, legittimo prosecutore della tradizione di Landolfi e Calvino, indagano e frequentano proprio quegli “strappi nel tessuto approssimativo e plausibile della nostra esistenza” da cui viene fuori prima l’angoscia e poi il senso della morte, che bene o male ne è conseguenza. A pensarci, l’autore di Di bestia in bestia l’ha fatto anche in Rosso Floyd (Mari, 2010, cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero29), per esempio, in cui sono il senso drastico della distruzione e quello oltremondano della negazione a dare sostentamento e foraggio all’opera d’arte di Syd Barrett e degli altri; o anche nel già citato Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, in cui Giacomo Tardegardo Leopardi, nostro poeta giovane e chino, scopre la propria antica e sacrificale parentela con la Luna.
Torniamo allora all’eterna battaglia invisibile che si combatte all’interno del narratore, e sosteniamo che proprio questa, in quanto battaglia e soprattutto in quanto invisibile, è primo agente e testimone della frattura, dell’emergere di strappi, che Landolfi ci racconta.
Mari, in una recente intervista, ha dichiarato di aver “sempre sentito la scrittura come un corpo a corpo con la [… propria] vita” (Coccia, 2012), non facendo mistero della fondamentale metafora bellica che sottostà all’atto del narrare e su cui qui stiamo indugiando. E proprio questa metafora vive anche in Osmoc, protagonista del racconto di Di bestia in bestia. Nelle sue parole, e nel suo costruire la trama della propria vita, giusto mentre questa va svolgendosi e compiendosi al cospetto di una platea casuale e sgomenta, è possibile leggere esattamente tale disposizione di un autore che, attraverso l’ironia (spesso tramite letterario dell’angoscia) di certo appartenente all’equipaggiamento di Mari, annuncia quelle formulate paure indicibili, poiché wittgensteinianamente non possono essere dette, concretizzandole nel proprio tratto biografico. C’è probabilmente l’inattuale uomo Mari prima che l’autore, se questa distinzione ha un senso, a muovere le labbra di Osmoc. D’altronde anche quest’ultimo, nel suo riferirsi alle dinamiche interne delle lettere belle per dare un senso alla propria esistenza, vive l’attività poietica della narrazione come un corpo a corpo con la vita, come un alterco inconcluso e drammatico, nel senso policromo dell’aggettivo stesso. Osmoc, nel suo rapportarsi al mondo attraverso l’eloquio e la misura della biblioteca, si costruisce da sé, al modo di un esaltato fissato come quelli descritti da Ludwig Binswanger (2009), ponendo davanti al proprio cospetto un obiettivo verticalmente irraggiungibile, la domesticazione del furore e l’idealizzazione asessuata dell’amore, e protendendosi (fenomenologicamente) verso il passato immateriale soltanto incontrato nei libri.
Nelle pagine del suo Filologia dell’anfibio (2009), Mari sostiene: “Ci sono persone per le quali il passato è la sola dimensione reale. Per queste persone vivere significa essenzialmente aggiornare il proprio passato; di tale aggiornamento esse hanno coscienza discontinua, apparendo loro talvolta come conservazione, talvolta invece come perdita. È in simili momenti di lutto che queste persone, inorridite dal dilapidante cangiare della vita, chiedono soccorso alla letteratura. Ma la letteratura è dea intollerante, e gelosa della vita esige da loro il sacrificio che più le ricorda la rivale: va così che quelle persone debbano rinunciare a ciò che più premeva loro, riprodurre la continuità della vita fra il suo accendersi nella nascita e il suo spegnersi nella morte”.
In Di bestia in bestia la parabola dell’angoscia si compie attraverso Osmoc in maniera siffatta, spegnendosi nella morte, in un irriproducibile crollo di scaffali pieni di libri, vomitati dal furore che, nonostante gli sforzi dello stesso Osmoc, non ha avuto domesticazione. Si compie l’ultimo volgere del martirio dell’angoscia, simile a quello dello Stefano di Landolfi con cui abbiamo aperto. Quel disegno sacrificale che bene o male, a nostro parere, è “supporto e fondamento a ogni opera d’arte degna di questo nome”.
LETTURE
— Binswanger Ludwig, Tre forme di esistenza mancata, Bompiani, Milano, 2009.
— Calvino Italo, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Einaudi, Torino, 1979.
— Mari Michele, Di bestia in bestia, Longanesi, Milano, 1989.
— Mari Michele, Filologia dell’anfibio, Laterza, Roma-Bari, 2009.
— Mari Michele, Rosso Floyd, Einaudi, Torino, 2010.
— Mari Michele, Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, Cavallo di Ferro, Roma, 2012.
— Coccia Andrea, Una lotta con il mostro fin nei meandri dell’abisso – Conversazione con Michele Mari, in el Aleph, 2012, http://elaleph.it/2012/02/19/una-lotta-con-il-mostro-fin-nei-meandri-dellabisso-conversazione-con-michele-mari.
— Landolfi Tommaso, La spada, Adelphi, Milano, 2001.
— Landolfi Tommaso, In società, Adelphi, Milano, 2006.
— Volodine Antoine, Scrittori, Clichy, Firenze, 2013.