VISIONI / PARADISE: LOVE, PARADISE: FAITH, PARADISE: HOPE
di Ulrich Seidl / Mymonetro, 2011, 2012, 2013
Inferni ravvicinati di ogni tipo
di Patrizia Simone
Cannes, Venezia, Berlino. Con il suo trittico di paradisi l'austriaco Ulrich Seidl sembra aver fatto centro, se non al botteghino, nei festival di culto dei cinefili europei.
Scritta a quattro mani con la moglie Veronika Franz e fotografata da Ed Lachman, la trilogia racconta le vacanze di tre donne austriache, imparentate tra di loro. I titoli dei tre capitoli, ispirati alle virtù teologali (carità, fede e speranza), suggeriscono il tema su cui ognuna delle protagoniste ha costruito la propria idea di felicità: in modo diverso tutte e tre portano avanti una donchisciottesca ricerca di un angolo di paradiso in terra.
Apparso l’anno scorso a Cannes, il primo capitolo, Paradise: Love documenta le vacanze in Kenya della cinquantenne Teresa (una straordinaria e credibilissima Margarethe Tiesel), partita alla ricerca di un’esperienza esotica come turista del sesso. Paesaggi da cartolina fanno da sfondo a un florido mercato della prostituzione in cui giovani africani si guadagnano da vivere offrendosi come amanti a donne europee di mezza età. Le appesantite sugar mamas però non si limitano a chiedere ai giovani amanti prestazioni sessuali: quello che cercano è soprattutto l’illusione di un innamoramento, la tenerezza di un legame, lo scintillio di un sentimento spontaneo e disinteressato. Dal canto loro, gli aitanti giovanotti sembrano ben consapevoli dei desideri profondi delle loro clienti e fanno del loro meglio per allestire la messa in scena di un rapporto amoroso. Il giovane Munga non chiede soldi a Teresa come compenso per i rapporti sessuali che consumano ma come aiuto gratuito per supportare la famiglia in difficoltà. Poco importa se è chiaro che la sedicente sorella di Munga è in realtà sua moglie: Teresa sembra disposta a credere a tutto prima di doversi arrendere all’evidenza. Sebbene il film di Seidl non sia il primo ad esplorare la prostituzione maschile a uso e consumo di turiste occidentali (si veda Vers le sud di Laurent Cantet, 2005), Paradise: Love lo fa con una onestà spietata, che non risparmia nessuna crudezza allo spettatore, né smussa in alcun modo le grottesche asperità del reale.
Ma i paradisi della carne non sono l’unica strada per la felicità: altri, come la protagonista di Paradise: Faith, preferiscono rifugiarsi nella fede. Anna Maria (Maria Hofstätter, già attrice per Seidl in Canicola, 2001 e Import/Export, 2007), sorella della Teresa del segmento precedente, è tecnico radiologo e vive da sola a Vienna. Fervente cattolica, ogni momento della sua vita quotidiana è intriso di una religiosità che porta i segni del fanatismo: la donna prega, suona e canta inni religiosi, parla con Gesù e organizza incontri con altri fedeli nella speranza che “tutta l'Austria diventi cattolica”. Inoltre decide di dedicare le sue vacanze estive al proselitismo e – armata di una statuetta della Madonna – bussa di casa in casa per evangelizzare le aree più problematiche e degradate della periferia viennese. Nella sua casa viennese, dove il rigore austero dell'arredamento viene appesantito dalla soffocante sovrabbondanza di santini e immagini sacre, il fervore religioso di Anna Maria si tinge di elementi masochisti: pettinatura antiquata, abiti castigati e punizioni corporali autoinflitte. La sua routine liturgica subisce un duro colpo quando il marito, un musulmano egiziano, decide di tornare in Austria dopo anni di assenza. L'uomo, rimasto paraplegico dopo un incidente, tenta invano di riavvicinare Anna Maria, che però rifiuta ogni contatto fisico con il marito e preferisce intrattenere solitari colloqui con Gesù, tanto estatici da sfociare nella carnalità (come nella scena in cui si masturba con un crocifisso). In questo caso la fede non è un bisogno spirituale come sembra, ma piuttosto un rimpiazzo e una via di fuga. Anna Maria ha infatti sviluppato il suo fanatico sentimento religioso come reazione compensativa all'incidente del marito. Presentato nel 2012 a Venezia, dove si è aggiudicato il Premio Speciale della Giuria, questo secondo capitolo è probabilmente quello più disturbante per la violenza visiva di certe scene (l’orgia nel parco) ma anche quello più comicamente grottesco (i personaggi che Anna Maria incontra nei suoi pellegrinaggi di evangelizzazione, le urla del marito che si risveglia durante un’improvvisata benedizione con l’acqua santa). Presentato all’ultima Berlinale, il capitolo conclusivo è sicuramente il meno impegnativo e il più leggero dei tre, ma anche il più debole esteticamente. In Paradise: Hope (2013) l’adolescente Melanie, figlia di Teresa, trascorre l’estate in una colonia per ragazzi in sovrappeso (nel frattempo la madre è in vacanza in Kenya). Tra diete ed esercizi quotidiani la tredicenne si innamora del medico della colonia, un uomo di mezza età, che pure non essendo insensibile alle attenzioni della ragazza, saprà resistere, in nome delle norme sociali, al richiamo di quello che sembra un affetto nascente.
Il registro estetico dei tre film, pur nella rappresentazione di corpi non canonici (per ridondanza, mostruosità o goffaggine) non ha nulla di gratuitamente provocatorio ed esplora efficacemente, senza scadere nella sociologia spicciola, l’incoerenza e la fragilità del nostro bisogno d’amore e la ricerca – inevitabilmente fallimentare – di paradisi che si rivelano invece deludenti succedanei. Come succede a Olga, l'infermiera di Import/Export che, spinta dalle ristrettezze economiche, prova a lavorare come cam-girl per clienti stranieri prima di lasciare l'Ucraina alla volta di Vienna in cerca di un avvenire migliore. Un viaggio della speranza che non le risparmierà esperienze alienanti e umiliazioni, come quando perde il suo lavoro di baby-sitter in una ricca famiglia borghese perché accusata (ingiustamente) di furto. Quando trova un impiego come donna delle pulizie in un ospedale geriatrico dovrà affrontare non solo gli atteggiamenti morbosi del personale ma anche uno sconvolgente scenario di corpi e menti in disfacimento. La tragica regressione della vecchiaia non è l'unico aspetto raccapricciante del cinema di Seidl, anche il sesso e più in generale la corporeità, sono rappresentati nella loro dimensione più sgradevole, fino a sfociare in una deriva pornografica del tutto priva di appeal erotico.
Anche se Hope si muove su toni più “delicati” rispetto ai film precedenti, nel complesso la recente trilogia colpisce come un pugno nello stomaco e di fronte alla violenza che permea programmaticamente le relazioni e i corpi è impossibile reprimere un'ondata di angoscia e ribrezzo. Come ha giustamente commentato Werner Herzog, mai prima d’ora il cinema aveva saputo rappresentare l’inferno così da vicino.
VISIONI
— Cantet Laurent, Verso il sud, Cecchi Gori Home Video, 2006.