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VISIONI / LA MIGLIORE OFFERTA


di Giuseppe Tornatore / Warner Bros, 2012


 

La Meccanica dell'illusione

di Adolfo Fattori

 

“L’anima è un’ipotesi inutile: l’uomo è una macchina”. Con questa affermazione l’illuminista Julien Offroy de Lamettrie (1973) liquida Cartesio e le ipotesi essenzialiste a proposito della natura della coscienza già nel 1747, aprendo così la strada a coloro che, come William James, fonderanno il dibattito novecentesco sulle dinamiche del Sé e dell’identità (Pecchinenda, 2008). Lo spunto per formulare un’affermazione così lapidaria gli viene dalla conoscenza degli automi progettati e costruiti da Jacques de Vaucanson, inventore e meccanico, costruttore fra l’altro del primo telaio interamente meccanico, che diede così il suo contributo all’esplosione di una Rivoluzione industriale sempre più prossima. Quella che avrebbe trasformato legioni di uomini appunto in attributi delle macchine, se non in macchine essi stessi, aggiogati – soggiogati – alle catene di montaggio, realizzando a suo modo almeno in metafora la profezia di Lamettrie, che “l’uomo avrebbe potuto essere costruito artigianalmente da un creatore di automi particolarmente abile” (Bredekamp, 1996).

E sembra che questo nodo di temi si agiti in profondità nel film di Tornatore, che sviluppa la sua trama ruotando intorno a due enigmi che il protagonista, il carismatico battitore d’aste Virgil Oldman (un gigantesco Geoffrey Rush) si ritrova a voler decifrare. Il primo, la scoperta di un possibile quarto automa di Vaucanson, sconosciuto a tutti: un ritrovamento inestimabile; il secondo, i segreti della misteriosa donna che dopo averlo contattato per fargli stimare l’immenso patrimonio di cui è proprietaria, gli sfugge, si sottrae, salta gli appuntamenti che fissa con lui, mettendo a dura prova la sua altezzosa sicurezza e la sua boriosa alterigia.

Riepiloghiamo sommariamente la vicenda – non potendo promettere di levare a chi non avesse ancora visto il film il piacere del colpo di scena finale, purtroppo. Virgil Oldman, ricercatissimo banditore d’aste e raffinatissimo conoscitore d’arte, è anche un fior di collezionista, tanto da avere nel suo appartamento una grande stanza protetta in cui espone solo per se stesso una grande quantità di ritratti di donne, tutte opere straordinarie che è riuscito ad acquisire durante la sua carriera a volte anche andando oltre il lecito, o con la complicità del suo amico Billy Whistler (Donald Sutherland), che durante le aste lo aiuta ad “addomesticare” le contrattazioni, oppure mentendo sulle autenticazioni per cui periodicamente è consultato, riuscendo così ad appropriarsi di veri e propri capolavori.

Finché, come spesso capita nella vita – e sicuramente nei film – qualcosa non interviene a incrinare questa lussuosa routine, questo meccanismo perfettamente oliato: viene contattato da una giovane donna, Claire Ibetson (Sylvia Hoeks) che gli chiede di valutare il patrimonio avuto in eredità dal padre, ma che però, ogni volta che riesce – insistendo, fra l’altro – a strappargli un appuntamento, non si fa trovare, scatenando l’ira di Oldman.

Alla fine Virgil riesce ad entrare nella villa della ragazza e avviare le sue valutazioni, ed è proprio durante una delle esplorazioni negli ambienti – fatiscenti, polverosi, disordinati – di questa che scopre un pezzo di un curioso ingranaggio che, ripulito, rivela il nome di Vaucanson.

Questo ritrovamento costituisce il “gancio” che convince definitivamente Oldman ad occuparsi della valutazione del patrimonio di Claire. Ma, mentre tutto il resto delle ricchezze contenute nella villa entra nell’inventario che lui e i suoi collaboratori devono elaborare, questo primo ingranaggio e tutti gli altri che man mano vengono trovati Virgil li tiene per sé, e li porta ad un artigiano che conosce, Robert (Jim Sturgess), un giovane abilissimo nel riparare qualsiasi cosa che, un pezzo alla volta, comincia a ricomporre l’automa.

E, mentre il giovane lavora al riassemblaggio dell’automa che man mano prende forma, l’anziano banditore comincia a scalfire anche il muro di mistero che circonda la vita della ragazza – e la ragazza stessa.

Dapprima è la curiosità che lo muove, di fronte alla seduzione di una voce fascinosa, poi alla rivelazione dell’agorafobia della giovane, fino a nascondersi, un giorno, nella villa per poterla vedere. La giovane è bellissima, naturalmente, e va da sé che, man mano che si sbriciola l’armatura di distacco e cinismo di cui è fatto Virgil, quella che lo rende simile ad una macchina, ad un automa ossessionato dalla bellezza dell’arte (e delle donne dei ritratti che colleziona), questi se ne innamora: comincia a prendersi cura di lei, a coprirla di attenzioni e regali, riesce addirittura a farla uscire di casa dopo dodici anni di reclusione.

Insomma, si innamora di lei, perdutamente, tanto – una volta vinta la sua agorafobia – da condurla a casa sua e introdurla alla stanza segreta dove conserva la sua collezione di quadri, di donne conosciute – forse possedute? – solo in effigie, impossibili da avere.

È una dialettica, quella che scorre lungo tutta la vicenda, fra vero, falso, mimesi, simulazione, imitazione, copia, illusione che ha al centro Virgil, e attorno a cui ruotano tutti i personaggi e gli elementi del film, quasi una illustrazione dei ragionamenti di Jean Baudrillard sui “tre ordini di simulacri” (1976).

Fatto sta che l’anziano, smaliziato e arrogante esperto di opere d’arte, di antichità, di tesori nascosti e poi svelati, catturato dal gioco di svelamenti e occultamenti che gli impone Claire, comincia a liberarsi dall’ossessione del controllo che sente di dover esercitare su tutto e tutti – una macchina perfettamente oliata, fatta di ingranaggi che girano perfettamente: le aste, le consulenze, il gioco di squadra col suo amico – e si fa invischiare dall’alchimia dell’amore, da quella forza ancestrale, magmatica, informe e potentissima, che non lascia spazio alla ragione o al calcolo.

Si lascia andare. E consegna le chiavi del suo cuore – e della stanza segreta – alla giovane, bellissima, Claire Ibetson.

Le sostanze perché la reazione alchemica si inneschi ci sono tutte: la bellezza della donna; la sua giovane età; la sua fragilità, le sue paure, che la rendono agli occhi di Oldman indifesa, inerme. E così prova a trasformarsi nel suo Pigmalione.

Ma la realtà non è affatto quella che gli appare. L’incontro con la ragazza gli si rivela – nel modo più crudele e beffardo – come l’espressione di un gioco di verità e illusione – non dissimile da quello orchestrato da lui stesso lungo tutta la sua carriera – di cui lui è la vittima, e i suoi dipinti sono la posta: Virgil è stato abilmente raggirato, e derubato dei tesori cui teneva di più: i ritratti di donna che conservava e contemplava nella sua stanza segreta.

Naturalmente indaga, torna alla villa, domanda nel bar che vi sta di fronte. E lì parte del mistero, inconsapevolmente, gli viene svelata da una disabile – presenza/assenza quasi magica nel film, come il presunto automa, una specie di idiot savant, costretta all’immobilità, deforme – una donna autistica, assomigliante a sua volta ad automi bambini come “la disegnatrice” di Henri Maillardet o “lo scrivano” degli Jacques-Droz (Ceserani, 1969), che tiene una sistematica contabilità di tutto ciò che le avviene davanti agli occhi: quante auto passano davanti al bar, quanti pedoni – e quando Claire davvero è andata ad abitare nella villa, quando e quante volte è uscita, a dispetto della sua pretesa agorafobia.

La stessa donna che peraltro, nel gioco di inganni e depistaggi che il regista conduce nei confronti dello spettatore, poteva, per la sua deformità, essere confusa con la ragazza misteriosa che telefonava a Virgil senza farsi mai incontrare…

Virgil è stato preso nell’ingranaggio di una macchina perfetta, che ha finito per stritolarlo. Tanto che alla scoperta della beffa, orgogliosamente rivendicata dal suo amico Billy Whistler con la complicità di Robert e Claire come compensazione ad anni di dedizione mal corrisposta, gli viene un coccolone e finisce in ospedale.

Perso l’amico, persi i dipinti, ma persi prima di tutto il suo orgoglio e la sua sicumera, Virgil non può fare altro che aggrapparsi ad un ultimo bene. Come fanno gli innamorati, si aggancia a due frasi che Claire aveva lasciato cadere: la prima, relativa ad una visita fatta da ragazzina, prima di diventare agorafobica, a Praga, in un locale di fronte all’orologio astronomico; la seconda, che “qualunque cosa fosse successa, lei lo avrebbe sempre amato”, o giù di lì. E, una volta guarito, si trasferisce a Praga e si piazza in quel locale, circondato da enormi ruote dentate di orologi, a cominciare un’attesa che potrebbe durare per sempre…

Insomma, Virgil, che è sempre vissuto fra cose morte, inerti seppur preziose – arredi, oggetti d’arte, dipinti – ritrova la sua anima per la strada più inverosimile: a partire da una macchina che imita l’uomo, l’automa sconosciuto – e falso, presumibilmente – di Vaucanson. Un’entità priva di una vita vera e propria, ma che la simula, che fa da “interfaccia” per così dire fra il mondo naturale e quello artificiale, e che rimanda però agli universi del magico, del soprannaturale, dell’esoterico. Come gli orologi, d’altra parte, e i loro ingranaggi e meccanismi. A lungo l’idea di governare il tempo, e di riprodurre artificialmente la vita, è stata considerata affine al magico – quindi blasfema, diabolica. Come l’affermazione di Lamettrie a proposito dell’inesistenza dell’anima, e dell’inutilità di ipotizzarla. Ponti, l’automa e l’orologio, fra epoche differenti, fra l’antico e il moderno (Camorrino, 2012), quindi, nella nostra epoca, fra “nostalgia dell’antico e fascino della macchina”, come recita il titolo del volume di Bredekamp.

Nostalgia, forse, sicuramente ossessione per l’antico da parte di Virgil Oldman, e non solo: nostalgia per donne ormai scomparse per sempre, coloro che hanno fatto da modelle per i quadri che colleziona. Ma anche fascino della macchina, o almeno fascinazione inconsapevole per la perfetta macchina da inganni messa su da Whistler con al complicità dei due giovani. E fascino, naturalmente, per i misteri dell’amore…

Giuseppe Tornatore costruisce una macchina perfetta, con una sceneggiatura blindata, attorno ad un monumentale Geoffrey Rush, senza lasciare tregua allo spettatore, trascinato – con al complicità di Sutherland e degli altri attori – insieme al protagonista nel vortice di eventi che appaiono chiarissimi, lineari, a volte anche prevedibili, ma che non sono mai quello che sembrano, che nascondono sempre una verità altra, occulta.

 


 

LETTURE

  Baudrillard Jean, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 1976.
Bredekamp Horst, Nostalgia dell’antico e fascino della macchina. Il futuro della storia dell’arte, Il Saggiatore, Milano, 1996.
Camorrino Antonio, Dal cosmo al caos Configurazioni narrative e conoscenza scientifica, Ipermedium, S. Maria C. V., 2012.
Ceserani Remo, I falsi Adami. Storia e mito degli automi, Feltrinelli, Milano, 1969.
de Lamettrie Julien Offroy, L’uomo macchina e altri scritti, Feltrinelli, Milano, 1973.
Pecchinenda Gianfranco, Homunculus. Sociologia dell’identità e auto narrazione, Liguori, Napoli, 2008.