LETTURE / IL SENSO DEL FUTURO
di Carlo Pagetti / Mimesis, Milano, 2012 / pp. XIV-321, € 26,00
Figli di una critica minore
di Roberto Paura
All’inizio di quest’anno la morte di Jacques Sadoul privava la fantascienza di una delle voci internazionali che più era riuscita, perlomeno in Europa, nel difficilissimo compito di far evadere un genere letterario storicamente ostracizzato dal suo ristretto recinto. Con la sua Storia della fantascienza, Sadoul non aveva tanto elevato la fantascienza a un gradino più alto nell’Olimpo della letteratura, come qualcuno all’epoca credette e crede ancora oggi; aveva piuttosto avuto il merito di scrivere una delle prime opere di auto-riflessione della fantascienza su se stessa sufficientemente valida da ottenere un’ampia visibilità nelle librerie, grazie all’edizione tascabile edita da Garzanti nel 1975. Sembrò un autentico successo per tutti coloro – e negli anni Settanta erano davvero tanti – che leggevano fantascienza in Italia, principalmente sugli Urania (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 40) e secondariamente su una pletora di riviste più o meno di nicchia e dalla vita più o meno brevissima. Era una vittoria analoga a quella ottenuta con la pubblicazione, da parte della prestigiosissima Einaudi, dell’antologia Le meraviglie del possibile curata da Sergio Solmi e Carlo Fruttero nel lontano 1959: la prima a proporre al vasto pubblico italiano una raccolta di racconti di fantascienza esemplificativa della ricchezza di un genere che stava riscuotendo un successo enorme negli Usa e che cominciava ormai a diventare di culto anche in Italia. Se, nonostante la fantascienza si sia evoluta enormemente rispetto ad allora, l’antologia continua a essere ripubblicata, e i suoi racconti (e solo quelli, salvo rarissimi casi) sono inseriti nelle antologie scolastiche come esempi del genere, si può avere una vaga idea dell’impatto che ebbe nel dibattito critico nazionale.
Si può quindi capire l’importanza di vedere nelle librerie la riedizione de Il senso del futuro di Carlo Pagetti, uno dei pochi studiosi italiani di fantascienza a livello accademico, che al genere volle dedicare la sua tesi di laurea nel 1967 – un’autentica, rivoluzionaria novità per l’epoca, quando le tesi di laurea avevano ancora un valore – rimaneggiandola per una pubblicazione nel 1970 nella collana “Biblioteca di Studi Americani” delle Edizioni di Storia e Letteratura di Roma. Rispetto ad allora non c’è nulla di nuovo, tranne la prefazione dello stesso Pagetti, diventato nel frattempo, oltre che titolare della cattedra di letteratura inglese contemporanea all’Università di Milano, il più importante critico di Philip K. Dick, di cui ha curato l’opera omnia per Fanucci. L’analisi critica si ferma alla fine degli anni Sessanta, per cui alcuni dei più grandi autori successivi sono appena citati (di Ursula Le Guin, ad esempio, c’è solo un accenno a Il pianeta dell’esilio, in cui Pagetti scorge alcuni temi dominanti della sua letteratura, ma ancora in nuce, ignorando invece il capolavoro La mano sinistra delle tenebre che è di tre anni più tardi), ma la volontà di ricercare un fil rouge che colleghi la fantascienza americana al romance ottocentesco prima e alla letteratura post-moderna poi resta il grande merito di quest’opera di Pagetti, la cui ripubblicazione cade a pennello.
Nel 2012 c’è stato infatti un certo revival della critica di fantascienza italiana legata a due iniziative di grande valore, che tuttavia mostrano il loro limite se confrontate allo studio di Pagetti. La prima è la pubblicazione di Cartografie dell’inferno, volume sulla critica della fantascienza italiana scritto per il cinquantenario della science-fiction nostrana ma uscito quando il genere ha festeggiato, lo scorso anno, i suoi sessant’anni di attività. Curato da Ernesto Vegetti e Gianfranco de Turris ed edito da Elara, nel suo indiscutibile valore di memoria storica dell’avventura fantascientifica italiana, innanzitutto editoriale, soffre però del tradizionale difetto di una critica nazionale partigiana, espressione di interessi parrocchiali, spesso legati a quelli degli editori (in primis di quello del volume, noto per le sue traversie che l’hanno portato a cambiare nome in seguito a vari fallimenti). Più che tentare dunque una critica della fantascienza italiana, i saggi di Cartografie dell’inferno – il cui titolo si rifà alle Nuove mappe dell’inferno di Kingsley Amis (1962), primo vero studio critico sulla fantascienza – tracciano una storia del genere in Italia che è principalmente storia del fandom, ricca di riferimenti impliciti o espliciti a polemiche antiche che nulla hanno a che vedere con la qualità della produzione artistica. L’altra iniziativa è il primo numero della rivista Anarres edita da Delos Books, che tenta di ridare vita all’unico esempio italiano di rivista critica sulla fantascienza, La città e le stelle dello stesso Pagetti. Iniziativa destinata a restare ugualmente isolata, dal momento che a oltre un anno dal suo lancio non ha avuto seguito, mentre il numero, con uno speciale dedicato alla Le Guin, unisce articoli di elevatissima qualità soprattutto dal panorama internazionale ad altri che mostrano tutti i limiti della critica di fantascienza italiana: autoreferenzialità, nozionismo, campanilismo. La distanza dagli studi di Carlo Pagetti è enorme, fatta eccezione per quelli di Salvatore Proietti, ospitati in entrambi i prodotti editoriali citati. Non a caso, Proietti segue l’eredità di Pagetti – entrambi sono discepoli di Agostino Lombardo – come critico letterario di provenienza accademica (è docente di Lingue e letterature angloamericane all’Università della Calabria), e la sua produzione di studioso si divide con scioltezza tra l’ambiente degli appassionati e quello di più ampio respiro della critica letteraria internazionale, come testimonia per esempio il suo saggio sulla fantascienza nel volume Il Novecento USA edito da Carocci (2010), che inserisce compiutamente il genere letterario nel più vasto solco della letteratura americana.
È la stessa operazione che contraddistingue l’opera di Carlo Pagetti. Anch’egli intende dimostrare ne Il senso del futuro che la fantascienza americana è solo in parte figlia delle grandi opere d’oltreoceano di Jules Verne ed H.G. Wells, attingendo piuttosto in parti uguali dalla letteratura fantastica di Nathaniel Hawthorne ed Edgar Allan Poe, quella del romance gotico che fornisce sicura ispirazione ad autori come Fitz James O’Brien e successivamente ad Howard Phillips Lovecraft. La tesi di Pagetti è che esista un rapporto di reciproca influenza tra la fantascienza americana e la letteratura mainstream, soprattutto a partire dalla metà del XX secolo. La science-fiction non è chiusa nel suo cortiletto dove si limita a leggere e a trarre ispirazione solo da altri autori di genere, ma interpreta i sentimenti della società di massa più e meglio di quanto faccia la letteratura non di genere. Difatti, Pagetti sostiene con forza la tesi per cui a partire dagli anni Sessanta la vera fantascienza è portata avanti da autori post-moderni come William S. Burroughs e, possiamo aggiungere noi, Thomas Pynchon, che non viene citato solo perché il suo successo verrà qualche anno dopo. E non è un caso se Pagetti dica ciò nell’ultimo capitolo del libro, intitolato La fantascienza americana nell’era dello spazio. Egli è il primo, probabilmente, a rendersi conto che, con la realizzazione dei sogni della prima fantascienza, quella “spaziale”, la realtà supera la fantasia e gli stilemi del genere vengono fatti propri dall’intera società di massa, che li ridefinisce mescolandosi con altre istanze provenienti dalla letteratura mainstream.
Da critico letterario, Carlo Pagetti rigetta con disprezzo la tesi difesa da Frederik Pohl secondo cui la fantascienza, a differenza degli altri generi letterari, deve dare maggior rilievo alle idee piuttosto che allo stile. E difatti i suoi autori preferiti sono Ray Bradbury e Kurt Vonnegut, la cui produzione è molto più forte sul piano stilistico che su quello delle invenzioni narrative; due autori che inoltre prenderanno sempre più le distanze dalla fantascienza negli anni successivi. Proprio in questa dicotomia tra stile e inventività, tracciata da Pagetti, sta forse la grande attualità de Il senso del futuro. Esattamente perché, come sostiene anche Proietti, le tradizionali classificazioni storiche della fantascienza (space-opera, new wave, sociologica, femminile, cyberpunk) non sono in grado di dar conto della complessità di questo genere, una migliore chiave interpretativa per la critica della fantascienza può essere quella suggerita – ma non resa esplicita – da Pagetti. Cosicché, se autori ricchi di idee ma banali nello stile, come i classici Isaac Asimov e Robert Anson Heinlein, non rendono giustizia alla profondità della fantascienza alla stregua di quegli autori dalla prosa molto più elaborata (soprattutto per i loro studi letterari), come Samuel Delany, Thomas Dish o Roger Zelazny, che però non riescono a convincere con le loro trame, le punte di diamante del genere vanno ritrovate in quegli scrittori che riescono a porsi nel giusto mezzo. E tra questi c’è senza dubbio proprio Philip K. Dick, l’autore certo prediletto da Pagetti, ma anche Ursula Le Guin e William Gibson, per non parlare del primo James Ballard. Autori intorno ai quali si concentra l’unanimità di consensi della critica accademica, non solo quella di Pagetti ma anche di Antonio Caronia, studioso di Ballard, docente di comunicazione e culture digitali (recentemente scomparso), il cui saggio Il cyborg (1985), più volte ripubblicato anche di recente, resta fondamentale, o di Oriana Palusci, oggi docente di linguistica inglese all’Orientale di Napoli, grande studiosa della Le Guin come del fantasy tolkieniano (che sfronda dalle interpretazioni simbolistiche della critica gravitante intorno a Gianfranco de Turris), o ancora di Alberto Abruzzese, che inaugura gli studi sociologici sulla fantascienza con il saggio di rottura La Grande Scimmia (1979), a cui hanno fatto eco gli studi di Adolfo Fattori (a partire da L’immaginazione tecnologica, 1980), che con Antonio Fabozzi redige una voce sulla fantascienza per la Letteratura italiana dell’Einaudi che lo stesso Abruzzese, uno dei curatori, modificherà profondamente, conservandone però l’impostazione rigorosa di una critica che si mantiene saldamente indipendente dalle sirene del fandom militante (dallo speciale citato, si veda in particolare il saggio Orbite italiane). Il rischio di essere etichettati di snobismo resta alto, ma la necessità di rilanciare una critica letteraria e oggi anche e soprattutto sociologica della fantascienza, aperta al mondo e non rinchiusa in confini angusti, è impellente, se si vuole capire che la presunta crisi della science-fiction non è affatto tale, dal momento in cui, così come nel Sessantotto tutto era politica, oggi, nel XXI secolo, tutto è fantascienza, non solo quella che viene etichettata come tale.
LETTURE
— Abruzzese Alberto, La Grande Scimmia, Napoleone, Roma, 1979.
— Amis Kingsley, Nuove mappe dell’inferno, Bompiani, Milano, 1962.
— Antonelli Sara e Mariani Giorgio (a cura di), Il novecento USA. Narrazioni e culture letterarie del secolo americano, Carocci, Roma, 2010.
— Caronia Antonio, Il cyborg, ShaKe, Milano, 2008.
— Fattori Adolfo, L’immaginazione tecnologica. Teorie della fantascienza, Liguori, Napoli, 1980.
— Sadoul Jacques, Storia della fantascienza, Garzanti, Milano, 1975.
— Solmi Sergio e Fruttero Carlo, Le meraviglie del possibile, Einaudi, Torino, 1959.
— Vegetti Ernesto e De Turris Gianfranco, Cartografie dell’inferno, Elara, Bologna, 2012.