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LETTURE / TUTTO VI DONO


di Pellegrino Artusi / Il Saggiatore, Milano, 2012 / pp. 216, € 17,00


 

Giù le mani dalla bella tavola!

di Tito Vagni

 

Da anni l’autobiografia di Pellegrino Artusi (di cui su queste pagine abbiamo parlato con un intero numero a lui dedicato) era scomparsa dalle librerie italiane. Il Saggiatore ne ha recentemente proposto una nuova edizione, arricchita da un saggio critico scritto dai curatori del volume, Alberto Abruzzese e Andrea Pollarini. Un’opera che riporta l’attenzione su uno dei padri nobili della Nazione e soprattutto su un tema, quello dei piaceri della tavola, che negli ultimi anni sembra aver smarrito la dignità di essere indagato e raccontato, per via della complicata situazione economica che attraversa l’Occidente. D’altra parte, la televisione, attraverso i programmi del genere factual (in Italia rappresentati principalmente dal palinsesto del canale Real Time), o la serialità di matrice statunitense, veicola stili di vita eleganti, mostrando continuamente episodi e pratiche tipiche dell’iperlusso (Barile, 2011). Questa idiosincrasia apparente si spiega mettendo in discussione il ruolo svolto dalla televisione dalla sua diffusione sino a oggi. In questa nuova austerity, economica e intellettuale, al contrario di quanto accaduto fino all’ultimo decennio, gli stili di vita vistosi rappresentati dalla televisione potrebbero non essere più intesi come propulsore di una economia libidinale (Lyotard, 1978). Secondo una lettura critica, i prodotti dell’industria culturale hanno veicolato e veicolano, nella loro complessità, una visione del mondo ben definita e questo perché, come scrivevano Max Horkheimer e Theodor Adorno, il ruolo del capitalismo della tarda modernità era quello di “imprimere la sua onnipotenza, a lettere di fuoco, e cioè quella del loro padrone, nel cuore di tutti gli espropriati in cerca di impiego”. Ciò, secondo i francofortesi, “è il significato oggettivo di tutti i film a prescindere dal plot, e cioè dall’intreccio, che è stato scelto di volta in volta dalla direzione della produzione” (Horkheimer, Adorno 2010).

L’industria culturale aveva allora il compito di far orientare il consumatore sull’unità della produzione, determinando quindi una assuefazione alla merce dovuta non già a meccanismi di tipo psicologico, ma a questioni oggettive, inerenti le caratteristiche tecniche dei prodotti. Il film, ad esempio, è in grado sì di creare mondi grazie alla narrazione, ma principalmente, questa potenzialità è dovuta alla sua specifica tecnica riproduttiva: la sequenza dei frame, costringe lo spettatore a uno sforzo costante di attenzione per verificare la comprensione del testo in ogni sua immagine, privandolo delle proprie capacità critiche e immaginative. Il mondo del film diviene in questo senso il mondo dello spettatore. La sua meccanica è talmente penetrante da farsi territorio. Territorio degli oggetti. Il cinema favorisce fenomeni di identificazione che tendono a far esplodere le velleità di emancipazione del pubblico all’interno della dimensione onirica, l’unica che permetta l’incontro tra l’élite e le masse. Consentendolo, priva il desiderio di emancipazione della sua capacità concreta di incidere sul presente. Tra la dimensione empirica e quella cinematografica non esiste una distinzione ontologica, piuttosto una distanza spaziale incolmabile, ovvero, colmabile solamente nel sogno. La televisione, dal suo avvento, ha sovvertito la logica del linguaggio cinematografico attraverso una comunicazione privata, la facoltà di connettere arte e vita, glissando così ogni forma di distanza e favorendo comportamenti mimetici, dunque direttamente attivi nella vita quotidiana. Tuttavia, tale funzione sembra essere accantonata dagli apparati televisivi per perseguire una tattica momentanea di autoconservazione, che si avvicina alla comunicazione cinematografica sopra descritta. La fruizione televisiva viene trasformata nel surrogato del consumo superfluo. Si può spiegare in questa maniera il proliferare di spazi televisivi dedicati alla tavola, alle tecniche di cucina, alla conoscenza degli alimenti, in un tempo in cui la propensione all’acquisto è penalizzata dalla perdita progressiva di ricchezza. Recuperando un vocabolario barthesiano, si potrebbe osservare che la cucina in televisione torna a essere una cucina della vista piuttosto che della sostanza (Barthes, 1994). Nell’immediato dopoguerra – in un tempo dunque che pare più prossimo a quello attuale di quanto non possa invece esserlo la decade appena trascorsa – nelle Mythologies (scritte nel 1958), Roland Barthes dedicava un’acuta analisi alle foto di cibi, confrontando quelle apparse su un giornale popolare come Elle e quelle pubblicate su una rivista più distinta come l’Express (ibidem).

“La vocazione distinta del giornale impedisce di affrontare i problemi reali dell’alimentazione (la difficoltà reale non è trovare da appuntare delle ciliegie in una pernice, ma trovare la pernice, cioè pagarla). Questa cucina ornamentale poggia in effetti su un’economia del tutto mitica. Si tratta palesemente di una cucina di sogno come d’altra parte attestano le fotografie di Elle che colgono il piatto solo dall’alto, oggetto a un tempo vicino e inafferrabile, la cui consumazione può benissimo compiersi col solo sguardo” (Barthes, 1994).

Il recupero della cucina come mera esperienza visiva si afferma quando le vie d’accesso alla vita elegante appaiono inaccessibili. L’autobiografia di Artusi, però, potrebbe essere lo spunto per mutare la forma psicologica con cui si guarda al presente, tenendo a mente che in ogni epoca l’uomo ha la percezione di condurre una vita instabile e perigliosa – uno stato d’eccezione permanente che oggi, con maggiore volgarità, viene definito “crisi”. Una vita che lo espone a pericoli imprevedibili, un’escalation di sventure che lo condurranno, inevitabilmente, alla morte. Chi fosse consapevole di questa verità fattuale, non dovrebbe preoccuparsi più di tanto dei tempi che corrono, se non altro, perché essi non potranno che peggiorare. Pertanto, i consumi, specie quelli legati ai piaceri del cibo, non dovrebbero diminuire, se non nelle situazioni in cui essi non fossero più, materialmente, possibili. Consumare è oggi l’unico modo per reagire con veemenza all’ideologia grigia e negletta dell’efficienza, della sobrietà, dell’abbattimento degli sprechi, dell’eliminazione del superfluo. Chi da anni calunnia l’inutile, il frivolo, l’effimero, ha come scopo ultimo quello di impoverire la vita, fino a condurla a una condizione primitiva in cui, spoglio di ogni piacere, l’uomo diviene preda della sua condizione biologica. Una politica che in nome della conservazione, della protezione della specie e del suo mondo, guida l’uomo a una fine meschina, quella che lo vede privato delle illusioni. Un percorso tra la vita e la morte senza tappe intermedie, senza momenti da ricordare, senza cicatrici prodotte dalla vita.

L’autobiografia di Artusi è un ottimo motivo per tornare a riflettere di questi temi perché, come scrive Massimo Montanari: “Anche in casa Artusi il triangolo spaziale si ricompone e riformula ricette, piatti, conserve in una chiave urbana, quindi fine. L’aggettivo è usato spesso, con altri quale delicato e signorile, per designare lo stile delle pietanze, la scelta dei condimenti, la pulizia dei sapori” (Montanari, 2010).

Pellegrino Artusi aveva inteso, già alla fine del XIX secolo, l’importanza di consumare un pasto galante. La sua opera è un manifesto della cucina italiana, ma anche una condanna di quanti si dedicavano al cibo per necessità o per abitudine e che, con fare predatorio, non si curavano di ciò che calavano nel proprio ventre, preoccupandosi piuttosto di nutrirsi il più possibile. Ma si commetterebbe un errore se si pensasse che questa modalità di mangiare non abbia dei risvolti piacevoli o non costituisca una forma di diletto per coloro che la praticano. Essi, infatti, potranno godere della sensazione della sazietà e dunque misurare la propria gioia sulla scala della quantità e della durata. Consumare piatti “delicati” e “signorili”, come prescrive Artusi, è un’attitudine contraria alla prima modalità. Necessita di conoscenze, di tempo, di ricchezza, di gusto e genera gioie repentine, ma intense.

Pellegrino Artusi in Italia (nel 1891), come Brillat-Savarin in Francia (nel 1825), sono autori di opere molto differenti tra loro ma ugualmente fondamentali per la riflessione sulla gastronomia moderna e sugli albori della società dei consumi. È in questi due scritti, figli delle due più autorevoli tradizioni gastronomiche d’Occidente – che per la prima volta si rivolgono a un pubblico vasto come quello borghese – che si può comprendere come l’arte del mangiar bene nell’epoca moderna sia parte di un bouquet di comportamenti ascrivibili alla “vita elegante” (Balzac, 2011).

Riportare alla luce l’autobiografia di Pellegrino Artusi significa rievocare lo spirito di un’Italia che usciva dalla sua condizione di ancella d’Europa per divenire parte a tutti gli effetti delle società civili. Tale transizione passava anche attraverso i suoi costumi alimentari, non certo sofisticati come quelli francesi, ma avviati lungo il crinale del piacere. L’Italia cinica di leopardiana memoria, fuori dal patto della civiltà perché figlia di un’aristocrazia perlopiù campagnola e provinciale, iniziava a scoprire i meccanismi di funzionamento della vita moderna. Il piacere, l’effimero, il desiderio, la moda, la bellezza si affermavano come i valori predominanti attorno ai quali si ergeva il principio organizzatore della vita in comune: l’apparenza. In nome di tale nuovo principio ispiratore, anche l’Italia muoveva i suoi primi passi entro la modernità e la società dei consumi dalla quale un’idea estemporanea, tanto stolida quanto dannosa, vorrebbe oggi farci uscire.

Tornare a parlare di Artusi è quindi un gesto dal forte valore etico, estetico e politico, un’opposizione alla vulgata corrente che ci vorrebbe tutti mediocri predatori della tavola.

 


 

LETTURE

  Abruzzese Alberto, La bellezza per me e per te, Liguori, Napoli, 2012.
Artusi Pellegrino, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, Einaudi, Torino, 1970.
Balzac Honoré de, Trattato della vita elegante, Piano B, Prato, 2011.
Barthes Roland, Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 1994.
Barile Nello, Sistema moda. Oggetti, strategie e simboli: dall’iperlusso alla società lowcoast, Egea, Milano, 2011.
Brillat-Savarin Anthelme, Fisiologia del gusto, Slow Food, Bra (Cn), 2008.
Horkheimer Max e Adorno Theodor, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 2010.
Lyotard Jean-François, Economia libidinale, Colportage, Firenze, 1978.
Maffesoli Michel, Matrimonium. Breve trattato di ecosofia, Bevivino Editore, Milano, 2012.
Montanari Massimo, La cucina in Italia. Storia di una cultura, Einaudi, Torino, 2010.