ASCOLTI / THE NEXT DAY
di David Bowie / Iso Records/Columbia, 2013
Eroi, per un altro decennio ancora
di Francesco Zago
Quando l’8 gennaio 2013, compleanno di David Bowie, sono stati pubblicati il singolo e il videoclip di Where Are We Know, probabilmente molti si aspettavano un album diverso da The Next Day, la cui uscita era prevista per l’11 marzo. D’altronde, cosa ci si potrebbe aspettare da una rockstar sessantaseienne, assente dalla ribalta discografica e live da oltre dieci anni, se non un “malinconico” sguardo al passato, un album scontatamente “intimista” e “retrospettivo”? “Dove siamo finiti?” canta Bowie, spaesato e laconico come i grotteschi pupazzi siamesi protagonisti del video, a cui prestano i volti distorti il cantante e una donna misteriosamente silenziosa (nella realtà, la moglie del regista Tony Oursler). C’è aria di sbaraccamento, di trasloco definitivo per non si sa dove, di nostalgia per un passato che non tornerà mai più. Il volto è segnato dalle rughe, e il camaleonte sembra morto e sepolto, o almeno esausto di tanti cambi d’abito e di vita. L’annuncio di una fine, insomma, dopo oltre quarant’anni di onorata carriera.
La prima smentita arriva con il singolo successivo, The Stars (Are Out Tonight). La musica cambia, è proprio il caso di dire. Soprattutto il video – un cortometraggio firmato da Floria Sigismondi, che aveva già lavorato a Little Wonder e Dead Man Walking fra il 1996 e il 1997 – è un concentrato di tanti temi che hanno reso famoso Bowie fin dai suoi inizi: ambiguità sessuale, androginia, identità confuse, presenze enigmatiche e demoniache. L’attrice scozzese Tilda Swinton interpreta la moglie del protagonista, in un ménage familiare apparentemente tranquillo, fatto di serate spensierate davanti alla tv, routine quotidiana e pace domestica. “We have a nice life” si dice la coppia mentre va a fare la spesa; ma subito si notano le prima crepe. Sulla copertina di un giornale scandalistico si intravedono la stessa Swinton e un Bowie dal look clamorosamente alieno; la didascalia recita: “Woman goes to Oscars without makeup!”. Dietro la rispettabilità coniugale si nasconde la più classica inversione dei ruoli, e dagli armadi straripano scheletri e fantasmi. Le “stelle” sono due presenze inquietanti che tormentano la coppia e i loro sogni: non a caso, la modella olandese Saskia De Brauw “reincarna” un Bowie giovane e magrissimo, mentre Andrej Pejic è davvero convincente nei panni di una fatalona bionda e perversa. Il testo conferma il ribaltamento di prospettiva, come se l’artista riflettesse dall’esterno sull’ambiguità e la spersonalizzazione delle star: “Le stelle non sono mai lontane […] le stelle non dormono mai / quelle vive e quelle morte […] ci spiano dietro le loro ombre / loro sanno cosa facciamo […] asessuate e frigide / loro sono le stelle / pronte a morire per te”. Ma soprattutto: “Non ci sbarazzeremo mai delle stelle, ma spero che vivano per sempre”. Chi ha orecchie per intendere, intenda.
Bowie sembra volersi riaffermare – ricomparire, ripartire, uscire da un silenzio decennale – ma al tempo stesso negarsi. Come se rifiutasse una parte o un’immagine di sé, quella più glamour e sfacciata, e/o una parte del proprio passato. Tuttavia, inanellando una contraddizione dietro l’altra, il passato che l’artista ripudia è proprio quello meno glam e trasgressivo della sua carriera. La copertina di The Next Day non è altro che quella di Heroes, dove però il volto di Bowie è coperto da un riquadro bianco e il titolo dell’album è cancellato con un tratto di pennarello nero. L’espediente è efficace quanto sconcertante, proprio perché l’“originale” è perfettamente riconoscibile ma profanato, oscurato. Come dire: una fase si è chiusa, non chiedetemi di rifare il passato, “quel” passato. Bisogna guardare al domani, al “giorno dopo”, e a quello “dopo ancora”. La nostalgia di Where Are We Know? è sì genuina, ma insieme ingannevole, e la copertina di The Next Day è la più “oscena” della discografia di Bowie, perché ne infanga un monumento. Così DB ci ha fregato ancora, ma questa volta senza i lustrini e l’autocompiacimento di Ziggy Stardust, del rock’n roll distopico e nichilista di Diamond Dogs, del Duca Bianco o del mesto Bowie “berlinese”, bensì svelandosi ma senza apparire affatto, o meglio senza mostrare un’identità o una maschera precisa. Fa eccezione un primo piano all’interno della confezione, un volto tirato e per nulla ammiccante, ripetuto e di nuovo “cancellato” dal riquadro bianco (“Non so chi sono”, canta in Heat). Musicalmente, è come se quel volto dicesse: ragazzi, niente più sperimentalismi, niente più eroi ed “eroismi” anni Settanta. Parliamoci chiaro, siamo nel 2013. Non aspettatevi il lato B di Low, Sense of Doubt, Moss Garden o Neuköln. Non aspettatevi di sentir aleggiare Brian Eno fra le tracce, né le pulsioni trip-hop e drum’n bass degli anni Novanta. Né, ovviamente, l’inno per eccellenza, Heroes. Non ci sono più tendenze da assecondare o da lanciare, pop o sperimentali che siano. Adesso (“e domani, e domani ancora…”) si fa sul serio. Si fanno i conti con la vita (e la musica) reale.
Musicalmente, Where Are We Now? è l’unico brano lento e davvero struggente del cd. Bello e spiazzante, senza dubbio. Ma anche uno specchietto per le allodole, in un certo senso. Gli altri tredici sono puro pop-rock (più rock che pop), concise, potenti, prodotte magistralmente da un certo Tony Visconti. Se il progetto Tin Machine naufragò dopo appena due album tra il 1988 e il 1991, Bowie ha fatto tesoro delle sonorità cui venne introdotto dal chitarrista Reeves Gabrels, che riemergono prepotenti in Outside (1995), Earthling (1997) e in questo ultimo lavoro. Presenze ormai fisse da tempo: ritroviamo la bassista e cantante Gail Ann Dorsey, il chitarrista Gerry Leonard e Zachary Alford alla batteria. Ospiti illustri, nientemeno che Tony Levin e il multiforme improvvisatore e chitarrista sperimentale David Torn. Fra i brani migliori, la title track conferma la durezza dell’album e la direzione antinostalgica: il cantato tipicamente “mononota” (con buona pace di Elio e le Storie Tese!) e aggressivo è solidamente ancorato a una ritmica quadrata e pop, squarciata da distorsioni e improvvise sferzate chitarristiche di Leonard e Torn (che verso la fine un po’ ricordano il Fripp caotico e punk-futuristico di Scary Monsters). Il testo non lascia molti dubbi su alcune convinzioni dell’autore: “E il prete irrigidito dall’odio chiede che il divertimento abbia inizio / con le sue donne vestite da uomo per il suo piacere / Eccomi qui / non sono affatto morto / il mio corpo lasciato a marcire nel cavo di un albero / i suoi rami gettano ombre / sulla forca che mi hanno preparato / domani / domani / e domani ancora […] prima ti danno tutto quello che vuoi / poi vogliono indietro tutto quello che hai / vivono in piedi e muoiono in ginocchio / possono darsi da fare con Satana mentre si vestono come santi / sanno che Dio esiste solo perché gliel’ha detto il Diavolo”. Dirty Boys – in particolare le strofe – è invece un sorprendente anti-blues in 4/4 (difficile non pensare, sulla stessa scia, a ProzaKc Blues o, molto più indietro nel tempo, a Ladies of the Road dei King Crimson, così simile a Dirty Boys nel riff tetro e spigoloso del sax) con la voce di Bowie trattata e ancora più straniante. In questa discesa agli inferi, il brano più drammatico è Heat, che fa ripensare subito a Outside e, per certi aspetti, al dark-rock di The Man Who Sold The World. In un clima sospeso, atmosferico (determinante il contributo di David Torn), la voce teatrale di Bowie esplora la propria fragilità e ambiguità, personale e artistica: “Dico a me stesso / non so chi sono / mio padre era il carceriere / posso amarti solo odiandolo di più […] sono un veggente / e sono un bugiardo […] come vorrei scivolare via / alla deriva nel mare”.
Con If You Can See Me si torna decisamente sul versante più hard del cd: una ritmica velocissima e concitata, la stessa del drum’n bass di Earthling ma senza alcun orpello elettronico (Zachary Alford al meglio), un riff spezzato e asimmetrico su un tappeto di distorsioni e feedback (Torn), che culminano nella tensione non risolta del ritornello, con echi biblici e definitivi: “Prendi questo coltello / e incontriamoci sull’altra riva del fiume / mi prenderò le tue terre e tutto quello che c’è sotto / la polvere di fiori gelidi, prigione oscura di ceneri / massacrerò la specie che discende dalla tua fede / sono lo spirito dell’avidità, il signore del ladrocinio”. Ben altro clima si respira in Dancing Out In Space, che rimanda in qualche modo alla Modern Love degli anni Ottanta, mentre (You Will) Set the World on Fire e I’ll Take You There (una delle tre bonus track della versione deluxe) fanno ripensare agli anni di Ziggy Stardust e Diamond Dogs. Infine, merita un cenno lo strumentale Plan – sigla d’apertura del video di The Stars (Are Out Tonight) – un minaccioso incedere di batteria e cupi accordi della chitarra che non avrebbe affatto sfigurato sul lato A di Low. Alcune tracce, sulla scia di Where Are We Now?, concedono un po’ di spazio alla nostalgia, anche se filtrata dallo sguardo al “domani”. You Feel So Lonely You Could Die riprende palesemente la gloriosa decadenza di Rock’n Roll Suicide in cui si crogiolava Ziggy Stardust al termine di The Rise and Fall… Lo stesso 12/8, gli stessi archi dolciastri, cori (e coretti) in abbondanza, l’interpretazione intensa e piena dell’amarezza un po’ autocelebrativo-distruttiva del divo; sullo sfondo, un paesaggio di desolazione urbana e domestica: “Hai un cuore pericoloso / hai rubato loro la fiducia, la luna, il sole / arriverà l’ago dell’assassino / su un treno affollato / scommetto che ti sentirai così solo / che potresti morire / gente ammassata nei palazzi / paesaggi pieni di rancore / una città di cemento grigio / le strade bagnate dalla pioggia / voglio guardarti bene / prima che tu chiuda la porta / una stanza con una storia sanguinosa […] per me sei come un libro aperto / riesco a sentirti cadere / riesco a sentire i tuoi lamenti là dentro […] per favore, fallo alla svelta / le pareti ti stringono in un angolo / sei triste, amico / e agli altri non piaci / ma te ne andrai in silenzio, senza una fine / verrai inghiottito dall’oblio / solo la morte ti vorrà bene / spero che ti sentirai così solo / da riuscire a morire”. In chiusura, come se Bowie non fosse stato già abbastanza chiaro, la batteria cita alla lettera Five Years. “The Next Day, and the next, and another day”. Difficile scrollarsi di dosso il passato, vero? Tanto da non poter fare a meno di raccontarlo di nuovo per cancellarlo. Eppure è un vero piacere ritrovarla, Mr Bowie.
ASCOLTI
Gli album di Bowie citati. Si riporta l’edizione più recente in cd.
— Tin Machine II, Polygram, 1991.
— Tin Machine, Emi, 2001.
— Outside, Iso Records/Columbia, 2004.
— Earthling, Iso Records/Columbia, 2004.
— The Man Who Sold The World, Emi, 2006.
— Diamond Dogs, Emi, 2006.
— Low, Emi, 2006.
— Heroes, Emi, 2006.
— Scary Monsters, Emi, 2006.
— The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars, Emi, 2012.