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VISIONI / RISE EARLY, BE INDUSTRIOUS


di Olivia Plender / CCA – Centre for Contemporary Arts / Glasgow, 13/10/2012 – 15/12/2012


 

Il mattino ha l'oro in bocca

di Beatrice Ferrara

Ospitata nel Centre for Contemporary Arts di Glasgow, Regno Unito, Rise Early, Be Industrious è la più recente mostra di Olivia Plender, giovane artista britannica di stanza a Berlino. Categorizzabile come survey exhibition – una “mostra antologica” – Rise Early, Be Industrious raccoglie infatti parte dei lavori già presentati dall’artista in precedenti mostre e vi affianca al contempo nuovi materiali, a segnalare come, in questa più recente tappa della pratica artistica di Plender, vi sia da scorgere in controluce la lunga scia di un progetto di più ampio respiro, in corso da tempo e assai probabilmente destinato ad ulteriori trasformazioni.

Il progetto – come una ricerca nel portfolio artistico di Plender rivelerà facilmente – è quello di un’indagine attraverso l’arte (le pratiche, la performance, la materia e il sistema-lavoro dell’arte) sulla costruzione di alcune delle più tenaci “narrazioni storiche” dell’Europa, in particolar modo in relazione al rapporto tra economia, nazione e nazionalismi, educazione (intesa come istruzione formale ed informale – scolastica, universitaria, religiosa, di apprendistato lavorativo) ed intrattenimento. Ponendo al centro della ricerca artistica il concetto della costruzione discorsiva dei valori e dei significati che di volta in volta hanno articolato l’interrelazione fra questi elementi, Olivia Plender procede nello studio dell’organizzazione di queste costellazioni discorsive in forme differenti nel tempo.

L’arte, qui, si fa ricerca “genealogica” (Foucault, 2001): nel dispiegarsi materiale del portfolio di Olivia Plender, le diverse attitudini verso l’istruzione e il suo rapporto con la costruzione dei miti nazionali, verso la formazione e l’idea dell’autonomia del sapere, verso l’ecologia e l’economia, verso l’economia e la casa, la casa e l’Impero, l’impero e il neo-colonialismo, la finanza, l’università e la televisione, il gioco da tavolo e l’allegoria, la stampa popolare e la religione, il genere e l’arte si storicizzano. Quello che emerge dalle faglie, dai passaggi, sono le gerarchie che soggiacciono dietro “la voce dell’autorità”, che viene costantemente nel tempo – e discontinuamente nei modi – prodotta “dalle istituzioni della formazione e dell’intrattenimento” (CCA, 2012).

Importante quindi, nel lavoro di Plender, diventa il documento. “Documento” è qui da intendersi in senso ampio. L’artista, infatti, raccoglie nello spazio espositivo delle sue mostre testi, oggetti e processi: dalle strutture architettoniche, alla distribuzione stessa degli spazi artificialmente ricreata nel contesto del museo e della galleria, dai testi scritti ai prodotti audiovisivi, dai telefoni agli schermi TV, dalle videocassette ai giochi da tavola. L’allestimento è quindi un invito alla scoperta della relazione fra gli enunciati e il visibile – il sapere ed il potere (Foucault, 2006) – di cui il documento è traccia.

Allo stesso tempo, nel lavoro di Olivia Plender sulla produzione delle voci dell’autorità, intrigante è il posto riservato, fra i documenti esposti, al suo proprio ruolo di artista-archeologa consapevolmente situata all’interno del sistema-mercato dell’arte. Il documento storico raccolto dall’artista nel suo portfolio è inseparabile dal suo invisibile “doppio”, che sorge dalla riproposizione del documento nello spazio del museo e della galleria d’arte contemporanea. Come ha scritto Angus Cameron, tutti i documenti di Olivia Plender sono “commodities” in sé oltre che “narrazioni del processo di commodification”. Essi cioè affermano, con serpeggiante e pericolosa ironia, la necessità che si tenga presente il loro stesso carattere discorsivo, aprendo spiragli verso una discussione del lavoro dell’arte, del museo e della galleria nel diagramma di potere del neo-liberismo contemporaneo e nel processo di commodificazione del sapere (Cameron, 2010).

Rise Early, Be Industrious – ultima tappa di questo progetto, con cui questo articolo si apre e cui saranno destinate le righe a venire – si presenta proprio in questa chiave. La descrizione ufficiale della mostra rilasciata dal CCA di Glasgow, infatti, presenta la mostra stessa non semplicemente come una “exhibition”, bensì come “un museo delle comunicazioni”, in cui è esposta una ricerca su come “le attitudini verso l’istruzione di massa siano cambiate nel tempo” (CCA, 2012). Coinvolta attivamente nella costruzione del senso della mostra, la visitatrice di Rise Early, Be Industrious si troverà ben presto tra le mani una miriade di spunti di pensiero.

I documenti raccolti nelle varie sale che compongono, insieme, Rise Early, Be Industrious sono tratti dalle fonti più disparate: gli archivi dei programmi “educational” della BBC degli anni Settanta-Ottanta, la stampa popolare del medioevo, i programmi di studio della Open University di Milton Keynes, l’esposizione coloniale britannica del 1924, i piani architettonici per la cosiddetta ‘riqualificazione’ della zona occidentale di Londra… Quello che lega questi documenti è lo strettissimo legame tra comunicazione, istruzione ed economia.

I documenti di Rise Early, Be Industrious sono organizzati in sei installazioni, ciascuna delle quali dissemina una serie di suggestioni su una particolare – cioè storicamente definita – congiuntura fra economia, istruzione e comunicazione. Tuttavia, è solo nella partecipazione complessiva all’intera mostra che il carattere “genealogico” emerge, nella ricerca non di un continuum metastorico bensì nella frizione fra le diverse faglie presentate da ogni istallazione.

Words and Laws (Whose Shoulder to Which Wheel?) è l’installazione di apertura, in cui sono raccolti materiali cartacei, giochi e vari oggetti legati alla storia della stampa popolare e della satira politica. In sospensione dal soffitto della sala, sono calate sul pubblico gigantografie di riproduzioni di litografie del XVI secolo raffiguranti animali – volpi ed oche in particolare. Esse rimandano alla funzione allegorica delle figurazioni animali nella stampa satirica del tempo e all’utilizzo della “figurazione”, piuttosto che dell’attacco verbale diretto, come strategia di istruzione alternativa che potesse da un lato superare la barriera della non-alfabetizzazione e dall’altro quella del controllo su quanto potesse o non potesse essere pubblicamente detto.

Sul pavimento della stessa sala, Plender dispiega la pianta di un giardino medioevale (Hortus Conclusus), il cui riferimento più diretto è quello delle enclosures, le opere di recinzione delle terre comuni da parte dei grandi proprietari terrieri inglesi tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII secolo, il cui prezzo fu l’espropriazione a danno dei commoners e il processo di trasformazione di questi stessi in “uomini e donne senza padrone”, braccia per i nuovi mercati coloniali sugli Oceani (Linebaugh e Rediker, 2000). Seguendo una suggestione che giunge da Peter Linebaugh e Markus Rediker, autori di I ribelli dell’Atlantico, storia “dal basso” della resistenza della classe multietnica – di cui i commoners espropriati furono protagonisti – che fu essenziale per la nascita del capitalismo e della moderna economia globale, è possibile legare insieme l’interesse di Plender per la stampa satirica delle figure di animali e la storia delle enclosures e delle leggi che le consentivano rendendo legale l’espropriazione delle terre comuni. La forza del “comune”, infatti, scrivono Peter Linebaugh e Markus Rediker, resistette ben oltre l’imposizione delle recinzioni, dando luogo a forme di resistenza organizzata e spesso sopravvivendo nella cultura popolare (che si fece quindi luogo di ricordo e di invito alla pedagogia della pratica della resistenza), spesso condensate nelle figurazioni di luoghi o animali. A questo proposito gli autori riportano infatti un’anonima canzone popolare, in cui ritorna il simbolo dell’oca presente nell’installazione di Plender: “La legge rinchiude l’uomo o la donna/ che ruba l’oca dal terreno comune/ ma lascia libera la più grande canaglia/ che ruba il terreno comune all’oca” (Linebaugh e Rediker, 2000).

La figurazione dell’oca è centrale anche in un altro dei documenti presenti in Words and Laws (Whose Shoulder to Which Wheel?), ovvero The Stockholm Duck House: Proposed Monument to British Parliamentary Corruption, Circa 2009. L’opera – una riproduzione in legno di una casa-rifugio per oche – è infatti proposta dall’artista come un “monumento della nazione”, nel senso classico del monumento nazionale settecentesco. Tuttavia, qui l’immaginario nazionalistico è distorto in maniera satirica: la casa-rifugio di Plender è in realtà una replica di una casa-rifugio reale che divenne figurazione mediatica dominante nel 2009, quando nel Regno Unito scoppiò lo scandalo sull’utilizzo improprio di denaro pubblico da parte di Sir Peter, MP britannico per oltre vent’anni. Tra le spese di Sir Peter, infatti, figuravano quelle per la costruzione di una duck house nella sua casa nell’Hampshire. Qui Olivia Plender, a ben vedere, non elabora soltanto una critica alla corruzione parlamentare. Più significativamente, la critica di Plender – che emerge nell’idea della creazione del “monumento” – pare anche diretta al processo tramite cui, allo scoppio dello scandalo nel 2009, nei media di larga diffusione l’elemento della “duck house” venne isolato, ripetuto, amplificato e trasformato così in figurazione-chiave, icona carica di significati intertestuali, ritornello di significazione, elemento di una cornice ideologica e particella di un bombardamento visivo-affettivo dall’ampia base popolare e dai risvolti ambigui, simile a quelli riscontrabili nella popolarità, in Italia, di concetti come quello della “casta” in riferimento al Parlamento.

Words and Laws comprende ancora un consistente numero di documenti, tra i quali almeno due richiedono una menzione: Social Construction e Set Sail for the Levant. Il primo è un gioco di costruzioni ispirato ad un modello sviluppato da Friedrich Fröbel, pioniere tedesco della creazione degli asili. Qui, Olivia Plender raccoglie con ironia ed ambiguità il doppio senso della costruzione, applicando una strategia che ricorda fortemente lo studio dei “miti” di Roland Barthes (1994), laddove le costruzioni indicano tanto il gioco quanto la costruzione sociale tramite il gioco nell’istituzione dell’asilo. Il secondo, Set Sail for the Levant, è invece un gioco da tavola basato sul Gioco dell’Oca, primo gioco a tappe con l’uso di dadi ad essere inventato nel XVI secolo. Il gioco di Plender – ricchissimo nelle illustrazioni e nelle scritte (Plender è anche autrice di fumetti, come A Stellar Key to the Summerland del 2007) – così come nella più classica tradizione del Gioco dell’Oca ha per protagonista il “commoner” alle prese con l’impresa di raggiungere il successo materiale e sociale. Tuttavia, la particolarità del gioco di Plender sta in due aspetti: l’impossibilità di compiere l’impresa senza contrarre un debito; e il fatto che il gioco ravvisi l’unica possibilità di evasione nel “dispiegare le vele verso levante, dove la legge non potrà raggiungerti”. Angus Cameron ha brillantemente illustrato quest’ultimo aspetto mettendo in luce come, nel gioco di Plender, sia incorporata l’educazione all’esercizio del potere d’eccezione in relazione alle leggi economiche. Pur se trasposto nel XVI secolo, il gioco di Plender ha piuttosto a che vedere con il presente. Per Cameron, il Levante rappresenta l’offshore e la vittoria nel gioco non consiste soltanto nel battere gli avversari, ma nell’arrivare ad incarnare un potere che è nelle regole di un gioco da cui – vincendo – si sarebbe teoricamente già usciti. Come scrive l’autore, “il vincitore del gioco […] suborna il potere sovrano vigente nell’universo del gioco stesso: «Sovrano è colui il quale» – come si dice spesso citando Carl Schmitt – «decide dell’eccezione»” (Cameron 2010). Interessante, inoltre, l’insistenza nel gioco sulla questione dell’inevitabilità del debito e sull’idea che il debito, così come caratterizzato nel gioco tramite le scritte e le figure, sia un qualcosa che ha carattere morale e pedagogico, poiché esso riconfigura nella sua interezza le relazioni sociali, investendo il “commoner” dall’angolazione della sua esistenza morale e comunitaria. In questo aspetto, Set Sail for the Levant sembra mettere su carta, attraverso l’arte, alcune osservazioni sul debito non tanto e non soltanto come meccanismo economico, ma piuttosto come tecnologia di governo della soggettività, avanzate da Maurizio Lazzarato in un recente studio (Lazzarato, 2012).

La seconda installazione di Rise Early, Be Industrious è Open Forum. Qui l’artista rivolge l’attenzione alla questione della comunicazione televisiva, del dibattito, dell’opinione e del pubblico. Nell’istallazione l’artista costruisce una replica di uno studio televisivo in stile anni Settanta. Televisori realmente funzionanti e dotati di cuffie sono un aperto invito alla visitatrice della mostra a sedersi per guardare ed ascoltare. I documenti in questo caso – oltre ai pezzi di design che trasmettono il senso del momento storico che fa da setting all’opera – sono gli stessi video trasmessi. Si tratta di tre documentari con finalità educative prodotti tra il 1976 e il 1977 dalla Open University di Milton Keynes in collaborazione con la BBC nell’ambito del corso di studio interdisciplinare Art and Environment, il cui obiettivo didattico sperimentale consisteva principalmente nella riformulazione del rapporto fra arte e società. Se in un progetto parallelo sugli archivi televisivi britannici – Monitor, iniziato nel 2006 – più palese è l’interesse di Olivia Plender circa la pubblica percezione dell’artista in termini “romantici” e l’autori(ali)tà maschile che questa percezione porta con sé, nell’installazione alla CCA di Glasgow più forte è l’accento sul tentativo, da parte dell’artista, di pensare il rapporto fra il ruolo dell’istituzione televisiva e di quella museale in relazione alla diffusione e commodificazione del sapere. Si potrebbe perciò tracciare un parallelismo fra l’opera di recupero degli archivi “educational” della BBC in Open Forum di Plender e il recupero e riproposizione nello spazio del museo dell’archivio televisivo sulle narrazioni della migrazione prodotte dalle cineculture nere britanniche degli anni Ottanta e dal cinema post-coloniale di Chris Marker nell’opera del collettivo d’arte The Otolith Group (vedi "Quaderni d'Altri Tempi" n. 38). In entrambi i casi, quello che tale operazione di recupero e riattualizzazione nello spazio del museo sembra mettere in gioco è una riflessione su televisione e museo come tecnologie della memoria al tempo del neoliberismo e della messa a valore delle capacità di attenzione e memoria (Ferrara, 2012). L’avvento del narrowcasting televisivo come strategia di parcellizzazione della facoltà di attenzione e cura – e il rischio che la retorica della maggiore “scelta” e della più vasta “democratizzazione” della visione implicita in tale frammentazione dei pubblici possa non esser colta in quanto strategia neoliberale di erosione della sfera pubblica comune – paiono infatti i silenziosi sottotesti di questo lavoro di Plender e di molti del collettivo Otolith, come a segnalare la necessità di una ricerca più approfondita in questa direzione a partire dallo spazio complesso e ambiguo del museo contemporaneo.

In Open Forum una interessante sezione è dedicata anche ad una installazione tra le più criptiche di Rise Early, Be Industrious. In una piccola sala attigua allo “studio televisivo” ricreato da Plender sono collezionati materiali piuttosto oscuri, che soltanto il paratesto della mostra chiarisce essere alcuni tra i materiali di studio e ricerca prodotti nel corso di studio TAD292 su Art and Environment tenuto alla Open University a partire dal 1976. La particolarità più evidente di questi “documenti”, per lo più audio-visivi, è l’innovazione dal punto di vista del rapporto che essi intrattengono con la comunicazione in ambito didattico: più che sui significati, questi lavori propongono un approccio alla didattica non convenzionale fortemente creativo. La riproposizione dei materiali dal corso TAD292 pare rafforzare l’idea della necessità di ripensare la relazione fra il museo ed altre istituzioni del sapere. Anche in questo caso, infatti, il museo è problematicamente scelto come sede per ricordare e riattualizzare un’istituzione didattica e di ricerca la cui vocazione non-ortodossa sembra ormai lontana dalle preoccupazioni “meritocratiche” della retorica della fabbrica del sapere universitario contemporaneo. Infatti, come scrive James Procter riprendendo le osservazioni del teorico degli studi culturali britannici Stuart Hall, professore di sociologia alla Open University dal 1979 al 1997, “la Open University abbandonava i tradizionali confini chiusi degli edifici universitari per tenere le lezioni attraverso le trasmissioni dei media, rivolgendosi in tal modo ad una comunità dispersa di studenti… L’Università era anche «open» [aperta], nel senso che non operava discriminazioni meritocratiche in sede di iscrizione”, rivolgendosi “alla gente comune, alle donne e a studenti neri in un ambiente non-accademico” (Procter, 2007).

Successiva installazione di Rise Early, Be Industrious è The New Jerusalem, composta da due plastici, un video e due stendardi. Il primo plastico, The Truth Itself Speaks through Me, è un palese caso di lettura in chiave ideologica del rapporto fra formazione, religione e lavoro. Si tratta, infatti, di un modellino che rappresenta una scena tratta dal Pilgrim’s Progress di John Bunyan – significativamente il libro più diffuso e letto dopo la Bibbia nel Regno Unito tra il XVII e il XX secolo e testo fondamentale nella diffusione del culto dell’operosità e del lavoro presso la “nuova” classe operaia nata insieme alla rivoluzione industriale.

Una decodifica della cornice ideologica piuttosto lineare è anche proposta dai due stendardi sui muri della sala: Britannia Receiving her Newest Institution e How Paul’s Penny Became a Pound – il primo rappresentazione allegorica dell’imperiale Britannia che sorregge un centro commerciale; il secondo riproduzione da un libro del XIX secolo finalizzato ad insegnare ai bambini il risparmio bancario.

Assai più grande e complesso, invece, il potere di suggestione dell’enorme plastico Empire City – The World on One Street. Questo potere viene meglio colto affiancando quest’opera al video che le sta accanto nello spazio espositivo, ovvero Market. Il plastico ricostruisce il sito di Wembley in cui ebbe luogo, nel 1924, la prima esposizione universale britannica, un’architettura di potere in cui commercio e scambio venivano esposte e messe in mostra al fine di suggerire la giustezza e la necessità della conquista imperiale. Lo stesso luogo, Wembley, ritorna, raddoppiato e perturbante, in Market: riprese della Wembley contemporanea, con lo stadio e i mercati di strada, ripropongono il legame tra commercio, architettura, capitale e controllo sociale attraverso una serie di rimandi alla questione dell’edilizia popolare – l’housing – e al processo di “riqualifica”, gentrification, delle città britanniche. Le due opere insieme tracciano, cioè, un fil rouge che lega l’imperialismo britannico al neo-colonialismo interno, lasciando aperte numerose domande, cosicché la spettatrice sia spinta ad un attivo processo di ricerca. Qui, le “narrazioni storiche dell’Europa” di Plender assumono tutto il loro carattere di destabilizzazione del mito dell’Europa, la cui centralità è continuamente spiazzata e provincializzata dal riemergere di una prospettiva globale post-coloniale.

Penultima installazione della mostra è Regeneration (Awake! Awake! The Dawn is Here), in cui emerge con intelligente prepotenza la fortissima ironia che caratterizza il lavoro di Octavia Plender. Questa installazione è parte di un progetto di ricerca assai più esteso, riguardante il ruolo dei movimenti religiosi non convenzionali, di cui è parte anche il già citato fumetto A Stellar Key to the Summer Land, in cui Plender traccia un parallelismo – e al contempo segna una frattura – tra lo Spiritualismo Moderno e la New Age contemporanea. Vicini l’uno all’altro in temi e motivi, l’uno appare infatti all’artista come un movimento dalla forte vocazione sociale che seppe proporre stili di vita e pratiche collettive alternative (in relazione, ad esempio, al discorso sulla schiavitù nelle Americhe o per la centralità pubblica delle donne medium); l’altro appare invece l’estremizzazione individualistica e rovesciata dell’American Dream, nel suo totale abbandono di questioni sociali di ampio respiro a favore di un ripiegamento sul sé che spesso conduce ad una pericolosa introiezione delle crisi (sociali, finanziarie, politiche). L’installazione Regeneration è invece dedicata al Kibbo Kift – movimento britannico degli anni Venti nato dalla costola del movimento Boy Scout di Baden-Powell e a questo opposto per il rifiuto delle tendenze nazionalistiche e militari, vicino invece alle file delle suffragettes e organizzato in clan, tribù e logge – che fu promotore, durante la crisi economica degli anni Trenta, del principio economico alternativo del “credito sociale” teorizzato da C.H. Douglas nel 1924. Tutta l’ambiguità e al contempo la forza del movimento Kibbo Kift sono messe al centro della scena da Plender nei continui rimandi all’attualità ed in particolar modo alle risonanze tra i principi e l’idea stessa del ‘movimento’ promulgata dal Kibbo Kift e gli attuali – ed altrettanto complessi e sfaccettati – appelli popolari al ritorno di figure mitico-simboliche quali Robin Hood (ma qui sarebbe possibile pensare anche alla diffusione dell’iconografia di V per Vendetta, ad esempio) nell’attuale fase di crisi economica globale.

In chiusura, un’ultima nota sul titolo di questo articolo e la sua relazione con la mostra di Plender di cui si è scritto. Il titolo nasce da un esercizio di traduzione. Nella consapevolezza del fatto che nel processo di tradurre inevitabile sia l’atto del tradire, a sua volta gravido di differenti significati, il tentativo di trovare un’espressione italiana che ricalcasse il titolo della mostra Rise Early, Be Industrious ha dischiuso inaspettate possibilità di riflessione. Alla traduzione letterale “Svegliati presto e datti da fare!”, preferibile è sembrata infatti l’espressione “Il mattino ha l’oro in bocca”. Questo in primo luogo, perché, in quanto espressione proverbiale popolare, “Il mattino ha l’oro in bocca” conserva il forte senso di una ingiunzione che si fa “senso comune” incorporando in sé il carattere autoritario tramite la forza persuasiva del consiglio. In secondo luogo, “Il mattino ha l’oro in bocca” ha racchiusi in sé almeno tre elementi che hanno aiutato il dispiegarsi e il prendere forma d’articolo di tutte le sollecitazioni concettuali suscitate dall’incontro con l’arte di Plender. “Il mattino” ha aiutato a decodificare due delle più forti direzioni della ricerca dell’artista: quella sul “mattino” dell’essere umano – ovvero la centralità delle pratiche di istruzione formale ed informale nell’infanzia; e quella del “levante”, “dove sorge il sole”, lasciando emergere ad ogni angolo, nelle narrazioni di Plender, la necessità per l’artista di comprendere la dimensione “ideologica” della rappresentazione dell’alterità (il “Levante” come mito-chiave dell’ideologia coloniale) iscritta nel mito della nazione britannica. “L’oro” ha aiutato invece a comprendere la necessità di evidenziare l’importanza e la centralità dell’economia come discorso strutturante in sé e i suoi passaggi e cambiamenti dal passato alla contemporaneità. “La bocca” ha spinto infine a riflettere sulla comunicazione, sulla differenza tra questa e l’informazione, tra l’informazione e il significato, tra la polisemia e il pluralismo, tra il dicibile e l’indicibile.

 


 

LETTURE

  Barthes Roland, Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 1994.
Cameron Angus, Games of Exception, in A Prior, n. 19, 2010.
CCA, Press Relase for Rise Early, Be Industrious by Olivia Plender, 2012.
Ferrara Beatrice, The Otolith Group’s «Monuments to Dead Television». A Suggestion for Museums in an Age of Migrations?, in ID (a cura di), Cultural Memory, Migrating Modernities and Museum Practices, Politecnico di Milano DPA, Milano, 2012.
Foucault Michel, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Bertani Mauro (a cura di), Michel Foucault. Il discorso, la storia, la verità, Einaudi, Torino, 2001.
Foucault Michel, L’archeologia del sapere, BUR, Milano, 2006.
Lazzarato Maurizio, La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, DeriveApprodi, Roma, 2012.
Linebaugh Peter e Rediker Marcus, I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia libertaria, Feltrinelli, Milano, 2000.
Plender Olivia, A Stellar Key to the Summerland, Book Works, London, 2007.
Procter James, Stuart Hall e gli studi culturali, Raffaello Cortina, Milano, 2007.