facebook
image

 

LETTURE / SEI PROBLEMI PER DON ISIDRO PARODI


di Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares / Adelphi, Milano, 2012 / pp. 192, € 12,00


 

Sei grattacapi per l'ardito lettore

di Livio Santoro

Non sempre per leggere un libro basta aprirlo, sfogliarne le pagine dalla prima all’ultima, richiuderlo, incastrarlo tra gli altri suoi simili negli scaffali della libreria che fa bella mostra di sé in salotto e infine tirare a larghe e piene boccate, con soddisfazione, dalla sigaretta del compiacimento. Spesso, invece, bisogna districarsi attraverso un insieme di più piani in cui quello immediatamente estetico (del godimento delle parole per come sono messe l’una dopo l’altra, si potrebbe dire) è solo uno dei tanti. Leggere un libro è anche comprendere a quali mondi questo si riferisce, in quali contesti affonda le sue trame e in che modo lo fa, senza fermarsi al primo risultato utile. Per quanto banale, questa legge è oro per il lettore. È oro soprattutto quando si ha tra le mani un testo come Sei problemi per don Isidro Parodi, che della sovrapposizione di piani narrativi, ambiti di riferimento, caratterizzazioni semantiche e possibilità ermeneutiche offerte al lettore fa la sua principale ragion d’essere.

Il libro, come oggetto in sé, viene generato nel 1942 dalla florida collaborazione tra gli argentini Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares (autori, tra l’altro, della splendida antologia degli Aldilà intitolata Libro del cielo e dell’inferno, 2011; si veda anche "Quaderni d'Altri Tempi" n. 34) che nelle occasioni di sodalizio come questa scelgono lo pseudonimo di Honorio Bustos Domecq: penna fittizia la cui firma nasce dalla fusione di Honorio, nome di un vecchio sindaco di Buenos Aires, Bustos, nome del bisnonno di Borges e Domecq, nome del bisnonno di Bioy Casares. Già tale fusione di due autori in uno mette in guardia il lettore: nel libro, che di per sé è finzione già soltanto come oggetto fisico, ci sono ben altre finzioni, e sta a te scoprirle; ben altri problemi, e sta a te risolverli. D’altronde, questo dell’apocrifo e del falso, è un gioco a cui Borges ha sempre giocato, un gioco che spesso utilizza i toni della satira, o meglio della parodia: non potrebbe essere altrimenti. Nella trama, invece, Sei problemi racconta delle vicende di don Isidro Parodi, ex barbiere condannato ingiustamente per omicidio a ventun’anni di reclusione e costretto nel chiuso della cella numero 273 del carcere della capitale argentina. Proprio in questa cella, una pletora di personaggi, macchiette caricaturali della Buenos Aires degli anni Quaranta, si fa annunciare volta per volta al fine di risolvere delitti, all’apparenza inestricabili, che nel frattempo funestano il mondo che sta oltre le cancellate della prigione. La fama di don Isidro, infatti, protagonista del libro e tranquillo grassone dagli occhi profondi, è quella del sopraffino solutore di enigmi, dell’acuto investigatore disinteressato: quale utile potrebbe trarre un recluso dalla soluzione di enigmi polizieschi se non arrivare alla soluzione stessa? Un detective prigioniero, contestualmente incapace di considerare prove che non siano i racconti dei suoi ospiti, è allora già un bel colpo satirico assestato alla classica trama del poliziesco, primo ambito che Honorio Bustos Domecq intende sbeffeggiare. Se poi ci si mette che tutti gli ospiti di don Isidro sono degli ingenui, degli stupidotti pieni di sé (caratterizzati nel loro linguaggio in una maniera ipertroficamente eccelsa) che estremizzano i tratti bonaerensi di un’avvizzita borghesia francofila e di un’élite culturale manierista, l’intento satirico dichiarato nella strategia narrativa s’innalza grandemente toccando altri piani d’intervento, altre piattaforme di significato. Non a caso anche Parodi(a), il nome scelto per l’investigatore, come sottolinea Umberto Eco (2004), è probabile che voglia esattamente designare l’intento satirico dell’autore che è due autori pur non essendo né l’uno né l’altro. È probabile. Probabile perché, come tutto ciò che appartiene alla produzione di Bioy Casares e soprattutto di Borges, avere una certezza significa non averci capito proprio nulla.

Si diceva: nella cella 273 del Penitenziario Nazionale di Buenos Aires alcuni idioti coinvolti a diverso titolo in sei casi di delitto, chiedono a don Isidro la soluzione del loro problema; ognuno di questi, presentandosi al detective con parole che ogni volta suonano come grottescamente garbate (si prenda soltanto quanto gli dice Gervasio Montenegro, deficiente attore giramondo accusato di furto e di omicidio nel secondo dei sei problemi raccolti nel libro: “Invidio la sua reclusione da benedettino, signor Parodi, ma la mia vita è stata errante. Ho cercato la luce alle Baleari, il colore a Brindisi, il peccato elegante a Parigi. E, come Renan, ho anche detto la mia preghiera sull’Acropoli. Dovunque ho spremuto il succoso grappolo della vita…”), gli racconta la sua versione, con la dovizia della presunzione e con l’atteggiamento tronfio delle persone francamente povere di spirito. Si diceva: in ognuna di tali situazioni don Isidro, per risolvere gli enigmi, ha a disposizione soltanto i racconti (spesso drammaticamente ego-riferiti) dei suoi ospiti; racconti che, una volta ascoltati e interiorizzati dal detective, vengono da questi totalmente rivoltati e sezionati rivelando una coerenza nascosta e proponendo una soluzione dell’enigma. Una soluzione, non la soluzione. Una soluzione che tuttavia, all’esterno del carcere, diventa la soluzione. Ecco allora un altro gioco, forse il più importante, del libro: un povero grassone ingiustamente condannato a una lunga reclusione mette ordine nei racconti dei suoi ospiti offrendone la sua versione singolare, una versione che, non avendo a disposizione la prova fattiva dell’ambiente fisico in cui si svolgono le vicende e non avendo a disposizione le strumentazioni dell’indagine poliziesca, può riferirsi soltanto a due parametri: appunto il racconto e l’interpretazione. In tal senso il lavoro di don Isidro Parodi non è altro che ermeneutica, e se tale lavoro non è altro che ermeneutica allora i racconti dei personaggi di contorno non sono altro che testi più o meno complessi, e proprio come tali vanno letti: ancora un chiaro punto di contatto tra Sei problemi per don Isidro Parodi e le classiche strategie narrativo-speculative di Borges (che, lo ricordiamo, nella sua letteratura si è spesso riferito anche all’universo della Cabala).

Maurice Blanchot, parlando proprio di Borges, sosteneva che “se il mondo è un libro, ogni libro è il mondo, e da questa innocente tautologia nascono temibili conseguenze” (Blanchot, 1969). Dunque per noi, all’interno dei vari testi che sono le narrazioni degli ospiti di Parodi, vi sono altrettanti mondi, mondi tuttavia un po’ confusi che chiedono soltanto di conoscere una certa coerenza per trovare un senso che all’apparenza non hanno. Ed allora è proprio questo che fa don Isidro, dà coerenza ai testi, che sono le narrazioni dei suoi ospiti, attraverso una particolare ermeneutica. Un’ermeneutica che, data la natura dei testi stessi e dell’interlocuzione, non può che essere provvisoria, parziale, partigiana, circoscritta e contestuale. In una parola: congetturale.

Ecco, Sei problemi per don Isidro Parodi sembra essere (sul piano analitico che stiamo discutendo) una grandiosa elegia della congettura. Sì perché don Isidro non fa altro che dare senso a un mondo, a una narrazione, a un testo, partendo da quel poco che ha e dal suo solido punto di vista. Come sottolinea Antonio Melis nella postfazione del libro (appena riproposto sul mercato italiano da Adelphi con una nuova traduzione, dopo quella del 1978 di Editori Riuniti), è proprio la condizione di internato di don Isidro a esigere la congettura come metodo: “La reclusione […], paradossalmente, [è] una condizione ideale, perché l’unica risorsa di cui don Isidro dispone è la congettura a partire dai racconti, spesso sconclusionati, dei personaggi che affollano la sua cella”. In tal senso, e qui proponiamo forse un azzardato parallelismo, la natura congetturale con cui Borges e Bioy Casares costruiscono le soluzioni proposte da don Isidro, è la stessa che sottostà alla strutturazione del pensiero speculativo, al modo, per esempio, di quanto avviene in uno dei racconti più sensazionali delle Finzioni di Borges, Tre versioni di Giuda (Borges, 2003).

In altre parole Isidro Parodi rappresenterebbe, almeno per noi, anche un burlesco scienziato dello spirito, un filosofo recluso che ha a disposizione soltanto alcuni testi (i racconti degli ospiti) e il cui divertimento (o forse la cui unica occupazione, perché il tempo tra le sbarre va in quale modo ammazzato) è interpretare questi stessi testi. D’altronde è quello che fa ogni filosofo, ogni scienziato dell’uomo: leggere testi, interpretarli, e accettarne o rifiutarne la coerenza, proponendone nel caso una nuova, più solida, più condivisibile… o semplicemente più divertente, perché no. Ma che si sappia che ognuna delle soluzioni proposte o rifiutate, accettate o riformulate, non è altro che congettura, che ci si trovi rinchiusi in una cella o che si sieda comodamente alla scrivania del proprio studio. Perché, come sostiene Friedrich Nietzsche in uno dei suoi passi forse più famosi: “I fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni” (1990). Solo congetture, correggerebbe Honorio Bustos Domecq. Ma anche un bel po’ di problemi, aggiungerebbe il suo ardito lettore.

 


 

LETTURE

Blanchot Maurice, L’infinito letterario: l’Aleph, in Il libro a venire, Einaudi, Torino, 1969.
Borges Jorge Luis, Finzioni, Adelphi, Milano, 2003.
Borges Jorge Luis e Bioy Casares Adolfo, Libro del cielo e dell’inferno, Adelphi, Milano, 2011.
Borges Jorge Luis e Bioy Casares Adolfo, Sei problemi per don Isidro Parodi, Editori Riuniti, Roma, 1978.
Eco Umberto, L’abduzione in Uqbar, in Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano, 2004.
Nietzsche Friedrich, Frammenti postumi 1885-1887, in Opere di Friedrich Nietzsche, Adelphi, Milano, 1990.