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VISIONI / ALICE


di Jan Švankmajer / Rarovideo, 2012


 

Nel paese delle ossessioni

di Clara Ciccioni

“Abbandonati interamente alle tue ossessioni. Tanto non hai certo nulla di meglio. Le ossessioni sono relitti d’infanzia. Ed è proprio dalla profondità dell’infanzia che hanno origine i tesori maggiori. Occorre sempre tenere le porte aperte in quella direzione. Non si tratta di ricordi ma di sensazioni. Non si tratta di coscienza ma di inconscio. Lascia che questo fiume sotterraneo scorra liberamente dentro di te. Concentratici sopra, ma al tempo stesso rilassati al massimo. Quando giri un film, devi rimanerci dentro 24 ore su 24. Poi tutte le tue ossessioni, tutta la tua infanzia, si trasferirà nel film senza che neanche ne abbia coscienza. E il tuo film si trasformerà in un trionfo dell’infantilismo. E proprio di questo si tratta” (Švankmajer, 2012). Così recita il secondo punto del Decalogo di Jan Švankmajer, per certi versi uno tra gli autori più sottovalutati della storia del cinema. Se non altro dai distributori cinematografici italiani, che non hanno mai considerato l’idea di concederci una sua pellicola su grande schermo.

Jan Švankmajer è considerato uno dei grandi maestri del surrealismo e del cinema di animazione, è autore di sei lungometraggi e una trentina di corti, realizzati tra i primi anni Sessanta e il 2010 e quasi tutti giunti al grande pubblico solo a partire dagli anni Novanta, soprattutto grazie alla diffusione dei formati digitali scambiati in rete. È nato nella Praga del Surrealismo boemo e del teatro delle marionette, una città che non ha mai abbandonato, e ha trascorso gran parte della sua vita al fianco di Eva Švankmajerova, la pittrice che fu sua moglie ma anche onnipresente alleata artistica finché la morte di lei, nel 2005, non li ha separati.

Nel suo ventiquattresimo anno di età, Něko z Alenky (Qualcosa da Alice, 1987) di Jan Švankmajer esce in Italia in dvd per la Rarovideo dei fratelli Curti, che già qualche anno fa ci aveva regalato una raccolta di cortometraggi del regista e sceneggiatore ceco, che dopo aver tratto in passato ispirazione dall’universo carrolliano per Jabberwocky (1971) e Do Pivnice (Giù in cantina, 1983), trovò “il coraggio” (per sua stessa ammissione) di affrontare il romanzo più celebre di colui che considera uno dei precursori del surrealismo. Di fatto con questo suo primo lungometraggio il regista ceco ha inteso chiudere il cerchio di un discorso portato avanti per più di vent’anni con i suoi corti, dove il tema dell’infanzia non è semplicemente presente ma costituisce il motore stesso della sua idea di cinema. E in effetti in Qualcosa da Alice, come sottolinea Bruno di Marino nella presentazione allegata al dvd, c’è “tutto il cinema di Švankmajer, passato, presente e futuro”.

Che in Qualcosa da Alice non c’è solo Carroll ma anche e soprattutto Švankmajer è del resto evidente. E ciò non soltanto perché, naturalmente, si tratta di una libera e personale interpretazione del romanzo del reverendo Dodgson, in cui Švankmajer traspone quel mondo di oggetti animati a passo uno dai colori e dai rumori così familiari a chi conosce la sua opera, ma anche perché questo Paese delle Meraviglie contiene i luoghi e gli umori di un’infanzia vissuta, con la quale l’autore non ha mai smesso volutamente di fare i conti. All’inizio del film, lo spettatore è subito avvertito: “Dovrai chiudere gli occhi, altrimenti non vedrai nulla”. Non si tratta di un viaggio da intraprendere spalancando lo sguardo sulla meraviglia, ma serrando le palpebre e scendendo nei luoghi perversi del subconscio. Conservando tuttavia la capacità di muoversi tra sogno e realtà senza soffrire di confini prestabiliti, un intento che Švankmajer mette in pratica da sempre col suo cinema – “Trasferisciti continuamente dal sogno alla realtà e viceversa. Non esistono passaggi logici di alcun genere. Tra il sogno e la realtà c’è un’unica e sola operazione fisica: sollevare o abbassare le palpebre. Nel sogno ad occhi aperti si elimina poi anche questo” (Švankmajer, 2012), si legge ancora nel Decalogo – e che in Qualcosa da Alice è più che mai raggiunto.

Come in Do Pivnice e Otesanek, c’è di nuovo la cantina, il luogo “perverso” dove il regista da bambino, mandato dalla madre a prendere le conserve, viveva il terrore irrazionale dell’oscurità e l’angoscia dell’ignoto, e qui il sotterraneo buio e umido dove Alice si ritrova inseguendo il Coniglio Bianco attraverso il cassetto di uno scrittoio. C’è la scuola, sede per eccellenza dell’“educazione civilizzante” che addomestica il bambino che si prepara a diventare adulto, che è il compasso con cui Alice si punge prima di entrare nel cassetto, è l’inchiostro che ingerito la fa rimpicciolire, è il quaderno su cui sono scritte le parole di scuse che il Coniglio e il Re di Cuori le impongono di leggere durante il processo che subisce alla fine del racconto, nonché la cattedra da cui Alice subisce quell’insensato processo. E infine c’è il tema del cibo, anch’esso centrale nella produzione del regista ceco e in Alice un altro simbolo della costrizione sociale e dell’aggressività umana nonché elemento catartico che accompagna la bambina nelle prove da superare in ogni avventura del suo viaggio onirico. Un viaggio che Alice compie attraverso passaggi quasi sempre dolorosi: la piccola si ferisce, inciampa, cade, batte la testa a ogni trapasso, e i personaggi che incontra sono esseri tutt’altro che benevoli, a cominciare dal Coniglio Bianco, un brutto leporide pieno di segatura (prima di entrare nel sogno è imbalsamato in una teca nella soffitta dove Alice, annoiata, si rifugia) e dallo sguardo inquietante, che si preoccupa unicamente di non far tardi all’appuntamento con la regina. Il Coniglio si dimostra indifferente, aggressivo, violento all’occasione. Del resto, anche prima di sognare Alice è maltrattata dagli adulti, quando in riva al lago riceve uno schiaffo dalla sorella come risposta alla sua curiosità di sfogliare il libro che quella sta leggendo. E se il viaggio di Alice è la metafora dell’imposizione sociale della crescita e dell’educazione, il punto di approdo, nel finale del film, è il perfetto raggiungimento dello scopo. Alice si sveglia, nella soffitta è tutto più o meno come prima, ma il coniglio nella teca non c’è più; e lei, sopravvissuta brillantemente al processo delle creature del sogno, prende in mano le forbici e suggella con un pensiero rivolto al coniglio il suo passaggio definitivo all’età adulta, in cui può esercitare quei poteri distruttivi che fino ad allora ha soltanto subìto: “È in ritardo come al solito. Credo che gli taglierò la testa”.

Delle innumerevoli trasposizioni del romanzo, quella di Švankmajer è tra le più intime e originali, ispirata dall’abilità di Lewis Carroll nel rappresentare il subconscio infantile e trasformata in un manifesto alla dignità dell’infanzia e alla libertà dello spirito. “Se infatti l’arte ha un qualche senso, allora è quello di rendere l’uomo più libero, è quello di liberarci proprio da quelle abitudini addomesticanti che fin dall’infanzia ci vengono introiettate dall’educazione civilizzante. Come sappiamo con Sigmund Freud, l’educazione è strumento del principio di realtà, mentre l’arte è frutto del principio del piacere. E questi due principi si comportano l’uno verso l’altro come cane e gatto, come acqua e fuoco, come repressione e libertà” (AA.VV., 2008).

 


 

LETTURE

  AAA.VV., Jan Švankmajer, Eva Švankmajerova, memoria dell’animazione, animazione della memoria, Mazzotta, Milano, 2008.
Cherry Brigid, Dark Wonders and the Gothic sensibility: Jan Švankmajer’s Neco z Alenky (Alice, 1987),
in Kinoeye, Vol. 2, N. 1, 7 gennaio 2002, http://www.kinoeye.org/02/01/cherry01.php.
Hames Peter, The Cinema of Jan Švankmajer: Dark Alchemy, Columbia University Press, New York, 2008.
Švankmajer Jan, Decalogo, in Brainwasher, 6 agosto, 2012,
http://robotsrulesthenation.tumblr.com/post/28826116960/decalogo-di-jan-svankmajer.

 


 

VISIONI 

 Schmitt Bertrand e Leclerc Michel, Les Chimeres des Švankmajer, Chalet Pointu, Francia, 2001.