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ASCOLTI / DANIEL JOHNSTON


Concerto Piper Club / Roma, 24 aprile 2012


 

Portando a spasso la mucca

di Clara Ciccioni

Dio non lascerebbe mai accadere

una Grande Tribolazione

senza qualche supereroe in giro

Daniel Johnston

 

“Un maniaco-depressivo con magnifiche illusioni”. Forse nessuno ha mai descritto meglio, in estrema sintesi, Daniel Johnston. Nessuno meglio di quanto abbia fatto lui stesso in conclusione alla lettura di una lunga lista di sintomi associati alla sindrome bipolare, diagnosticatagli intorno ai vent’anni dal medico del Christian College. Della vita e della storia di Daniel Johnston è stato svelato quasi tutto da un documentario, molto bello, uscito qualche anno fa, dove i racconti di familiari, amici e conoscenti si alternano ai chilometri di nastro su cui Johnston ha registrato, oltre che i suoi album, i suoi diari, le corrispondenze con il manager, gli sfoghi di rabbia calvinista della madre… A volte si ha l’impressione di svilire il suo talento poetico chiamando in causa la malattia mentale, la sua lunga storia di psicofarmaci (per ammissione dei medici quasi sempre “sbagliati”) e i soggiorni negli ospedali psichiatrici d’America, relegandolo in tal modo nel novero degli artisti sfortunati per natura. Ma forse, al contrario, le avventure di Daniel Johnston nella psicosi non fanno che rivelare come nella sua magnifica illusione di essere nato per scrivere canzoni e disegnare fumetti, e diventare famoso la ragione l’avesse lui. Anche alla luce del fatto che la notorietà se l’è guadagnata a forza di album registrati a bassissima fedeltà su cassette auto-confezionate e distribuite brevi manu ad amici e musicisti. La sua storia artistica è cominciata più o meno nel 1980, quando aveva diciannove anni e registrò nel basement di casa Songs of Pain, venti brani organo e voce, a tratti intervallati dai lamenti disperati di sua madre che lo accusa di essere il servo fannullone della parabola dei talenti. A quel primo album sono seguiti Don’t Be Scared, The What of Whom, nel 1982, e More Songs of Pain e Yip – Jump Music nel 1983, prima che Hi, How Are You – The Unfinished Album, uscito nel settembre di quell’anno, trasportasse le sue canzoni oltre la ristretta cerchia dei conoscenti finendo nelle mani di Kathy McCarty dei Glass Eye, una band sulla cresta della scena di Austin. Kathy McCarty fece girare la cassetta tra le sue conoscenze, la ascoltarono musicisti e critici musicali, e qualche mese dopo i Glass Eye lo chiamarono ad aprire il loro concerto a Austin. Daniel Johnston viveva con il fratello, la cognata e i bambini, e si guadagnava il suo posto tra gli uomini di buona volontà lavorando ad Astroworld, il lunapark cittadino, dopo aver abbandonato la poco attraente esperienza universitaria in Ohio… lui voleva disegnare fumetti. E nel garage, con due registratori e un organo da pochi dollari, registrava i suoi album. Durante quel suo primo brevissimo live da spalla, piuttosto che col piano decise di accompagnarsi con la chitarra, che non sapeva suonare.

 

Time is a matter of fact

and it’s gone and it’ll never come back,

and mine is wasted all the time.

Tears, stupid tears bring me down.

 

Alla fine del concerto (durato solo tre pezzi), dopo Tears Stupid Tears il pubblico restò in silenzio a chiedersi come reagire a quel grado zero di performance abbinato a un livello estremo di umanità e all’ineluttabile emotività della musica. Nella sala serpeggiarono i fumi di una specie particolare di shock goffmaniano… “Is this supposed to be cool… or not?”.

Nell’aprile scorso, dopo due tour italiani annullati, Daniel Johnston ha aperto il concerto al Piper di Roma con Lost in My Infinite Memory, un brano tratto dall’ultimo album, Is, and Always Was (2009), che in copertina reca l’eloquente ritratto di uno scheletro al pianoforte.

 

Hi! How are you these days?

Everything seems sort of crazed

And I feel so lazy I could cry

I feel like I could lay down and die

 

I love you all, but I hate myself

And there doesn’t seem to be anyone who can help

And everything has turned out bad

I’m so sad

 

Il registro della comunicazione è rimasto evidentemente lo stesso, il grado di umanità (masticata) anche, ma ormai il Pubblico ha risolto l’enigma goffmaniano in suo favore, e a Roma aveva evidentemente voglia di dimostrarlo. Daniel ha sfregato le corde della sua mini-chitarra con grande impegno per altre due canzoni, prima di essere raggiunto da una band di strumentisti romani con cui ha eseguito altri dieci brani, per poi tornare da solo sul palco e chiudere con un encore affidato a una delle sue canzoni più ascoltate e in qualche modo più ottimiste, True Love Will Find You In The End. Durante il concerto ce l’ha messa tutta, ha cantato ogni pezzo con gli occhi fissi al leggio con i testi, in una mano il microfono, l’altra chiusa a pugno. E con qualche eccezione – Fish, Don’t Let the Sun Go Down on Your Grievances, Love in Vain – Johnston ha presentato un live tutto sommato più vitale che struggente, con delle punte di gioia bambinesca nell’introdurre le canzoni-tributo al fantasmino Casper – “a song about my favourite cartoon, a close personal friend of mine” – e ai Beatles.

Da quel primo live ad Austin sono passati trent’anni e successe tante vicende, a cominciare dalla leggendaria apparizione nel programma di MTV The Cutting Edge, quando Daniel si presentò così: “Mi chiamo Daniel Johnston e la mia cassetta si chiama Hi, How Are You e… avevo un esaurimento nervoso e l’ho registrata”. Subito dopo ci fu l’hype degli anni Ottanta, i premi della critica, l’incontro con Jeff Tartakov – apparentemente il ritratto del Danny Rose di Woody Allen – ovvero l’aspirante produttore musicale con cui darà vita alla Stress Records, la label che ristamperà in audiocassetta tutti gli album degli esordi e continuerà a produrre alcune uscite negli anni Novanta. Poi la psichedelia, l’Lsd e il bad trip al concerto dei Butthole Surfers. Il 1987, quello che chiama il suo “anno perso”, giornate intere passate a letto impedito alla musica perché inebetito dai farmaci di cui consiste il suo “trattamento sanitario”. New York e l’incontro con i Sonic Youth, Moe Tucker dei Velvet Underground e Jad Fair degli Half Japanese, le avventure con Dio e il Diavolo, l’arresto per aver vandalizzato la Statua della Libertà (aveva disegnato un pesce anti-satanico in un muro interno) il mental hospital di Bellevue, il concerto dei Firehose al CBGB. E ancora il mental hospital in West Virginia e poi il concerto di fronte a un mostro di tremila persone (stavolta visibilmente entusiaste) all’Austin Music Award, dopo il quale Daniel, “posseduto” dall’amato Casper (“The Friendly Ghost”), farà precipitare il piccolo aereo da turismo su cui viaggiava con il padre e il fratello, buttando la chiave dal finestrino. Kurt Cobain con la maglietta di Hi, How Are You, il contratto con la Atlantic, le mostre dei suoi disegni in America e in Europa, una ventina di album e qualche migliaio di psico-pillole.

Il risultato fisico di questa vita trasuda dai tanti chili di peso e da una voce diversa e affaticata, dal tremore degli arti quando si esibisce, e forse pure dal sorriso. Quello artistico è indissolubilmente legato a un universo interiore registrato che ha continuato a riemergere dalle cassette. In quell’universo c’è soprattutto Laurie (alias the librarian), l’unico platonico amore della vita e musa ispiratrice della gran parte delle sue canzoni. O meglio, non c’è tanto Laurie quanto la disperazione per non averla avuta, perché Laurie finì presto per sposarsi con un impresario di pompe funebri. E tutto intorno ci sono i Beatles – “Disegnavo prima di mettermi a scrivere canzoni. La mia aspirazione era diventare un autore di fumetti. Non ho mai pensato di diventare musicista finché non ho ascoltato i Beatles” – Dio, Satana – “Si impossessa di me in varie forme. È il mio nemico, ma ormai non mi preoccupa più. Vuole che io sia felice di scrivere canzoni perché adora che io disegni e scriva canzoni” – Casper – che “sorride dal suo inferno personale” – i personaggi della Bibbia e i supereroi di Jack Kirby – “Studiavo i suoi disegni ventiquattr’ore al giorno. È il più grande artista di tutti i tempi” – mescolati in quell’immaginario che prende vita nelle sue canzoni e nel mondo disegnato che da sempre le accompagna nelle cover degli album. “È un gioco surreale nella mia mente che non capisco nemmeno io. È più reale di quanto lo sia io. È più reale delle cose che faccio. Questo mondo disegnato che va avanti esiste di per sé, non sono io che lo invento. Le immagini si disegnano da sole. Io mi limito a guardarle e a riflettere e cercare di interpretare cosa succede. Può essere un’idea allarmante per chi vuole essermi amico. Vivo in un altro mondo, su un altro piano. Non sono affatto Daniel Johnston”. “Chi sei, allora?”

“Sono Daniel Johnston e sono sempre stato Daniel Johnston. L’unica ragione per cui ho dichiarato che non ero Daniel Johnston era tentare di uscire da me stesso per un minuto, per una breve pausa dall’infinito. Non poteva durare. Non posso sfuggire all’essere Daniel Johnston”.

 


 

ASCOLTI

Una selezione dei lavori di Daniel Johnston

  Songs of Pain, Stress Records, 1981.
The What of Whom, Stress Records, 1982.
More Songs of Pain, Stress Records, 1983.
Yip – Jump Music, Stress Records, 1983.
Hi, How Are You, Stress Records, 1983.
Retired Boxer, Stress Records, 1984.
Respect, Stress Records, 1985.
1990, Shimmy Disc, 1990.
Fun, Atlantic, 1994.
Rejected Unknown, Newimprovedmusic, 1999.
Is and Always Was, Eternal Yip Music, 2009.
Fear Yourself, Gammon Records, 2010.

 


 

LETTURE

  Yazdani Tarssa e Goede Don, Hi, How Are You?: The Life, Art, & Music of Daniel Johnston, Last Gasp, 2006.

 


 

VISIONI

Feuerzeig Jeff, The Devil and Daniel Johnston, Sony Pictures, 2006.