LETTURE / COSA VUOLE DIRE AMARE
di Mathieu Lindon / Barbès, Firenze, 2012 / pp. 220, € 15,00
Camminando con un cattivo maestro
di Livio Santoro
“Le talent, lui, fut le mixte singulier que vous avez connu de rire et d’attention, d’ironie et de bienveillance, où se composaient avec un charme inimitable l’érudition sourcilleuse d’un Bénédictin et cette élégance de race qui apparentait Foucault à nos philosophes du XVIII siècle” [“Il suo talento fu la singolare commistione che avete conosciuto di riso e attenzione, ironia e benevolenza, in cui confluivano con un fascino inimitabile la rigorosa erudizione di un benedettino e quest’eleganza di razza che avvicinava Foucault ai nostri filosofi del XVIII secolo”] (Vuillemin, 1984). Così Jules Vuillemin conclude il suo epitaffio a Michel Foucault, breve discorso pronunciato nel 1984 tra le mura di quel Collège de France in cui, fino a poco tempo prima, uditori di ogni genere, età ed estrazione s’erano accalcati per ascoltare l’ultimo dei tredici Corsi tenuti a partire dal 1970 dal filosofo di Poitiers, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II (Foucault, 2011; Quaderni d'Altri Tempi n. 36). In quest’ultimo Corso Foucault racconta con il suo consueto garbo e la sua abituale e smisurata erudizione della parresia, il coraggio di dire-il-vero, quell’etica che alcuni tra i grandi filosofi del passato classico (nella fattispecie Socrate, Epitteto e Diogene di Sinope) hanno adottato nella promozione del loro insegnamento. Un insegnamento che, in fin dei conti, rovescia se stesso nelle sue basilari metodologie d’intervento. Non si insegna ciò che si dice, in sostanza. Si insegna ciò che si fa, ciò che si è. Si insegna un modo di rapportarsi agli altri e a sé. E, soprattutto, lo si fa senza offrire esplicitamente alcuna direttiva, in concerto con la conduzione di un quotidiano che sia esso stesso insegnamento. Il rapporto con il discepolo, in tal senso, non vive nella statica dei ruoli, è un rapporto vivo, di attualità diffusa, di giorni che si susseguono. Non è fatto soltanto di cattedre e di banchi, tutt’altro; preferibilmente vive proprio al di là di questi. Esattamente la parresia, intesa in questo ordine di idee, si configura nel Corso appena citato, di cui è oggetto, al modo di una pratica costante: monastica e sfrontata, come una vita marginale alla maniera del cinico; rischiosa e inamovibile, come una vita che si conclude in una sbronza di cicuta. Dunque, esattamente questo ultimo Corso, nell’eredità forse forzata offerta ai consumatori di pensiero (e non soltanto a costoro), dichiara implicitamente quanto Michel Foucault stimasse una certa filosofia classica, una filosofia da Porticato più che da Università. Una filosofia in cui il maestro cammina al fianco del suo discepolo, guardando e interpretando gli spicchi di quell’enorme congettura a cui per non smarrire il senno abbiamo dato il nome di realtà.
Fatto sta che alla base del pensiero di Foucault, quale elemento che lo fonda in maniera strutturale, vi è una continua e costante messa in discussione delle Verità maiuscole, quelle che emergono dalla furia demiurgica del Discorso, attraverso l’affermazione di una verità minuscola, quella dell’etica, quella della parresia appunto: una verità non troppo dissimile, nella sua vocazione sovversiva, anche dalla verità del folle.
Tuttavia un maestro, per quanto accorto, ha pur sempre dei discepoli che a volte travisano, innalzano, incensano, fraintendono o semplicemente riportano in maniera anodina o sensazionale il suo lavoro. Perché è innegabile che una personalità come quella di Foucault, disgraziatamente situata in un periodo in cui le mode filosofiche rivaleggiano sui mercati con quelle musicali, può forse essere bersaglio di un’ovvia critica al divismo. Almeno su questo non c’è dubbio alcuno: per molti anni si andava in libreria ad acquistare La volontà di sapere o L’uso dei piaceri come si andava in un negozio di dischi a prendere l’ultimo ellepì dei Rolling Stones; per molti anni ci si contendeva la prima fila dell’aula al Collège de France come ci si contendeva la ringhiera prossima al palco sul prato di Wembley. Foucault era un divo, e non si può dire il contrario. E lo è tuttora, icona di una manieristica disobbedienza da quartieri alti, impressa a stampa sullo sfondo di una t-shirt da mostrare con irriverenza nell’elegante tedio dei salotti buoni. Foucault come altrove Che Guevara, Bob Marley, Marilyn Monroe. Foucault che, in sostanza, al di là dei cancelli del Collége, diventa anche una specie di cattivo maestro. Non a caso Paul Veyne, uno che con Foucault ha lavorato, ha vissuto e discusso, nel suo recente volume dedicato all’amico pianta un titolo programmatico in uno dei suoi capitoli: Foucault corrompe i giovani? (Veyne, 2010; Quaderni d'Altri Tempi n. 28).
Eccolo allora uno di questi giovani corrotti, uno di questi giovani figli di un contesto, quello della Parigi degli anni Settanta/Ottanta, determinato a far sfoggio degli insegnamenti del maestro proprio in quei salotti buoni che sono crogiolo di un’avvizzita élite della cultura. Eccolo Mathieu Lindon, autore di un romanzo che nella Francia d’oggi, giusto un anno fa, viene riconosciuto di indubbio valore addirittura con l’assegnazione del Prix Médicis. A leggerlo, almeno inizialmente, un po’ si storce il naso. Cosa vuol dire amare, che Barbès porta in Italia in questi mesi, è un romanzo inizialmente irritante, e non solo per il titolo melenso da supermercato della letteratura che porta in copertina. Lo è perché racconta in prima persona del tragitto autobiografico post-adolescenziale del figlio di Jerôme Lindon, il fondatore di una delle case editrici maggiormente influenti per la cultura francese, dunque europea, del secondo Novecento, le Éditions de Minuit (tra gli autori pubblicati dalla casa di Parigi, per dirne solo alcuni, ci sono Pierre Bourdieu, Gilles Deleuze, Maurice Blanchot, Jacques Derrida, Marguerite Duras e Samuel Beckett).
A meno che non ci si chiami Ferdinand Bardamu o Hanry Chinaski, infatti, l’autobiografismo e quella rischiosa e inevitabile ipertrofia dell’ego che vi fa da sfondo sono probabilmente sintomi della peggiore malattia dello scrittore che voglia esplicitamente farsi suo stesso personaggio. Quando poi si abbandona qualsiasi spunto autenticamente ironico, come capita in Cosa vuol dire amare, la malattia sembra arrivare al parossismo. L’irritazione pruriginosa della lettura, tuttavia, qualora il lettore riesca a scindere il come si parla dal ciò di cui si racconta, tende gradualmente a svanire. E, sia detto, questa scissione non avviene soltanto grazie a Lindon. Avviene piuttosto grazie a Michel Foucault, a quello che a tutti gli effetti è il co-protagonista del racconto. Foucault il cattivo maestro, il corruttore di giovani.
Cosa vuol dire amare, al netto di quanto abbiamo sopra sostenuto, ha dunque esattamente un grande, grandissimo pregio. Pregio che sta nella fortuna che Lindon, da “groupie” di Foucault, ha avuto nell’accompagnare il filosofo durante alcuni anni della sua vita. Fortuna che gli permette di raccontare del quotidiano del filosofo, delle sue giornaliere incoerenze e debolezze, della sua gradevole ironia (la stessa che ricorda Vuillemin), del suo arrogante e allo stesso tempo accogliente rapporto con la sessualità, delle sue esperienze percettive di soglia, del suo porsi in maniera marginale, proprio come un profeta della parresia, nei confronti dei diagrammi costituiti del Potere. Del suo accompagnarsi agli altri, che questi capiscano o meno. Perché quando si raccontano sporadici tratti della biografia di una personalità tanto influente prendendo spunto dall’orizzonte della sua vita di tutti i giorni, si fa un grosso omaggio al suo insegnamento tout court. Cosa vuol dire amare è allora un libro che si è incidentalmente trovato ad avere un suo legittimo peso, peso che probabilmente anche la giuria di un prestigioso premio letterario d’oltralpe ha messo sul piatto della bilancia. In Cosa vuol dire amare si legge così del rapporto di un giovinetto d’alto bordo con un uomo prima ancora che con un filosofo; un rapporto visto dalla parte del giovinetto, è naturale. In esso si legge di un cattivo maestro che sbaglia (perché non c’è nulla da sbagliare) e che lascia che anche i suoi discepoli sbaglino. Un cattivo maestro che, per chi l’ha conosciuto, insegnava soprattutto al di fuori delle aule, al di là delle cattedre. E insegnava anche a quei borghesi che, forse per loro naturale disposizione, difficilmente sono in grado di far parlare con garbo il proprio ego. È stato un uomo davvero fortunato Mathieu Lindon, su questo non c’è dubbio. Un uomo che dalla sua fortuna ne ha tratto anche un romanzo. Cosa che, probabilmente, avremmo fatto tutti noi.
LETTURE
— Foucault Michel, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984),
Feltrinelli, Milano, 2011.
— Veyne Paul, Foucault. Il pensiero e l’uomo, Garzanti, Milano, 2010.
— Vuillemin Jules, Hommage à Michel Foucault, 1984,
all’URL www.college-de-france.fr/media/professeurs-disparus/UPL36609_necrofoucault.pdf