L’inatteso nel mezzo delle puntate di nostra vita

 

di Umberto Gargiulo

 



Le caratteristiche  peculiari  dei prodotti audiovisivi seriali sono tutte riconducibili alla forma di scrittura che li sottende e che possiamo definire deviante rispetto alla struttura narrativa solita del romanzo con un inizio, una parte centrale ed una fine, e con l’equilibrio iniziale rotto e poi ricomposto alla fine. Addirittura, la fine delle singole puntate nei prodotti seriali è caratterizzata da un colpo di scena non risolto e che lascia lo spettatore in attesa, ecc.. ecc…

Intanto, bisogna distinguere tra serie e serial, dove la serie è composta da episodi autonomi e per questo provvisti di titolo, mentre i serial sono formati da puntate non autonome e temporalmente legate. Per riportare le definizioni a letterature più riconoscibili potremmo dire che il Decameron è una serie e La Divina Commedia è un serial.

La particolarità dei prodotti seriali sta tutta nella storia: tutte le caratteristiche proprie dell’arte degli audiovisivi sono presenti nei prodotti seriali. Per questo, belli o brutti, innovativi o tradizionali  che siano, ai prodotti seriali possiamo comunque applicare le stesse categorie estetiche che normalmente utilizziamo per gli altri prodotti televisivi. Tranne che per la storia. Anche per i sequel la storia sottesa è da considerare alla stregua della narrazione tradizionale, i capitoli in più sono dovuti al successo del primo film, oppure alla lunghezza dell’intreccio, e fungono da completamento di una storia; talvolta con l’invenzione postuma della genesi di tutto l’intreccio.

Usando per definirlo un bel termine ossimorico: presequel.

La storia nei prodotti seriali rispetta principi diversi pur mantenendosi costantemente ancorata alle leggi universali del raccontare. Anzi, forse proprio in virtù di questo ancoraggio ai bisogni fondamentali dell’uomo relativi alla comunicazione, i prodotti seriali soddisfano esigenze più semplici ma più profonde: il racconto senza fine, cioè senza scopo se non quello di comunicare fine a se stesso e produrre emozioni empaticamente.

Tutto ciò avviene attraverso quello che si chiama 'effetto di familiarizzazione'.

I personaggi devono diventare la famiglia surrogata dello spettatore che, una volta conosciuti questi e le loro caratterizzazioni, ed appena decide di continuare ad interessarsi della storia conosciuta, si dà come impegno l’appuntamento con la puntata; è qui che scatta il meccanismo fondamentale: non ci si aspetta più il meccanismo ordinario di una storia più o meno lunga che si completa con un finale, ma ci si accompagna alle storie dei personaggi che diventano nostri conoscenti; e dai conoscenti ci si aspetta un comportamento ordinario, atteso, ma anche uno scarto dall’ordine immaginato.

Insomma, quello dello spettatore dei prodotti seriali sarebbe un lavoro dinamico per raggiungere l’equilibrio tra l’atteso e l’inatteso, come quando si scopre qualcosa (una terra, una legge scientifica, ecc…) il lavoro del ricercatore è legato ai presupposti che conosce, da questi è guidato, e la maggior parte dei risultati sono attesi, ma le sorprese scaturite della sua indagine sono l’obiettivo, cioè la sintesi equilibrata tra la nuova scoperta e il già conosciuto.
Il concetto di sospensione dell’incredulità è valido per ogni tipo di fruizione narrativa: chi legge, ascolta o assiste ad una storia raccontata in qualche modo sospende la sua funzione critica (magari riservandola per la fine del racconto), si immedesima, e questo immedesimarsi deve essere in relazione al bisogno del raccontare come universale della cultura.

La sospensione dell’incredulità è artificio forte che operiamo su noi stessi  quando inizia un racconto, in realtà sospendiamo il regolare fluire della nostra esistenza, interrompiamo il nostro continuum temporale; come in un sogno, in qualche modo, entriamo in un’altra realtà propostaci dal racconto.

Nella fruizione dei prodotti seriali la sospensione dell’incredulità cambia, si attenua, pur restando un atteggiamento necessario, l’abitudine voyeristica alle vite dei personaggi rende gli stessi più reali (bisognerebbe verificare se agli attori impegnati quotidianamente in quelle parti succede qualcosa alla personalità), da personaggi diventano persone incluse nella nostra sfera esistenziale che ci raccontano la giornata in mezz’ora mediante il meccanismo della comprensione ellittica.
Ma al soddisfacimento di quale bisogno profondo risponde questo assistere ad altre vite?

Perché, passivamente quando guardiamo i prodotti seriali, o attivamente quando giochiamo con i giochi di simulazione come The Sims, ci ricreiamo in queste altre vite?
La ragione ultima potrebbe essere la moltiplicazione dell’esistenza come soluzione alla terribilità del divenire, alla insensatezza della fine. 
E quando, con le tecnologie più potenti, riusciremo a gestire un gioco che sintetizzi SimCity con The Sims magari con la grafica utilizzata nei film come Il signore degli anelli, potremmo rispondere, come nel racconto La risposta[1] di F. Brown,
alla domanda fondamentale posta a tutti computer dell’universo dopo averli connessi:: "C'è Dio?", "Sì: adesso c'è". Nel racconto di Brown il nuovo Ente supremo prende possesso del cosmo, soppiantando l’uomo. Se noi potessimo fornire una risposta analoga, beh, che… Dio c’è la mandi buona.


[1] Answer in a cura di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, Le meraviglie del possibile - Il secondo libro della fantascienza, Einaudi 1961