di Adolfo Fattori
Qualche mese fa si scoprì – e la notizia
grazie alla Rete si diffuse con la velocità e la
viralità di una “catena di
sant’Antonio” – che la giovane canadese
Ashley Anne Kirilow, sfruttando le opportunità fornite dalla
voglia di solidarietà e da quelle, appunto, del web,
è riuscita ad arricchirsi spacciandosi per malata terminale
di cancro, organizzando una colletta a suo beneficio prima fra amici e
parenti, e poi, naturalmente, su Facebook.
La giovane Ashley
è stata brava: si è rapata i capelli e le
sopracciglia, è dimagrita – insomma si
è mascherata da chemioterapizzata…
Evidentemente,
la ragazza doveva conoscere una delle più famose leggende
metropolitane classiche, quella del bambino scozzese abitante in un
piccolo villaggio, anche lui malato terminale, che voleva soltanto
cartoline, cartoline da tutto il mondo, che gli facessero compagnia
nella sua sofferenza e lo accompagnassero nella sua agonia. Solo che il
bimbo non esisteva, e l’unico risultato concreto che la
formidabile gara di solidarietà che si scatenò
ottenne – questo sì, documentato – fu di
intasare catastroficamente l’ufficio postale del villaggio.
Perché
il caso della Kirilow non è altro che
l’adeguamento di una classica forma di narrazione
all’ambiente digitale: la Rete rimedia tutto, anche le
leggende urbane, perché no? Bisogna solo essere
“moderni”: se le urban legends appartengono
come origine ai tempi della posta e del passa-parola concreto
– e di quel territorio liminale fra magico e profano che non
è mai veramente scomparso – la loro evoluzione le
porta automaticamente sul web. Sono quasi fatte per questo,
addirittura: basta aggiungere qualche foto (e non
c’è neanche bisogno di sottoporsi a pratiche
particolari, come Ashley Anne, bastava photoshop…), e
costruire una storia sufficientemente lacrimevole – e non
necessariamente credibile, altro tratto delle leggende metropolitane:
c’è sempre qualcosa che non torna, in genere in
queste, ma ci si passa sopra; anzi, forse, è proprio il
particolare incoerente, il “buco” nella
sceneggiatura, che ci spinge ad assumerle come vere, soddisfacendo quel
bisogno di “sacro”, di perturbante che ancora
sopravvive.
È una delle modalità del primato del
“sentito dire” sull’esperienza concreta.
Cui si aggiunge, naturalmente, il desiderio di renderci utili, di
“fare qualcosa di concreto per gli altri”. In un
mondo che ci appare orchesco, estraneo, nemico: diventato un
“villaggio globale”, ci rende sempre più
consapevoli della sua incontrollabilità, se non attraverso
le informazioni che ci arrivano dai media. Il che produce,
naturalmente, l’altra faccia della sua medaglia, quella delle
informazioni su congiure, complotti, truffe (cosa che non è
capitata con la Kirilow, guarda un po’…), disastri
– in genere silenziosi, sotterranei, opachi,
“virali”.
Come la diffusione e
la circolazione delle informazioni nella stessa Internet –
nella maggior parte anche queste false, o truffaldine, come molti degli
appelli alla solidarietà, alla “presa di
coscienza”, al “Join the cause!”. Come la
storia della “mucca pazza”, poi quella
dell’influenza “aviaria”, infine quella
dell’influenza “suina”. Povere bestie!
Condannate a morte a migliaia… Vediamo, chi manca
all’appello? Ah, sì, gli equini (ma quelli hanno
già pagato il loro riscatto, servendo in guerra
“l’arma più nobile”: la
cavalleria). E naturalmente gli ovini, i silenziosi agnelli, vittime
predestinate, a dire la verità, geneticamente
“dedicate”, dato il loro rapporto preferenziale con
l’universo del sacro… e beate le multinazionali
del farmaco, invece, e i loro manutengoli nelle varie amministrazioni
statali e nelle istituzioni della salute! Naturalmente, in
quest’orgia di terrori invisibili quanto eterei, improbabili
quanto evidentemente seducenti, al fianco di quelli pandemici hanno
legittima cittadinanza quelli “locali”, come la
storia del latte andato a male, poi ribollito e rivenduto, grazie alla
stessa legislazione corrente, che si scopre poi del tutto falsa, dopo
essersi diffusa sul web con le classiche modalità della
“catena di sant’Antonio”. Una
vera “bufala”, visto che il latte che consumiamo
è di mucca…
Ma cosa
c’è, in queste notizie, per quanto iperboliche, ad
attrarci tanto? Qualcosa di morboso, di perverso? Una sorta di
voyeurismo del male, della sofferenza altrui, di desiderio di ansia, di
angoscia? O un movimento molto più
“umano”, plausibile, necessario alla ricerca di un
equilibrio fra una dimensione di realtà e l’altra?
Connesso alla necessità, appunto, di esserci?
Di sentire di avere un ruolo, in una postmodernità orbata
delle “grandi narrazioni”?
Una
disponibilità a credere – per fede, evidentemente
– al “sentito dire”, al partecipare a
distanza? Desiderio di reincanto? Virtualizzazione delle emozioni? Che
così mordono meno?
Forse
un’altra implicazione del “delitto
perfetto” di cui scrive Baudrillard. Forse davvero nella
nostra percezione la membrana che separa/collega la
“realtà 1” e la realtà
virtuale si sfilaccia e sbiadisce sempre di più: usiamo la
Rete per partecipare/solidarizzare/protestare/documentare, in un mondo
reincantato dove il virtuale fa le veci del sacro, in cui un bambino
scozzese diventa una ragazza canadese, e tutto assume i tratti di
leggenda posturbana, una “storia improbabile raccontata come
vera”. A cui crediamo. La Rete fa fede.