“La libertà è
partecipazione”, cantava, quasi declamava Giorgio Gaber. Era
il 1972 poco dopo la messa a punto di quel web 0.0 chiamato ARPAnet.
Quello che ne sarebbe seguito, il ritrovarsi, l’affollarsi
tutti in rete per scambiarsi informazioni rilevanti e inenarrabili
sciocchezze, neanche la fantascienza più raffinata
letteralmente se lo sognava e tantomeno l’immaginava. Invece,
eccoci nel web 2.0, che per quanto immateriale, virtuale, non fisico,
produce e interagisce dialetticamente con una propria ideologia che
alimenta e di cui a sua volta si nutre. La partecipazione, appunto, di
cui Gaber fu involontario profeta. Quella forma di collettivismo che
per alcuni, come Kevin Kelly, uno dei fondatori della rivista Wired,
rappresenta una specie di socialismo, o dot.communism, come lo aveva
definito, circa un decennio fa, l’anarco-hippy
nonché collaboratore dei Grateful Dead, John Barlow. I
numeri di questo insieme di comunità fondate sulla
partecipazione, il dono, lo scambio ugualitario, sono impressionanti.
Sono 350.000 i visitatori mensili di YouTube, ben 35 milioni di persone
hanno postato e taggato oltre tre miliardi di foto su Flickr, mentre
Yahoo! ospita otto milioni di gruppi e dieci milioni sono gli utenti di
Wikipedia, di cui 160mila ritenuti attivi. Infine, Facebook: 400
milioni di “attivisti”. C’è da
esultare, il secolare dilemma, socialismo o barbarie, sembra essere a
un passo dalla sua risoluzione e, via via che scivoliamo nella rete,
rapiti, magari, solo per futili motivi, ci troviamo ad aver dato il
nostro piccolo contributo alla svolta che renderà
l’uomo finalmente libero, perché
partecipante…
Tutti d’accordo? No, un
pensiero critico, un po’ meno debole di quelli che chiedono
il Nobel per la pace per internet, esiste e si interroga sulle logiche
eterogenee che attraversano la rete e la fanno vibrare. Lo fa, ad
esempio, Jaron Lanier, informatico, compositore, artista visivo e
scrittore, inventore dell’espressione virtual reality,
insomma: un guru di internet e dei new media, un amico di Kelly e di
Barrow. Nel suo ultimo libro You Are Not a Gadget,
avverte: l’enfatizzazione della folla a scapito degli
individui è il grande male di internet, poiché
paradossalmente ne azzera la potenzialità rivoluzionaria.
Lanier se la prende con la logica sottesa al web 2.0 che rende
equiparabili speculazioni filosofiche e dispute da bar, contesta la
pervasività negativa della noosfera, il totalitarismo della
super entità che prende forma dalla piazza virtuale globale.
Lanier, non ha visto tutto il peggio o, se l’ha visto, per
pudore tace. Il resto e forse il meglio del peggio è qui di
seguito e va raccontato.
C’è un castello
a San Francisco, costruito circa un secolo fa, tra il 1912 e il
1914, per fungere da armeria e arsenale della Guardia
Nazionale. Comunemente lo si indica come The Armory e fu la base per la
sanguinosa repressione dello sciopero generale nel 1934 (il famoso Bloody
Thursday). Il castello dall’aria moresca venne
chiuso nel 1976, quando la Guardia Nazionale si trasferì a
Fort Funston. Ci si chiese che farsene, come ristrutturarlo, venne
usato per girare alcune scene in interno di Star Wars,
si parlò di trasformarlo in una clinica, in appartamenti di
lusso, in palestra e così via. Fino al 2006,
trent’anni che avevano portato a un progressivo degrado della
struttura. È in quell’anno che una
società di produzione leader nell’intrattenimento
cosiddetto BDSM (bondage sadomaso) in rete, acquista l’Armory
e lo trasforma in set per realizzare i video da trasmettere su uno dei
propri siti, poiché, come il marketing insegna, il business
si incrementa segmentando l’offerta. Qui si occupa di
dominazione e sottomissione e il sito in questione offre tutte le
possibili variazioni sul tema, che, in buona sostanza,
scaturiscono dal tema di O, la fanciulla
protagonista dell’omonimo romanzo di Pauline Réage
(pseudonimo di Dominique Aury). Sul set dell’Armory, infatti,
schiave e schiavi si sottopongono a duri corsi di disciplina per essere
poi usati durante i party organizzati da master e mistress, in
un’atmosfera semi-chic, in interni arredati in stile
edoardiano. Fin qui niente di particolare, l’ennesimo sito
porno, non il primo e neanche l’ultimo che scimmiotta e
reimpiega materiali narrativi. La scena a cui si assiste obbedisce, a
sua volta, a quella regola dell’esaustività che
Roland Barthes individuava nella grammatica sadiana laddove
“in un’operazione, bisogna che sia compiuto
simultaneamente il maggior numero di pose; questo implica da un lato
che tutti gli attori presenti siano impiegati contemporaneamente e se
possibile nello stesso gruppo (o in ogni caso in gruppi che si
ripetono); dall’altro che in ogni soggetto tutti i luoghi del
corpo siano eroticamente saturati…”. Qual
è allora la connessione con la dimensione sociale della
rete? Assistendo a un qualsiasi episodio della serie si notano alcuni
dei protagonisti che prendendosi una pausa tra una performance e
l’altra, oltre che ridere, scherzare, mangiare, bere e
rivolgersi di tanto in tanto agli spettatori, sono impegnati con dei
computer portatili. Poi una voce fuori campo dà alcune
istruzioni. Che cosa succede? Accade che in tempo reale (si trasmette
in streaming), gli utenti entrano nella storia e
suggeriscono/richiedono altre varianti, nuove
punizioni/posizioni/umiliazioni. Voilà: il web 2.0 delle
utopie e quello mercantile del porno trovano marxianamente una sintesi
dialettica. Socialismo o barbarie?