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© quadernidaltritempi.eu no. 26 - 2010

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di Gennaro Fucile
RETI E FRUSTINI 2.0

“La libertà è partecipazione”, cantava, quasi declamava Giorgio Gaber. Era il 1972 poco dopo la messa a punto di quel web 0.0 chiamato ARPAnet. Quello che ne sarebbe seguito, il ritrovarsi, l’affollarsi tutti in rete per scambiarsi informazioni rilevanti e inenarrabili sciocchezze, neanche la fantascienza più raffinata letteralmente se lo sognava e tantomeno l’immaginava. Invece, eccoci nel web 2.0, che per quanto immateriale, virtuale, non fisico, produce e interagisce dialetticamente con una propria ideologia che alimenta e di cui a sua volta si nutre. La partecipazione, appunto, di cui Gaber fu involontario profeta. Quella forma di collettivismo che per alcuni, come Kevin Kelly, uno dei fondatori della rivista Wired, rappresenta una specie di socialismo, o dot.communism, come lo aveva definito, circa un decennio fa, l’anarco-hippy nonché collaboratore dei Grateful Dead, John Barlow. I numeri di questo insieme di comunità fondate sulla partecipazione, il dono, lo scambio ugualitario, sono impressionanti. Sono 350.000 i visitatori mensili di YouTube, ben 35 milioni di persone hanno postato e taggato oltre tre miliardi di foto su Flickr, mentre Yahoo! ospita otto milioni di gruppi e dieci milioni sono gli utenti di Wikipedia, di cui 160mila ritenuti attivi. Infine, Facebook: 400 milioni di “attivisti”. C’è da esultare, il secolare dilemma, socialismo o barbarie, sembra essere a un passo dalla sua risoluzione e, via via che scivoliamo nella rete, rapiti, magari, solo per futili motivi, ci troviamo ad aver dato il nostro piccolo contributo alla svolta che renderà l’uomo finalmente libero, perché partecipante…
Tutti d’accordo? No, un pensiero critico, un po’ meno debole di quelli che chiedono il Nobel per la pace per internet, esiste e si interroga sulle logiche eterogenee che attraversano la rete e la fanno vibrare. Lo fa, ad esempio, Jaron Lanier, informatico, compositore, artista visivo e scrittore, inventore dell’espressione virtual reality, insomma: un guru di internet e dei new media, un amico di Kelly e di Barrow. Nel suo ultimo libro You Are Not a Gadget, avverte: l’enfatizzazione della folla a scapito degli individui è il grande male di internet, poiché paradossalmente ne azzera la potenzialità rivoluzionaria. Lanier se la prende con la logica sottesa al web 2.0 che rende equiparabili speculazioni filosofiche e dispute da bar, contesta la pervasività negativa della noosfera, il totalitarismo della super entità che prende forma dalla piazza virtuale globale. Lanier, non ha visto tutto il peggio o, se l’ha visto, per pudore tace. Il resto e forse il meglio del peggio è qui di seguito e va raccontato.
C’è un castello a San Francisco, costruito circa un secolo fa, tra il 1912 e il 1914,  per fungere da armeria e arsenale della Guardia Nazionale. Comunemente lo si indica come The Armory e fu la base per la sanguinosa repressione dello sciopero generale nel 1934 (il famoso Bloody Thursday). Il castello dall’aria moresca venne chiuso nel 1976, quando la Guardia Nazionale si trasferì a Fort Funston. Ci si chiese che farsene, come ristrutturarlo, venne usato per girare alcune scene in interno di Star Wars, si parlò di trasformarlo in una clinica, in appartamenti di lusso, in palestra e così via. Fino al 2006, trent’anni che avevano portato a un progressivo degrado della struttura. È in quell’anno che una società di produzione leader nell’intrattenimento cosiddetto BDSM (bondage sadomaso) in rete, acquista l’Armory e lo trasforma in set per realizzare i video da trasmettere su uno dei propri siti, poiché, come il marketing insegna, il business si incrementa segmentando l’offerta. Qui si occupa di dominazione e sottomissione e il sito in questione offre tutte le possibili variazioni sul tema, che, in buona  sostanza, scaturiscono dal tema di O, la fanciulla protagonista dell’omonimo romanzo di Pauline Réage (pseudonimo di Dominique Aury). Sul set dell’Armory, infatti, schiave e schiavi si sottopongono a duri corsi di disciplina per essere poi usati durante i party organizzati da master e mistress, in un’atmosfera semi-chic, in interni arredati in stile edoardiano. Fin qui niente di particolare, l’ennesimo sito porno, non il primo e neanche l’ultimo che scimmiotta e reimpiega materiali narrativi. La scena a cui si assiste obbedisce, a sua volta, a quella regola dell’esaustività che Roland Barthes individuava nella grammatica sadiana laddove “in un’operazione, bisogna che sia compiuto simultaneamente il maggior numero di pose; questo implica da un lato che tutti gli attori presenti siano impiegati contemporaneamente e se possibile nello stesso gruppo (o in ogni caso in gruppi che si ripetono); dall’altro che in ogni soggetto tutti i luoghi del corpo siano eroticamente saturati…”. Qual è allora la connessione con la dimensione sociale della rete? Assistendo a un qualsiasi episodio della serie si notano alcuni dei protagonisti che prendendosi una pausa tra una performance e l’altra, oltre che ridere, scherzare, mangiare, bere e rivolgersi di tanto in tanto agli spettatori, sono impegnati con dei computer portatili. Poi una voce fuori campo dà alcune istruzioni. Che cosa succede? Accade che in tempo reale (si trasmette in streaming), gli utenti entrano nella storia e suggeriscono/richiedono altre varianti, nuove punizioni/posizioni/umiliazioni. Voilà: il web 2.0 delle utopie e quello mercantile del porno trovano marxianamente una sintesi dialettica. Socialismo o barbarie?