Apocalisse. Rivelazioni sulla socialità postmoderna è un breve, ma intenso saggio di Michel Maffesoli recentemente uscito per Ipermedium Libri. Apocalisse però è anche l’immagine che appare quando si pensa alla situazione contemporanea del pianeta, particolarmente colpito recentemente, sebbene con un’intensità che varia da paese a paese, da “prove” particolarmente pesanti: catastrofi, crisi, disastri di vario genere. Certo la nostra immagine di apocalisse si forma – complice una vulgata comune del termine – in modo immediato, emotivo, come reazione agli eventi che segnano la nostra vita quotidiana, il nostro vissuto comune; quella proposta nel saggio di Maffesoli, invece, è una raffinata ricognizione ed essenzializzazione etimologica di un pensiero che si è dispiegato e approfondito da oltre trent’anni. Difficile poter stabilire in questo senso un’omologia. Tuttavia, entrambe toccano e trattano non solo un campo comune, ma anche una prospettiva simile; le differenze, semmai, sono occasione di apertura di una riflessione quanto mai attuale.
Se l’Apocalisse di Giovanni è un testo profetico che consiste in una rivelazione della divinità, con tutte le difficoltà interpretative che ciò comporta, è innegabile che di essa prevalga una visione escatologica, annunciatrice della fine del mondo e degli eventi che tale fine preparano, alla cui radicalizzazione ha contribuito non poco l’immaginario cinematografico che l’ha resa equivalente alla catastrofe, alla distruzione (Bernardi, 1999). Infatti, nella assimilazione al senso comune apocalisse è la realizzazione della catastrofe, della distruzione, l’avvento della fine, della perdita del senso; il realizzarsi delle peggiori profezie, in altri termini, il tramonto delle Utopie. Non si tratta più di temere o di vedere il peggio come imminente: il peggio è già arrivato, o almeno, i segni di questo avvento sono inequivocabili.
L’analisi di Maffesoli, al contrario, ci invita a mettere in secondo piano questa concezione “drammatica” del termine e a concentrarci su un significato più profondo e originario: quello di risveglio, di rivelazione delle cose, vale a dire di capacità di fare emergere il profondo, l’essenziale, spazzando via le rigide costruzioni che con il tempo hanno occultato l’originario, l’essere nella sua essenza. Ciò talvolta può sembrare, o addirittura coincidere con, la distruzione, la catastrofe (ed è qui il punto di contatto tra l’analisi di Maffesoli e il senso comune), ma si tratta di un processo inarrestabile che libera la vita ormai troppo compressa. Così, ciò che appare distruttivo, irrazionale, inutile, prossimo alla deriva è lo strumento quasi obbligato attraverso cui passa la rinascita, il ritorno alle energie vitali, produttrici di cultura e di umanità (intesa come essenza degli esseri umani).
Maffesoli fornisce, tramite un architettura leggera ma particolarmente resistente, una lucida analisi del nostro tempo e dei suoi nodi cruciali. Nelle prime pagine del saggio, infatti, viene indicato che in un periodo di cambiamento come quello in cui ci troviamo immersi “è necessario cercare e trovare le parole giuste o quantomeno quelle meno false” (Maffesoli 2010, p.19) per evitare quello che Durkheim definiva il “conformismo logico”: una pigrizia intellettuale, quasi fisiologica, che spesso si rinchiude nel semplice dogmatismo; una pigrizia che si rivela non solo incapace di cogliere il pensiero nel suo flusso vitale, ma anche conservatrice di categorie e concetti ormai inefficaci a comprendere il mondo, la vita in cui siamo immersi.
Proprio tramite l’uso delle parole meno false, o dei concetti mondati dalle falsità più stratificate, Maffesoli ci invita a superare il dogmatismo e l’insensibilità di un’epoca dove l’opinione pubblica – che certo vuole essere sapere e scienza, ma che si riconosce anche come coscienza della sua fragilità, versatilità e umanità – si confonde con un’opinione pubblicata: una collezione di luoghi comuni che altro non fanno se non legittimare i buoni sentimenti; una pratica funzionale alla mediocrazia, fondata sulla mediocrità generalizzata, capace di anestetizzare qualsiasi reazione, di ridurre al silenzio qualsiasi voce, in altri termini di non alterare l’ordine e l’inerzia consolidati.
In questa prospettiva molte sono le parole chiave che possono essere stimolo e motore di una forza collettiva capace di interpretarle in chiave postmoderna o che, al contrario, possono semplicemente rimanere luoghi comuni, banalità ricorrenti, slogan utili a riempire discorsi privi di senso, ma anche di azioni di scarsa efficacia. Tra le altre, ci sembra che ecologia ben rappresenti l’incrocio di queste possibilità, detto altrimenti, lo spirito di un’epoca.
Se postmoderna è l’epoca in cui viviamo, se globalizzata è la modalità delle sue transazioni, ecologica è la visione che problematicamente – volente o nolente – la contraddistingue. Infatti, il termine segnala una crisi – a partire dal suo stesso riconoscimento –, gli strumenti del suo superamento e l’incertezza dei suoi risultati. Al tempo stesso, però, il termine indica una rivendicazione diffusa, un’appartenenza forte, un legame vitale, che esprime una fusione tra l’uomo e la terra o meglio, per usare un’espressione di Augustin Berque, la geograficità dell’essere – l’uomo che si iscrive (graphein) sulla terra (gê) e ne è reciprocamente iscritto. Su tale sensibilità si fonda quel romanticismo ecologico che oggi, secondo Michel Maffesoli, si ripropone come evoluzione dello spirito romantico del XIX secolo (Maffesoli 2010, p. 23).
In questa prospettiva allora l’ecologia può essere intesa come prolungamento dell’idea moderna di progresso i cui principi sono ancora presenti nei programmi di sviluppo sostenibile – così come in quelli formalmente opposti di decrescita felice: una strategia di continuo miglioramento o depotenziamento, di spostamento in avanti del limite. A questo riguardo, di recente Maffesoli ha sostenuto che “entrambe le espressioni, sviluppo sostenibile e decrescita felice, rinviino alla medesima concezione moderna del progresso. La prima ne è la versione attiva, la seconda invece negativa. Il ‘legame postmoderno con la terra’ indica, a mio avviso, la capacità di creare equilibri intelligenti e armonici tra specifici ambienti naturali e specifici ambienti sociali. Si tratta nel complesso di un'intelligenza tattile, di una sorta di ‘genius loci’ …” (da una conversazione con lo stesso Maffesoli dell'aprile 2010, a margine di un'intervista rilasciata ad Antonio Rafele, uno dei traduttori italiani di Apocalisse). In altri termini entrambe le visioni propongono un’idea ordinata di ecologia, spesso svuotata del suo senso originario. Ma in una prospettiva postmoderna l’ecologia può manifestarsi come tattica di resistenza (de Certeau, 2001), incerta e mai definitiva, eppure capace di appropriarsi di una porzione di terra, di affermare un’appartenenza, come le azioni dei movimenti NO TAV, o dei gruppi che si riconoscono come attivismo urbano mostrano con chiarezza. Questa sensibilità ecologica, liquidata spesso dai detrattori come forma degenerata di comunitarismo, mette invece in evidenza la forza che assumono quei legami sociali spontanei, autoorganizzati, favoriti e intensificati anche dalla tecnologia, che raggruppano per un determinato periodo gli individui, le cosiddette tribù, attorno ad un interesse, un problema, una passione.
Si tratta di processi paradossali: un sistema portato alla sua massima perfezione si esaurisce, entra in crisi, e si inabissa per potersi rigenerare, dal momento che “Quando una civiltà ha raggiunto il suo massimo splendore sente, nello stesso tempo, il bisogno di recuperare le sue radici, di ritornare cultura. […] La civiltà è il modo di sprecare, o meglio di dilapidare il tesoro culturale. La cultura è il fondo che garantisce la vita sociale permettendo che, al di là di ogni vicissitudine quotidiana, perduri l’essere insieme originario ed essenziale.” (Maffesoli 2010, 21).
Certo il discorso di Maffesoli è ampiamente comprensivo e non specificamente ecologico, ma è ugualmente efficace per comprendere le nostre attitudini e le nostre contraddizioni nei confronti dell’ecologia. L’apocalisse, in questa prospettiva, non si presenta solo come realizzazione della catastrofe, ma anche come rivelazione di un bisogno, di un ritorno a un legame originario. E se avessimo dubbi al riguardo, se l’esempio ci apparisse bizzarro o non pertinente, sia sufficiente pensare alle più che recenti vicende del vulcano Eyjafjallajökull, che suonano quasi come un apologo:
Il 13 aprile del 2010, in Islanda, il vulcano Eyjafjallajökull si mise in attività. Dal suo energico ribollire ebbe inizio un’eruzione che fece sciogliere i ghiacciai circostanti, provocando violente inondazioni e dal suo interno si alzò una nuvola di cenere che si diffuse nell’intera Europa, paralizzando gli aeroporti e mandando in tilt, di conseguenza, l’ordinato e frenetico svolgimento delle attività di mezzo pianeta. Tutte le previsioni, tutti i calcoli si dimostrarono inutili; gli interventi delle unità di protezione civile dei vari paesi assolutamente insufficienti; le informazioni, le indicazioni, i consigli divulgati dai mezzi d’informazioni quasi inutili. Una enorme, impalpabile, inafferrabile, invisibile eppure straordinariamente reale entità si faceva beffe della ragione, del controllo, dell’organizzazione degli stati, delle intelligenze strategiche, degli interessi della collettività, dei bisogni e dei desideri degli individui. Dal suo più segreto e originario nocciolo incandescente il vulcano sorrideva enigmatico: malizioso, irritato o materno. Tramite il suo sommesso assordante boato richiamava tutti a quel legame originario, spesso negato anche in nome dell’ecologia, dell’uomo con la terra, a quel fondo che si trova giù, nell’ipogeo e che invia segnali – non sempre completamente decifrabili – di rinascita.
:: letture ::
— Berque A., Écoumène. Introduction à l’étude des milieux humains, Paris, Belin, 2000.
— Berque A., Formes dans l’éspace et le temps, in Poirier J., Wunenburger J.-J (a cura di), Lire l’espace, Brussels, Ousia, 1996.
— Bernardi S., Apocalissi metaforiche e catastrofi immaginarie, in AA.VV., L'Apocalisse nella storia, Humanitas 54 (5/1999).
— de Certeau M.(1980), L'Invention du Quotidien, 1980, trad. it. L’invenzione del quotidiano, Roma, Edizioni Lavoro, 2001.