ella rilettura che Francis Ford Coppola fa del Dracula
di Bram Stoker (1999) una sequenza può passare
quasi inosservata. Pure, è cruciale. È quella in
cui osserviamo il Conte che, ormai sbarcato a Londra alla ricerca della
sua amata perduta secoli prima, è in un locale pubblico.
Sullo sfondo, a tratti, intravvediamo uno dei primi schermi
cinematografici. Aggiunta legittima del regista statunitense alla
narrazione di Stoker: il cinema era già nato, due anni prima
che fosse pubblicato il romanzo. E omaggio di Coppola allo scrittore
inglese, che costruisce un romanzo basato tutto su comunicazioni
scritte: lettere, diari, telegrammi, documenti. Alle soglie della
società della comunicazione, della rivoluzione dello spazio
e del tempo, della società metropolitana. In cui il vampiro,
a difendere con le unghie e con i denti il
mondo del soprannaturale e del sacro, ormai moribondo, dà
come colpo di coda la sua interpretazione
del dominio sul tempo e lo spazio. Uno spazio che attraversa
lieve, un tempo che per lui è sospeso. Inaugurando
così una declinazione della narrativa che non
vedrà saturazione, e che anzi periodicamente
conoscerà nuove fortune.
Veramente la vicenda di
Dracula aveva avuto due precedenti: Carmilla
dell’irlandese Sheridan Le Fanu, nel 1872, ben venticinque
anni prima (2004), storia di una naturalmente affascinante vampira, e Il
vampiro dell’inglese John William Polidori (1995),
ispirato vagamente alle credenze popolari sui vampiri, diffuse in tutto
il mondo con varie articolazioni (Barber 1994), scritto nella stessa
occasione in cui Mary Shelley scriveva il suo Frankenstein (2009),
e pubblicato nel 1819. Capolavori del gotico, quelli di Polidori e Le
Fanu, il cui protagonista però troverà
l’immortalità letteraria ed assurgerà
alla dimensione del mito solo con Bram Stoker, e con la sua intuizione
di agganciarlo ad una figura storica, Vlad Ţepeş III di Valacchia,
l’impalatore, feroce nemico dei turchi che cercavano di
risalire i Balcani per arrivare in Europa, durante il XV secolo.
Dracula,
insomma, conquista la modernità. E raggiunge
l’immortalità tanto sognata. Non nel buio delle
cripte, ma in quello confortevole e avvolgente delle sale
cinematografiche. Almeno una trentina di pellicole sono dedicate al
conte. Fra cui alcune pietre miliari. Dal Nosferatu di
Murnau (1922) a venire avanti, passando per i film della Universal
– a incominciare da quello di Tod Browning del 1931, e quelli della
Hammer, passando per il remake del film di Murnau realizzato da Werner
Herzog nel 1979, Nosferatu il principe della notte.
Fino ad arrivare a Coppola. E oggi, alla serie TV True Blood,
partita nel 2008, ispirata al romanzo Finché non
cala il buio (Fazi, 2009) di Charlaine Harris, in cui si
narra di un vicino futuro in cui a Bon Temps (!) in Louisiana, uomini e
vampiri convivono.
Un personaggio che ha sempre
oscillato fra romanticismo e orrore, il che forse è alla
base della sua longevità: trasferendosi
nell’Europa occidentale, diventa una creatura della notte
della metropoli, archetipo dei serial killer e di tutte le
mostruosità innominabili che popolano
l’immaginario dell’incubo. Ma conservando quella
patina di nobiltà languida e crepuscolare che sin dalle
origini è nella sua natura profonda. Una figura
dell’amore e della morte insieme: un amore doloroso e
proibito, una morte dolce e seducente.
Stephen King,
maestro contemporaneo del terrore e dell’avventura, nella sua
raccolta di saggi Danse macabre enumera quattro
archetipi dell’orrore narrativo: il lupo mannaro, la
“cosa senza nome” (la
“creatura” di Frankenstein), il fantasma, e, prima
di tutti, il vampiro (1992, p. 252). Tutte figure della morte e del
terrore.
Ma solo due hanno segnato il secolo del cinema, il
Novecento: la creatura e il vampiro. Forse perché
nell’unione di vita e morte si specchiano l’uno
nell’altro: la creatura dalla morte viene creata alla vita,
il vampiro per vivere deve seminare morte. E sicuramente
perché sembrano creati per il cinema: emblemi del visionario
e del fantastico come sono, nutrono l’immaginario con i loro
corpi e traggono nutrimento continuo per mantenere vivo il proprio mito
proprio grazie al cinema.
Icone della modernità e
del tardo moderno, epoche in cui continuamente si distrugge per
rigenerare: la radice dell’economia capitalistica (Harvey,
2002, pp. 29 e segg.), che si riflette nella metropoli,
nell’estetica, nella vita quotidiana.
E, come tutti
i miti, anche Dracula tende a tradire se stesso (Lecercle, 2002, pp.
117 e segg.), a rovesciarsi nel suo opposto, a mutare forma e scopi.
Per
gradi.
Nel 1939 esordisce sulle pagine di Detective
Comics, rivista a fumetti americana, Batman, letteralmente,
l’uomo pipistrello, una delle
più potenti icone tutt’oggi, a
settant’anni dalla sua nascita, dell’immaginario
contemporaneo. Affine al vampiro, non si nutre però di
sangue. Come diverso è il mito di fondazione del
personaggio: non la perdita dell’amata, ma la perdita dei
genitori, per mano di delinquenti ben più miserabili dei
nemici di Dracula. E anche la sua mission è diversa:
è un supereroe difensore della legge e della giustizia.
Naturalmente imbattibile, terrore dei malvagi.
Comunque,
una creatura della notte, come il conte. Ibridato con i gargoyles di
pietra che sorvegliano dall’alto le strade delle metropoli
americane della East Coast, di cui Gotham City, la città di
Batman, è una sintesi, il cui nome recupera la dimensione
gotica dell’immaginario, a rendere omaggio,
inconsapevolmente, forse, all’inizio, alle radici profonde
del personaggio.
(Gotham City) non avrebbe strumenti di difesa se non ricorresse […] alla sua più notturna e tetra personificazione, appunto al pipistrello, topo di fogna e uccello predatore, creatura della terra e del cielo, un mostro, un erede delle enigmatiche figurazioni medievali,degli impietriti ibridi che dalle guglie gotiche minacciano e al contempo proteggono… (Abruzzese, 2006, p. 15).
Il Batman non rinnega le radici mitiche degli
“osceni uccelli della notte”, e quindi le loro
armi: il terrore, il mistero; ma le mette al servizio del Bene, della
Legge, al fine della Giustizia, che per realizzarsi non sempre
può permettersi di andare troppo per il sottile.
Ma
per realizzarsi pienamente nella sua natura profonda il Batman deve
seguire il destino e le tecnologie del mito, e –
appunto – tradire se stesso, o forse mutare, o liberarsi:
bisognerà aspettare la tarda modernità, e le
interpretazioni che ne daranno Frank Miller, Tim Burton, Christopher
Nolan, per vedere il Cavaliere Oscuro (questo l’attributo che
Miller gli conferirà) dispiegarsi in tutto
l’oscuro splendore di creatura ibrida, rassicurante e
inquietante allo stesso tempo.
È necessario quindi
che il Batman si aggiorni, e che se ne impadroniscano in pieno il
fumetto degli anni Ottanta e il cinema.
Con Miller Gotham City
si muta in una città violenta e tragica, un vero inferno,
corte dei miracoli postmoderna – una visione delle metropoli
contemporanee, feroci, disumane, ostili. E con lei cambia Batman:
introverso, addolorato, disincantato. Inchiodato al suo ruolo. Miller
riscrive la storia delle origini dell’Uomo Pipistrello
filologicamente, nel rispetto della tradizione. Aggiunge un solo
particolare: la sera che i genitori di Bruce Wayne vengono uccisi,
tornavano dalla proiezione di Il segno di Zorro
(2003). La volpe ispirerà Bruce a trasformarsi in
pipistrello…
E poi arriveranno le pellicole di
Burton e Logan a completare in senso sempre più tragico e
definitivo la trasformazione di Batman in una creatura della notte,
imprigionata in un labirinto in cui è impossibile
controllare del tutto gli effetti delle proprie azioni, come in Il
cavaliere oscuro (2008): Batman non riuscirà a
salvare Rachel, la donna del nuovo paladino del Bene a Gotham, Harvey
Dent, e lo stesso Dent, sfigurato, passerà dalla parte del
Male, trasformandosi nel criminale “Due Facce”. Nel
film di Nolan si afferma un assioma definitivo: niente è
prevedibile, la realtà è ambigua, doppia,
indeterminata.
Pensavi che potessimo essere persone per bene in questi tempi in cui tutto è male, ma ti sbagliavi, il mondo è spietato e l’unica moralità in un mondo spietato è il caso... imparziale, senza pregiudizi... equo.
Così, Due Facce disillude il Batman. E il Joker, l’altro nemico giurato del cavaliere Oscuro:
Non voglio ucciderti. Tu mi completi.
Confermando così a posteriori le considerazioni di Alberto Abruzzese (cit., pp. 15, 16):
Batman infatti non è né poliziotto né giudice, bensì ciò che la Legge nasconde e e non può ammettere di se stessa, cioè l’intimo legame con il Crimine, con il suo territorio, vale a dire con il mondo delle pulsioni emotive, dei fantasmi e delle paure [...] Joker è l’alter ego dell’identità rimossa e incompresa di Batman…
La realtà è sempre doppia.
Ed è, sostanzialmente, malvagia. Il confine fra il Bene e il
Male è labile, sfumato. A trafficare col Male si rimane
infettati. Più difficile che avvenga il
contrario… E le nostre azioni rischiano sempre di produrre
effetti “collaterali” opposti alle nostre
intenzioni. La teoria che ha generato il Dark
Knight è conchiusa. Il mito, tradendosi, torna a se stesso:
all’oscurità, alla doppiezza di Dracula.
Metamorfosi,
ambiguità, fluidità – mescolanza di
sacro e profano. Queste le cifre di Dracula, di Batman. Tratti del
premoderno, e poi, di nuovo, su una base non più
soprannaturale ma parallela alla secolarizzazione, del tardo moderno.
La
modernità, dal canto suo, aveva proposto la sua
interpretazione. Usando la fantascienza, il discorso narrativo del
positivismo, ma nell’interpretazione borderline di Richard
Matheson, con il romanzo Io sono leggenda (1996).
Pur
essendo un maestro dell’inquietudine e
dell’ambiguità, qui Matheson taglia corto: senza
esitazioni rovescia completamente la situazione classica, ne crea
un’immagine allo specchio. Siamo in un mondo, futuro, dove
l’intera umanità è costituita da
vampiri. Un solo uomo è rimasto tale, Robert Neville.
Disperato, distruttivo, passa il tempo a ubriacarsi e a autocompatirsi,
sparacchiando a caso sui vampiri che girovagano per le rovine della
città in cui vive. Poi scatta in lui una qualche molla
– e qui Matheson ritorna all’immaginario
scientifico/positivista – ritrova la lucidità
dell’uomo della modernità e si mette a studiare
medicina: anatomia, patologia, fisiologia. Cerca una risposta, una
spiegazione. Ma questa non c’è. Non
c’è salvezza, non c’è fede
possibile: la scienza sconfigge il soprannaturale, ma non offre
soluzioni. “L’ultimo uomo della Terra”
(questo il titolo di uno dei film tratti dal romanzo, 1964)
rimarrà tale, fino alla morte…
Parabola
pessimistica, nello stile di un maestro dell’Hunheimlich
come Richard Matheson, che condanna Neville a un futuro
desolante e disperato. Peggiore di quello del Dracula che lo ha
preceduto, simile a quello del Batman che lo
seguirà…
Convertire il mito alla sua
immagine speculare ha le sue conseguenze: il vampiro, nella sua
desolata solitudine, inutilmente nutrita seducendo giovani donne e
bevendo del loro sangue, è condannato eternamente ad una
non-vita che nello stesso tempo è una non-morte, una
immortalità liminare, protratta grazie ad una
vitalità crepuscolare e coattiva.
Allo
stesso modo Robert Neville a un certo punto della sua vicenda deve
agire. È un uomo “idealtipico” da questo
punto di vista (Paura, 2008a): un idealtipo dell’uomo
moderno, che è – o pretende di essere –
artefice del suo destino, della sua storia.
È fra
l’altro sulla forzatura di questo aspetto che giocano i film
– ben tre – tratti dal romanzo nel corso del tempo:
L’ultimo uomo della Terra, (Salkow, 1964),
1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (Sagal,
1971), Io sono leggenda (Lawrence, 2007).
In
tutte e tre le pellicole le incarnazioni di Neville cercano una cura
alla malattia che ha causato la mutazione dei suoi ex simili. Al di
là delle variazioni nelle trame, la dimensione
positivistica, scientista non cambia, fino all’ultimo film,
con protagonista Will Smith, di cui ancora Roberto Paura scrive:
Mettere a confronto il recente film tratto dal romanzo di Richard Matheson Io sono leggenda con il suo originale cartaceo, è qualcosa di molto più interessante del semplice elencare tutta una serie di differenze, tali da corroborare l’idea che il film di Francis Lawrence […] sia solo lontanamente ispirato al romanzo. (Paura, cit.)
In realtà, nel romanzo la differenza fra i vampiri e l’umano è solo esteriore. Le loro pulsioni sono simili, mentre nei film, e in particolare l’ultimo, abbiamo
… un pessimo Robert Neville, lontano anni luce dalla figura monumentale che emerge dalle pagine di Matheson; il regista, Francis Lawrence, vuole umanizzarne il personaggio, ma non riesce nell’intento... (Paura, 2008b).
L’intera gestione del film tradisce il romanzo che
lo ispira: per attualizzare la vicenda, lo scenario è quello
di un mondo spaventato dal terrorismo, e, addirittura, la causa
scatenante della catastrofe è una cura sperimentale contro
il cancro, forse l’unica concessione alla natura ambigua del
vampiro. L’ironia della cosa è però
involontaria: la morale di fondo del film è ispirata da un
millenarismo teocon che, se da un lato non riesce a ridare cittadinanza
alla sostanza soprannaturale del vampiro, dall’altra non fa
presa sull’immaginario della tarda modernità.
Tradendo così definitivamente il romanzo di Matheson e il
suo mito fondatore. E costringendo Will Smith a continuare nella sua
ricerca evidentemente inesaudita e inesausta di una felicità
a caccia della quale si era messo in precedenza senza, evidentemente,
rimanerne appagato.
Ciò che rimane, insieme
all’amaro in bocca, è la sensazione che allo stato
attuale della lunga vita del mito del non morto, rimanga un tentativo
– fallito – di vampirizzare il mito stesso, e con
lui il cinema che l’ha nutrito e gli ha donato la
sopravvivenza per circa un secolo…
:: letture ::
— Abruzzese A., L’occhio di Joker. Cinema e modernità, Carocci, Roma, 2006.
— Barber P., Vampires, burial, and death, 1988, trad. it., Vampiri sepoltura e morte, Nuova Pratiche Editrice, Parma, 1994.
— Harris C., Dead until Dark, 2001, trad. it. Finché non cala il buio, Fazi, Vicenza, 2009.
— Harvey D., The Condition of Postmodernity, 1992, trad. it., La crisi della modernità, Net, Milano, 2002.
— King S., Danse Macabre, 1982, trad. it. Theoria, Roma, 1992.
— Le Fanu S., Carmilla 1872, trad. it. Fanucci, Roma, 2004.
— Matheson R., I am Legend, 1954, trad. it. Io sono leggenda, Mondadori, Milano, 1996.
— Paura R., Io sono leggenda da cinquant’anni, ma qualcosa è cambiato, “Quaderni d’Altri Tempi” 14, 5-6/2008a, www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero14/02bussole/q14_roberto_leggenda01.htm 13/3/2010.
— Paura R., Io sono leggenda di Francis Lawrence, “Quaderni d’Altri Tempi” 16, 9-10/2008b, www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero16/06visioni/q16_visioni03.htm#visioni5 13/3/2010.
— Polidori J. W., The Vampyr, 1819, trad. it. Il vampiro, Studio Tesi, Pordenone, 1995.
— Shelley M. Frankenstein, 1818, trad. it. in Shelley Stoker Stevenson Creature dell’orrore, Einaudi, Torino, 2009.
— Stoker B. Dracula, 1897, trad. it in Shelley Stoker Stevenson Creature dell’orrore, Einaudi, Torino, 2009.
:: visioni ::
— Ball A., True Blood, HBO, Usa, 2008, dvd: HBO 2009.
— Browning T., Dracula, USA, 1931, Universal Pictures, 2004.
— Burton T., Batman, USA/GB, 1989, Warner Home Video, 2009.
— Coppola F. F., Bram Stoker’s Dracula, USA, 1992, Dracula di Bram Stoker, Sony Pictures Home Entertainment, 1999.
— Herzog W., Nosferatu: Phantom der Nacht, Germania/Francia, 1979, Nosferatu il principe della notte, CecchiGori, 2009.
— Lawrence F., I am Legend, USA, 2007, Io sono leggenda, Warner Bros., 2008.
— Mamoulian R., The Mark of Zorro, USA, 1940, Il segno di Zorro, 20th Century Fox Home Entertainment, 2003.
— Miller F., The Dark Knight Returns, 1986, trad. it. Il ritorno del cavaliere oscuro, Rizzoli, Milano, 1989.
— Murnau F. W., Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, Germania, 1922, Nosferatu il vampiro.
— Nolan C., The Dark Knight, USA, 2008, Il cavaliere oscuro, Warner Home Video, 2008.
— Sagal B., The Omega Man, USA, 1971, 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra, Warner Home Video, 2008.
— Salkow S., L’ultimo uomo della Terra, Italia, 1964, Ripley'S Home Video, 2010.