Amava
l’amore, e le piaceva sentirsi dire che era bella,
la
più bella di tutte: e in effetti lo era, ma di una bellezza
che
scaturiva dalle sorgenti inestinguibili dell’ombra.
[…]
La luce diurna e il chiaro le erano per istinto
odiosi
Valentine Penrose
nno del Signore Milleseicentodieci, Mattia
d’Asburgo, colui che nel giro di due anni sarebbe asceso al
trono del Sacro Romano Impero, invia alcuni suoi emissari nelle zone
più remote e nascoste dell’Impero, per scoprire
quello che nessun occhio, nonostante la preparazione offerta
dall’era di profondo livore medievale e dai suoi strascichi,
avrebbe mai potuto immaginare di vedere. Non una semplice tortura, non
un gioco finito male, non una crudeltà terrena, ma qualcosa
di più terribilmente immenso. È qualcosa che
viene direttamente dal centro della Terra, dove Erzsébet
Báthory, la Contessa Sanguinaria d’Ungheria, la
Lupa, la Belva di Csejthe, ha scambiato col demonio qualche pratico
consiglio.
Poco più di un centinaio di anni prima,
Pico della Mirandola inaugurava la stagione dell’uomo
moderno, scrivendo quell’apologia dell’essere tra
tutti eccezionale, privilegiato: l’uomo stesso.
Nell’Oratio de homini dignitatis (1487),
Pico sosteneva che l’uomo, che ogni uomo, ha in sé
una doppia forza eccezionale: quella di erigersi al di sopra di
sé sotto forma di angelo, e quella contraria di inabissarsi
sotto forma di barbaro, di demone. Erzsébet
Báthory, Contessa d’Ungheria, scelse questa
seconda strada.
Erzsébet nacque nel
Millecinquecentosessanta, figlia di una stirpe già
abbastanza maledetta. Tra i suoi avi, principi di Polonia e di
Transilvania, non mancano personaggi oscuri, spesso epilettici, sovente
crudeli, sempre estremamente coraggiosi, ammantati da una sorta di nero
furore sacro, come il fulgore di una medaglia con l’effige
del Cristo che, rovesciata, irradia di nero e di cupezza
l’atmosfera. Bianca come le lacrime della Luna,
Erzsébet era ossessionata dalla paura di perdere il suo
splendido pallore, che faceva da cornice ad uno sguardo severo ma
assorto, a guardare nelle viscere del mondo. Prese marito nel
Millecinquecentosettantacinque, all’età di
quindici anni, sposando Ferencz Nádasdy, fiero signore e
oppositore dei Turchi ottomani al di là dei Carpazi. Questi
morì nel Milleseicentoquattro, lasciando campo libero alle
nefandezze della moglie, che altrimenti aveva bisogno di aspettare, per
ottemperare al suo cupo progetto, che il marito partisse a battagliare,
a ripulire il suolo del Signore Iddio dai fedeli di Allah e di Maometto.
Il
pallore della Contessa era, come già
s’è detto, la sua maggiore ossessione insieme a
quella d’invecchiare. Provò numerosi unguenti e
diversi sortilegi per fermare il tempo e per schiarire le sue carni, la
Contessa, fino a quando un giorno, dopo aver schiaffeggiato una
servetta che le pettinava il capo, e dopo averle fatto scorrere del
sangue fin sulle sue bianche pelli, la crudele Erzsébet
s’accorse di un prodigio: quel liquido cremisi, caldo come
sono caldi dentro i figli di Dio, dava uno splendore latteo alla sua
pelle, la rendeva bianca ed iridescente più di quanto
già non fosse. Dal quel momento, per i sentieri tortuosi
delle montagne e delle pianure ungheresi, una carrozza prese a girare
annunciando la morte. Dentro vi erano la Contessa ed il suo macabro
seguito: Ficzkó, un nano deforme e malefico
nell’animo quanto brutto nell’aspetto,
Jó Ilona e Dorkó, due stregacce col volto sempre
coperto da pesanti veli, con le mani spaccate dalle pratiche mistiche e
alchemiche di adoratrici dell’ombra; “fidando nella
loro bruttezza”, scrive Valentine Penrose, “nella
loro sporcizia e nella loro incredibile crudeltà,
Erzsébet si compiaceva della compagnia di queste
manipolatrici di sangue, di schiuma d’ossa e di bestiole
sventurate” (Penrose, 1962, p. 73). Nel castello aspettava
invece Darvulia, un’altra collaboratrice del maligno, colei
che “iniziò Erzsébet ai giochi
più crudeli e le insegnò a guardare morire e a
trovare il senso di questo spettacolo” (ibidem,
p. 143). Prima d’incontrare Darvulia la Contessa godeva
soprattutto nel punire, nel rimproverare con pene atroci chi sbagliava,
dopo averla incontrata, invece, non v’era bisogno
più di alcuna giustificazione: “il sangue versato
era versato solo in virtù del sangue, e la morte violenta in
virtù della morte” (ibidem).
Una
giovane vergine, l’essere sacrificale il cui sangue avrebbe
meglio agito sulla pelle della contessa, non aveva un prezzo troppo
elevato all’epoca: bastavano pochi denari o addirittura solo
qualche pesante veste invernale per comprarla, ché
l’inverno, per i poveri contadini delle lande
d’Ungheria, era di certo più freddo che per gli
altri.
Una volta avvenuto il ratto (o semplicemente
l’acquisto delle vergini), la comitiva esiziale trasferiva
nelle segrete del castello di Csejthe le giovani fanciulle.
Lì, in mezzo al tanfo della muffa, dei cadaveri
già putrefatti, del piscio di ratti maledetti e della
sulfurea progenie del Maligno, Erzsébet Báthory,
con le sue fidate Darvulia, Jó Ilona e Dorkó,
dava agio alla sua terribile fantasia: strazio delle carni, dita
amputate, bruciature al pube ad ai capezzoli, spilloni conficcati nelle
cosce e nelle braccia e, infine, il tenero abbraccio di una gabbia
appesa sul soffitto o di una ferrea Vergine di Norimberga, in cui
centinaia di aculei arrugginiti fendevano le carni delle malcapitate. E
il sangue scorreva dabbasso, e veniva raccolto in un grosso catino di
terracotta: sarebbe servito per frizionare la pelle della Contessa, a
volte sarebbe anche andato a finire dentro una coppa rilucente, e poi
attraverso le labbra, fin dentro lo stomaco della contessa che ne
beveva avida di biancore e di giovinezza.
Le serve del
castello di Csejthe, che spesso partecipavano a queste feste ombrose,
conoscevano da sempre le inclinazioni nefaste della nobildonna. Ma
tacevano, sperando solo di non sbagliare nulla nell’obbedire
ai comandi di Erzsébet. La voce di una schiava non avrebbe
avuto alcun potere contro il blasone di una discendente della progenie
dei Báthory. Ma la Contessa, oltre che di sete di sangue,
soffriva suo malgrado anche di lancinanti emicranie, ed anche per
questo, a dir la verità, aveva un’efficace terapia
particolare. Quando capitava che un attacco di spasimo fosse
più acuto degli altri, la Contessa richiamava al suo letto
di dolore una delle sue servette e, dopo poco, il nano e le stregacce
tornavano con una tremante ed impaurita schiava. Per guarire dagli
attacchi, allora, la Contessa prendeva da tergo la sventurata, le
abbassava le vesti, e cominciava a morderle le spalle, fino a toccarne
le ossa con i denti, stracciando brandelli di carne sanguinolenta. Tra
le grida di strazio della giovane sacrificata, la Belva di Csejthe
trovava ristoro, rigenerata e pronta a nuove nefandezze.
Non
solo sottraeva dolore dal suo corpo e recuperava giovinezza,
Erzsébet, ma provava, in tutto questo, un concreto e nefasto
godimento. Lontano dal semplice sesso, nonostante tutti avessero sempre
sussurrato di un probabile lesbismo della Contessa, ella amava il
sangue, godeva del sangue, godeva della sofferenza di che le stava di
fronte. Godeva a ricercare e trovare torture sempre nuove, sempre
più conformi alla sua eccezionale diabolica bellezza. In
ogni occasione la belva cercava intorno a sé, anche quando
viaggiava, per rendere ossequio ai suoi doveri di nobildonna. Proprio
in uno dei suoi viaggi, di ritorno da Bicse, dove aveva presenziato ad
un banchetto a cui partecipava tutta la nobiltà
dell’Est dell’Impero, Erzsébet
scoprì “i malinconici e silenziosi poteri del
ghiaccio e della neve” (ibidem, p. 128).
Lasciar morire una servetta sulla neve della strada del ritorno,
scorticata, tumefatta, e dopo averle versato sulla pelle nuda secchi di
acqua gelida, fu per Erzsébet il più soave dei
piaceri. Tanto da ripeterlo e migliorarlo più volte,
ché anche nella violenza e nel dominio ci vuole fantasia.
Tutto
questo strazio fino al Milleseicentodieci, quando le voci che
raccontavano di queste macabre storie erano oramai giunte fino al
centro dell’Europa, al punto che nemmeno la difesa del
blasone poteva impedire un’ispezione da parte
dell’Impero. I messi inviati da Mattia d’Asburgo
trovarono nelle segrete del castello decine di corpi nudi, neri di
sangue rappreso al punto che sembrava fossero stati cosparsi di pece.
Alcune giovani ragazze erano ancora vive, con qualche pezzo mancante, a
tremare negli angoli delle cantine, abbagliate dal nero furore di
Erzsébet. La Contessa venne arrestata e, subito dopo,
processata. Non le venne imposta la morte, ella era pur sempre una
nobildonna e il nome Báthory avrebbe meritato rispetto. La
sua pena fu di finire rinchiusa in una stanza del suo stesso castello,
con tutte le aperture murate ad esclusione di uno spiraglio tra le
pietre da cui le veniva passato il nutrimento. Durò quattro
anni la prigionia della Contessa, da sola, cementata nella sua stessa
allucinante solitudine.
Nell’anno del Signore Milleseicentoquattordici,
Erzsébet Báthory spirò, lasciando che
di lei si continuasse a parlare per secoli, come della Signora
più nera che avesse mai calpestato il suolo del mondo creato
per gli uomini da Dio.
Sono anni di profondo cambiamento,
quelli in cui vive la contessa Báthory, questo almeno nel
resto d’Europa. L’Ungheria, con le sue storie come
questa appena raccontata, conservava ancora un impianto feudale ed un
animo truculento. In Francia, invece, si guardava dentro
l’uomo, negli anditi nascosti della sofferenza esistenziale;
in Inghilterra Bacone organizzava l’impalcatura di quello che
poi sarà il metodo scientifico; in Italia Galilei volgeva lo
sguardo direttamente alle stelle. Di lì a poco, tra Germania
e Francia, avrebbe avuto avvio la Guerra dei Trent’Anni,
conflitto in cui politica e religione s’impegnarono a
riproporre il loro millenario ed irrequieto matrimonio. Ma altrove,
nelle terre estreme della Transilvania, dove il Sole fa prima a
scendere dietro le montagne, dove i Carpazi hanno creato un conca di
stagnazione della politica e della morale, dove nemmeno gli infedeli
dell’Oriente sono riusciti mai ad entrare, gli uomini vivono
senza Dio, abbandonati alla più nera provincia del mondo,
dove i Signori che reggono il comando assaggiano il sangue, se ne
compiacciono e tornano a farlo ininterrottamente. Quelle di
Erzsébet Báthory sono le terre che già
erano state, centocinquanta anni prima, di Vlad Ţepeş Terzo, il celebre
Dracula di Abraham Stoker (1897), terre abbandonate
da Dio e dall’Impero. Per tutto quello che lì
succedeva, compresa la storia della Contessa sanguinaria,
c’è un motivo che, paradossalmente, trae spunto
dal suo contrario: dalla necessità di difendere un Dio su
tutti gli altri, di conservare intatti gli insegnamenti biblici e la
vita del Cristo.
Per un gioco maldestro e bizzarro, infatti,
l’Ungheria dei secoli tra il Quindicesimo ed il
Diciassettesimo, veniva definita Propugnaculum Christianitatis
(Kosáry, 1938, p. 163), fortezza ultima della
cristianità, luogo attraverso il quale i Turchi, con le loro
scimitarre ed il loro Corano, non sarebbero mai riusciti a transitare,
un passo inaccessibile, fisico e morale. Mentre al di là
della fortezza, in tutta Europa, si litigava strenuamente sulla
questione dell’arbitrio umano e delle sue diverse
coniugazioni, e sulla legittimità di una chiesa o
dell’altra: è il periodo che s’inaugura
quando, nel Millecinquecentodiciassette, Lutero affigge a Wittenberg,
sul portale della sua cattedrale, le novantacinque tesi della furia
iconoclasta protestante. Era tutto già abbastanza debole,
instabile dentro l’Europa attraversata dal Meno, che
un’invasione da Est della Jihad, dei Muslimūn infedeli, non
avrebbe fatto altro che destabilizzare ancora tutto, che instillare un
altro motivo di caotiche rivendicazioni religiose. E per evitare che
gli infedeli entrassero, il metodo migliore, senza dubbio, non poteva
essere che quello di erigere un muro fatto di sangue, di
crudeltà, di assenza di legittima morale, un muro di fronte
al quale anche gli infedeli più infedeli avrebbero
nuovamente voltato le spalle, ricacciati ad Oriente, ricacciati nelle
loro stesse terre.
I protagonisti di questa lunga storia sono tanti, ma alcuni probabilmente più eccentrici d’altri, sicuramente più efferati, senza dubbio più efficaci nel perseguire lo scopo difensivo della cristianità stessa. Che poi i metodi di difesa oltrepassassero di gran lunga le stesse efferatezze di cui si credevano capaci gli Arabi, ebbene non sarebbe stato un problema grosso, tanto non sono gli uomini a decidere, almeno non di certe cose. È la storia a farlo. Tra questi efferati protagonisti c’è la Erzsébet Báthory di cui sopra s’è parlato, ella trasferirà in tutto l’Impero la sua eredità cupa di terrore, un’eredità che arriva fino ai giorni nostri, spesso mescolandosi con la narrazione fantastica, spesso recuperando il linguaggio sensazionalistico della psichiatria e della psicanalisi. Quello che ci si pose allora, e che ci si pone ancora oggi è un interrogativo terribile: “Come può una persona, una donna nella fattispecie, progettare una sceneggiatura così intima con la morte? Come può una sola donna immaginare e mettere in pratica rovesciamenti di cadaveri, rinfrancanti bagni nel sangue di vergini innocenti? Come può, una persona, trarre piacere da tutto questo?”
Due sono le possibili risposte, forse anche troppo romanzesche.
Una
prima, quella che si è tentato di abbozzare fino ad ora,
affonda le sue ragioni nella storia: la cristianità, per
rendersi immune dall’invasione dell’Islam, non
poteva far altro che oltrepassare se stessa ed addirittura il suo
contrario, alleandosi finanche con il demonio, perché si
trattava di combattere contro i fedeli di un altro Dio (e questa
battaglia, c’è da esserne sicuri, il demonio
stesso l’avrebbe combattuta).
Una seconda,
certamente più moderna e forse più affascinante,
conserva solide le sue radici all’interno di una tradizione
che scava negli anditi del soggetto, nelle pieghe della fondazione
individuale e nella definizione psicopatologica di un modo di vivere le
cose. Dunque al fianco di quelle domande opprimenti sul
perché di una biografia come quella della Contessa
Báthory, si devono riformulare nuovi interrogativi, per
cercare di spiegare una tendenza biografica con altre biografie,
altrettanto violente, altrettanto archetipiche.
A sciogliere
le linee di questi interrogativi vengono allora in aiuto, nei secoli
successivi, altre figure atroci, altri uomini orribili. Su tutti uno,
non a caso un nobile anch’esso, che ha iscritto nel
vocabolario corrente il proprio nome, facendolo diventare sostantivo di
una visione del mondo, di un’immagine delle cose,
che il tempo e la scienza ci hanno insegnato a chiamare con
l’epiteto di perversione: Donatien Alphonse De Sade, il Divin
Marchese (un uomo crudele, certo, ma incommensurabilmente meno rispetto
alla Contessa). A segnare il passaggio della sua vita sta un terribile
dispositivo: il dolore. Il dolore coniugato, naturalmente, con il sesso
e, dunque, per seguire un imperativo psicanalitico, con la morte. La
cristianità, le lotte intestine in Europa tra cattolici e
protestanti, le pressioni dei Turchi durante il corso di diversi
secoli, non hanno più, in questa nuova prospettiva, alcun
minimo valore. Oppure, se ce l’hanno, questo è
vero solo a livello liminale.
Adesso la storia è
quella di alcuni personaggi orrendi, presi nella loro
soggettività che li fa emblemi di una specie intera: il
genere umano. Accanto a Erzsébet Báthory, accanto
a Vlad Ţepeş Terzo, ci sono Gilles de Rais, c’è
Leopold von Sacher-Masoch (certamente un agnellino candido a confronto
di tutti gli altri qui citati), ce ne sono molti altri. Secondo questa
interpretazione, allora, bisogna leggere quanto di truculento succedeva
nelle segrete del castello di Erzsébet Báthory,
attraverso la lente di tutte quelle scienze (alcune più
scientifiche, altre meno) che interpretano l’uomo nella sua
fondazione intima. A questa fondazione intima, dichiarano alcune voci
che guardano dentro l’uomo, appartengono due primordiali
tensioni, quelle che volgono da una parte verso la
sessualità, dall’altra verso la morte. Ovviamente
si parla della voce di Sigmund Freud: egli, infatti,
“… introdusse nello psichismo ciò che
potremmo chiamare un universale della differenza perversa: ogni umano
è abitato dal crimine, dal sesso, dalla trasgressione, dalla
follia, dalla negatività, dalla passione, dallo smarrimento,
dall’inversione” (Roudinesco, 2007, p. 83). Ma
è anche vero che l’uomo è in grado,
spesso, se non nella quasi totalità dei casi, di imporre
determinati freni a queste pulsioni.
Erzsébet
Báthory e Donatien Alphonse De Sade, avevano, in tutta
probabilità, evidenti difficoltà ad imporre a se
stessi tali freni. Mettendo in fila questi due estremi rappresentanti
di quella che dall’inizio del Novecento viene chiamata
perversione, ci si rende conto di un fatto: di quanto in tutti e due i
casi il male fosse non soltanto costitutivo di
un’anti-morale, ma di una morale positiva a tutti gli
effetti, di un ordine concreto che non voleva tendere in alcun modo al
semplice dissolvimento dell’altro ordine, di quello
dominante: la Contessa Sanguinaria ed il Divin Marchese avevano una
loro solida morale, basata da una parte sul ritorno
all’essenza istintuale costitutiva dell’essere
umano e, dall’altra parte,
sull’eccezionalità, squisitamente sociale, della
nobiltà. Una morale, allora, fortemente conservatrice, una
morale del dominio, una riproposizione, o meglio forse una
conservazione, delle male usanze medievali. In due azioni: demolire la
morale corrente e stabilirne una che, attraverso la legittimazione
della propria nobiltà, considerasse come sostantivo uno
stato di natura hobbesiano. Una morale non troppo corretta,
d’accordo, ma pur sempre una morale e, in quanto tale, giusta
per se stessa. Una morale oppositiva, ma non per questo negativa. Una
morale dell’uomo, per l’uomo.
La morale
sadica sovverte le leggi, ma afferma comunque un ordine. Gilles Deleuze
afferma che in Sade il principio della Legge (quella Legge maiuscola
che discende direttamente da Platone) viene superata, nel suo essere
tirannica, non da un’idea di sommo Bene, ma da
un’idea di sommo Male. “La legge”,
allora, “non può essere superata che verso
l’anarchia come istituzione. E il fatto che
l’anarchia non possa essere istituita che entro due regimi di
legge, un antico regime che essa abolisce e un nuovo regime che genera,
non impedisce che questo breve momento divino, pressoché
ridotto a zero, testimoni della sua fondamentale differenza tra tutte
le leggi” (Deleuze, 1967, pp. 96-97).
Secondo Michel
Foucault proprio la figura di Sade pone l’uomo di fronte al
suo contrario: “Tutto ciò che la morale e la
religione, tutto ciò che una società malfatta
hanno potuto soffocare nell’uomo, riprende vita nel castello
dei delitti. L’uomo è infine accordato con la sua
natura; o piuttosto, per un’etica caratteristica di questo
strano internamento, l’uomo deve vegliare a conservare, senza
cedimenti, la sua fedeltà alla natura” (Foucault,
1972, p. 450). Sade e Báthory sovvertono la morale
progressista (che comincia col Rinascimento e trova il suo apice nella
Rivoluzione francese del Millesettecentottantanove) che si fonda sullo
stato di natura, per riaffermare da un’altra prospettiva lo
stesso monito: bisogna perseguire i diritti naturali. E che cosa si
adegua a questo monito meglio della prevaricazione, della violenza, del
godimento del sangue? Anche la risposta a questa domanda è
questione di prospettive.
Ecco, quello che Sade ha ricordato
all’uomo è che in alcuni attimi della storia, come
quello attraversato dalla Rivoluzione, ci sono dei vuoti, delle zone
interstiziali in cui una nuova morale si trova a dover sostituire
ciò che è stato, per anticipare ciò
che sarà: e questo succede nel tempo. Ciò che
invece succede nello spazio è quanto è avvenuto
ad opera della Contessa sanguinaria. L’interstizio
lì è nello spazio, nell’incrocio di due
legittime morali che si scontrano l’un l’altra: la
morale di Dio e la morale degli uomini che lo difendono. Ma
Erzsébet Báthory, in questo spazio interstiziale,
non aveva altro desiderio che promuovere se stessa. Quando venne
arrestata, ella fu trovata “superba e arrogante: non
negò nulla [dei suoi delitti], anzi proclamò che
tutto ciò le spettava di diritto per la nobiltà e
il rango della sua persona” (Penrose, 1962, p. 188). Legge,
diritti, nobiltà e natura: sono questi i quattro bracci
della croce rovesciata della contessa, al di là anche di
Sade, anticipandolo di centocinquant’anni, al di
là di ogni più oscura e truculenta storia.
:: letture ::
— Deleuze G., Présentation
de Sacher-Masoch. Le froid et le cruel, 1967,
trad. it. Il
freddo e il crudele, ES, Milano, 2007.
— Foucault M., Historie de la folie à
l’àge classique, 1972,
trad. it. Storia
della follia nell’età classica, Bur,
Milano, 2001.
— Kosáry D., Gabriel Bethlen: Transylvania
in the XVIIth Century, 1938,
in “The Slavonic and
East European Review”, Vol. 17, N. 49, pp. 162-173.
— Pico della Mirandola, Oratio de homini dignitate,
1478,
trad. it. Discorso sulla dignità
dell’uomo, Guanda, Parma, 2007.
— Penrose V., La Contesse sanglante, 1962, trad. it. La contessa sanguinaria, ES, Milano, 2004.
— Roudinesco E., La part obscure de
nous-mêmes. Une histoire des pervers, 2007,
trad.
it. La parte oscura di noi stessi. Una storia dei perverse,
Angelo Colla, Vicenza, 2008.
— Stoker B., Dracula, 1897,
trad. it. Dracula,
trad. it in Shelley Stoker Stevenson Creature
dell’orrore, Einaudi, Torino, 2009.