Nel 1936 Charlie Chaplin dirige Tempi moderni, capolavoro della storia del cinema e sarcastica denuncia dell’alienazione capitalistica nell’era del fordismo. Circa settanta anni dopo, Ken Loach (2008) aggiorna nel suo stile la parabola girata dal connazionale, mettendo da parte l’ironia, e adeguandola alle nuove dimensioni del mercato del lavoro globalizzato. La storia che racconta ha al suo centro una ragazza, Angie, impiegata di un’agenzia di collocamento, che perso il lavoro da dipendente che aveva, non trova di meglio che mettere a frutto le competenze che aveva acquisito per diventare “imprenditrice di se stessa” – come recitano le litanie dei sostenitori della new economy e del lavoro “flessibile” (e dei loro a volte imprevedibili sostenitori) – per trasformarsi da lavoratrice sfruttata e instabile in imprenditrice sfruttatrice e decisa. Fra l’altro, scontrandosi col padre, esponente della vecchia classe operaia sindacalizzata, ancora “schiavo”, direbbe qualcuno, delle ormai tramontate grandi narrazioni del Novecento.
Angie traffica, di fatto in esseri umani, quelli più deboli, le “vite di scarto” (Bauman, 2005) clandestine, generiche, senza particolari specializzazioni, costituite da uomini e donne provenienti dall’Europa dell’est, dal subcontinente indiano – insomma, dalle varie patrie moribonde dei nuovi “dannati della Terra” (Fanon, 2007). Per dar forza al suo racconto Loach usa situazioni estreme: l’espulsione dal mondo relativamente garantito del lavoro per Angie, le condizioni di sfruttamento selvaggio e di precarietà quotidiana e infinita di coloro che ingaggia: il caporalato al tempo di internet, insomma. Le nuove forme di alienazione, non più solo dal proprio lavoro, come ai tempi della grande industria, ma addirittura dalla propria identità: da un qualsiasi “progetto di vita”, da un qualsivoglia futuro, oltre che dalla propria terra d’origine. Senza la prospettiva di trovare una nuova cittadinanza stabile in un nuovo paese. Sempre a rischio di essere stanati dalla legge, e espulsi. L’accumulazione primitiva, insomma, ai tempi della globalizzazione. Situazioni estreme, scrivevamo, ma che sono, in forma più lieve, rintracciabili anche in altri luoghi, e per altre categorie di lavoratori, in contesti lavorativi apparentemente più “garantisti” e “empatici”, a loro volta spesso precari, perché dipendenti in gran parte da donazioni, contributi pubblici, lavoro volontario. E che, naturalmente, influiscono sulle traiettorie identitarie, sui percorsi biografici di coloro che ne sono protagonisti – vittime, come gli extracomunitari – o alleati – come Angie – nel film di Loach. Con una curiosa implicazione: il personaggio di Chaplin in Tempi moderni e il padre di Angie nel “libero mondo” di Loach sono monolitici nella loro identità: la classe operaia, e la sua cultura: la solidarietà, la cooperazione, la classe, insomma. Angie no, lei è… “flessibile”? Sicuramente è individualista: passa da un campo all’altro, con disinvoltura…
Ora, cinema e sociologia sono affini, per la capacità di descrivere la modernità e i suoi abitanti: il cinema per qualcuno ne è la teoria (Abruzzese, Borrelli, 2000, pp. 126-7), la sociologia ambisce ad esserlo. E come il cinema rappresenta con Chaplin l’alienazione del lavoratore, così, la sociologia cerca di descriverne le condizioni complessive, con ricerche cominciate negli anni subito precedenti (Cfr., ad es., Madge, 1966, pp. 221-284).
Così oggi, ancora. E, a proposito di solidarismo, una ricerca italiana recente (Corbisiero, Scialdone, Tursilli, 2009) prende in esame il “terzo settore” e coloro che vi lavorano:
Il dato che emerge con particolare evidenza dalle testimonianze è una debole consapevolezza da parte dei lavoratori dei propri diritti o la volontà di non esercitarli pienamente per non ledere la rete di relazioni che regge la loro posizione lavorativa […] le interviste mostrano un fondato indebolimento del ruolo della rappresentanza sindacale che nel terzo settore è praticamente inesistente. (Ivi, p. 152).
Insomma, l’esercito di lavoratori – anche laureati, formati pure ad alti livelli (Ibidem, p. 95) – che vagano di contratto in contratto, di progetto in progetto, osservando aumentare i propri anni e la propria qualità, senza intravvedere al loro orizzonte temporale grandi prospettive di stabilità lavorativa, sicurezza esistenziale, identità sindacale. Che magari, come sempre la stessa ricerca evidenzia, hanno investito il loro impegno e le loro prospettive negli organismi del “privato sociale” – cooperative sociali, associazioni di promozione sociale – e negli organismi pubblici deputati all’assistenza – degli anziani, dei poveri – alla promozione sociale – dei dropouts, delle donne – al recupero – degli ex carcerati, dei tossicodipendenti…
Una dimensione spesso connessa alla ricerca di condivisione e di appartenenza, quella che fa avvicinare molti, specie i più giovani, a organismi impegnati nell’aiuto e nella solidarietà, ma che non sempre viene “premiata” con la prospettiva della continuità. Né con quella della condivisione dei valori fra datore di lavoro e lavoratore. Anzi, a volte sembra che la mission della cura ai più deboli si persegua a scapito delle garanzie a chi se ne occupa: l’organizzazione difende se stessa, si garantisce – magari conducendo per assurdo chi lavora per lei verso un futuro di bisogno, di dipendenza, assicurando così paradossalmente a se stessa la riproduzione della propria ragion d’essere…
Qualche anno fa, lo psicosociologo Eugène Enriquez (2006) ragionava su come, al di là della teoria, nei contesti organizzativi non sempre i fini e le attese del singolo corrispondano a quelle dell’organizzazione di cui fa parte. E questo vale, naturalmente, anche per gli organismi del terzo settore, nati prima di tutto da un impulso etico. La dimensione di bisogno, di emergenza in cui spesso agiscono, finisce per incoraggiare l’autoreferenzialità dell’organizzazione, la spinta alla propria riproduzione, piuttosto che l’attenzione verso chi ne fa parte:
Nonostante la presenza di spirito filantropico e solidarietà sociale, abbiamo osservato come nelle organizzazioni del terzo settore siano diffuse le forme di lavoro atipico […] Ne consegue una sostanziale debolezza delle traiettorie lavorative degli operatori sociali e numerosi svantaggi in termini di diritti e tutele legati proprio alla temporalità del contratto. (Corbisiero, Scialdone, Tursilli, cit., p. 105).
Stiamo parlando, lo ricordiamo, di organismi che
… tendono a proporsi sul mercato e nella società tutta come attività di produzione e distribuzione di ricchezza basate su logiche di solidarietà. (Ibidem, p. 26, tondo nostro).
… ma che, sotto i colpi della necessità, a volte scordano quella nei confronti dei loro dipendenti. Perché i costi del lavoro sono alti, e i contratti atipici permettono di abbassarli (Ibidem, p. 134). Prima di tutto perché a questi lavoratori non sono assicurate coperture rispetto a eventi come l’invalidità, la malattia – la maternità… (Ibidem, p. 108). Ed è qui che si inserisce, crediamo, anche un’altra dimensione nella esperienza lavorativa dei lavoratori “temporanei”, che diventa mimetica rispetto alla dimensione – epocale – della differenza fra i lavoratori “garantiti” e quelli definiti ironicamente (beffardamente?) “flessibili”:
Tutto ciò acutizza […] la “desolidarizzazione” dei lavoratori che descrive la progressiva segmentazione tra lavoratori protetti e rappresentati (quelli con contratto a tempo indeterminato) e lavoratori mal protetti e e poco rappresentati (quelli con contratto temporaneo). (Ibidem, p. 106).
Perché all’interno di questa frattura se ne verifica un’altra: quella “frattale” che si crea nella giungla di contratti atipici, che moltiplicano le differenze fra gli stessi lavoratori “a termine”, rendendo opaca la sostanziale somiglianza e spesso esaltando le differenze fra loro. Acuendo quindi il senso di isolamento, diversità, unicità – al ribasso, naturalmente – e ponendo le basi di una ennesima guerra fra poveri.
La fine del fordismo e il passaggio al capitalismo flessibile (quello sì) (Harvey, 2002), si riverbera a tutti i livelli della società, dall’organizzazione globale delle imprese giù giù fino alle identità individuali. Perché logicamente la spinta – o forse il risucchio – verso l’individualismo degli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso, uno dei riflessi del passaggio alla tarda modernità, è fra le cifre più evidenti del superamento del modello fordista come calco delle visioni del mondo e delle relazioni sociali, e si realizza anche nelle nuove percezioni identitarie: rimane come residuo, pallido, l’idea che ci si realizza attraverso il lavoro, che si esiste socialmente se si lavora. Ma questa verità, lampante in passato, non è più una certezza. Né altro l’ha sostituita. E ci si dibatte, ci si organizza, cercando di dare un senso alle proprie opportunità, e speranze: di “costruire la propria vita” (Beck, 2008). Prova ne sono i brani di intervista che completano e giustificano le considerazioni della letteratura – ormai ampia – che si occupa della questione. Inoltre, a un livello di analisi “meta” rispetto a quello seguito fin qui, producendo anche una sociologia che aggiungendo alla raccolta e all’analisi dei dati empirici le riflessioni e le esperienze degli interessati offre alla ricerca una dimensione ulteriore, in rilievo: quella delle biografie individuali (Corbisiero, Scialdone, Tursilli, cit.; Bory, 2008). A richiamare e confermare quelle offerte dal cinema, quello classico, sardonico di Chaplin, quello contemporaneo, militante di Loach.
:: letture ::
— Abruzzese A., Borrelli D., L’industria culturale, Carocci, Roma, 2000.
— Bauman Z., Wasted lives. Modernity and its Outcasts, 2004, trad. it. Vite di scarto, Laterza, Roma-Bari, 2005.
— Beck U., Eigenes Leben, 1997, trad. it. Costruire la propria vita, Il Mulino, Bologna, 2008.
— Bory S., Il tempo sommerso, Liguori, Napoli, 2008.
— Camerlinghi R., D’Angella F., Riscoprire la forza dei legami. Il lavoro sociale nella società iperindividualista. Intervista a Eugene Enriquez, “Animazione sociale”, 206, XXXVI, 2006.
— Fanon F., Les Damnés de la terre, 1961, trad. it. I dannati della Terra, Einaudi, Torino, 2007.
— Harvey D., The Condition of Postmodernity, 1990, trad. it. La crisi della modernità, Net, Milano, 2002.
— Madge J., The Origins of Scientific Sociology, 1962, trad. it. Lo sviluppo dei metodi di ricerca empirica in sociologia, Il Mulino, Bologna, 1966.