Se la fantascienza è lo specchio della realtà, l’Avatar (2009) di James Cameron fornisce un’immagine molto interessante dell’attuale condizione umana come rappresentata dal suo enorme pubblico che gli ha garantito, in pochi giorni di programmazione, il record storico d’incassi. Quando il record lo fece Titanic, nel già lontano 1997 ma sempre a firma di Cameron, c’era chi ironizzava sul fatto che ad attrarre il pubblico (femminile) nelle sale per tre, quattro e anche dieci volte fosse la malcelata speranza che alla successiva proiezione il finale cambiasse, e il povero avvenente protagonista si salvasse per magia dalle gelide acque dell’Atlantico. Avatar offre invece al pubblico di oggi speranze di più facile fruibilità, ben rappresentate dal nome del mondo su cui si ambienta la storia, Pandora. Era sul fondo del vaso ingenuamente scoperchiato dalla curiosità umana (come Eva, anche per i greci impersonata da una donna, Pandora appunto) che dopo la fuoriuscita di ogni tipo di male possibile giaceva infine la speranza, spes ultima dea. Ed è infatti quella stessa speranza a restare sul fondo del pianeta Pandora, e al termine della storia – dopo una lunga serie di morti, lutti e distruzioni – nelle menti e nei cuori degli spettatori, disillusi dalla rapida fine delle grandi speranze del terzo millennio infrante da un paio di aeroplani e dalla volatilità delle facili ricchezze.
Illusione e speranza del resto sono il filo rosso di questo film che comincia con un’immagine che suggerisce appunto l’illusione dell’intera storia. Il protagonista Jack Sullivan, nel lungo sonno dell’ibernazione, immagina se stesso libero di volare su un pianeta selvaggio dove non esistono confini alle proprie possibilità. Ma Jack Sullivan è menomato dopo che gli orrori della guerra sulla Terra (solo suggeriti nella pellicola, ma che sembrano terribilmente attuali) lo hanno paralizzato alle gambe. Non può camminare, non può correre e tantomeno volare; il suo corpo è una gabbia soffocante, dalla quale la sua anima (verrebbe già da dire il suo avatar, e tanto vale anticiparlo) può liberarsi solo quando il suo corpo è addormentato. Nell’ibernazione artificiale, prima. Nei bozzoli del progetto “Avatar” su Pandora, poi. In realtà si tratta della stessa cosa: l’impressione che il film sembra suggerire nella sua onirica sequenza iniziale è che in fin dei conti sogno e realtà coincidano. La forza di Avatar sta qui, nel suo suggerire la possibilità di una fuga dal reale da intendersi per Jack su due piani, quello della vita su un altro mondo e della vita in un altro corpo. I due elementi che, come intuiva Hannah Arendt influenzata da Martin Heidegger, più di tutti ricordano all’uomo il suo esser-ci, la finitezza della propria azione e della propria vita contraddistinta dal limite posto dal proprio corpo e dal mondo in cui si vive. La fantascienza per prima aveva cercato di rompere questi due limiti, immaginando storie su altri mondi e altri universi, e sostenendo fermamente la possibilità di superare in mille modi le limitazioni del corpo: dall’allungamento della vita alla possibilità di trasferire la propria coscienza in altri corpi o magari addirittura in un limbo incorporeo. James Cameron non ha fatto altro che estrapolare questi elementi alla base della fantascienza e riproporli in una nuova versione, ottenendo lo stesso effetto che sui lettori americani degli anni Venti e Trenta del secolo scorso esercitavano le storie dei pulp magazine ambientate su Marte, Venere o mille altri mondi. Allora come oggi il fascino della fuga dalla realtà si comprendeva in un’ottica di esigenza d’evasione: la claustrofobica parentesi tra le due guerre, ieri; oggi, l’opprimente senso di vulnerabilità suggerito dai mass media attraverso cronache di attentati, pandemie e crisi economiche a effetto domino.
A ridimensionare l’estraneità dell’ambientazione – mondo nuovo, specie nuove, anche nuove tecnologie di proiezione – un ruolo fondamentale gioca la banalità della storia, che permette anche allo spettatore meno avvezzo ai troppo sbrigliati voli della fantasia di familiarizzare con i protagonisti e il tema di fondo. Da una parte c’è quindi il topos della storia d’amore contrastata tra umano e aliena, che nell’immaginario collettivo risale perlomeno a Shakespeare. Erano alieni a modo loro Romeo e Giulietta, così come lo erano Rose e Jack (per Cameron nome tipico dell’uomo qualunque) in Titanic. E lo erano naturalmente la pellerossa Pocahontas e il capitano inglese John Smith, la cui storia molti smaliziati hanno voluto accostare a quella di Avatar, dimenticando che il binomio scontro tra culture/incontro tra persone (incontro inteso nel senso più esteso del termine) è insito nella storia umana. L’aspetto dell’evasione si concentra invece su un autentico processo di world-building, quella che John R. R. Tolkien chiamava la “sub-creazione”, ossia l’invenzione di un mondo nuovo, che in un modo o nell’altro mantiene degli ancoraggi con la “creazione” per definizione, quella del nostro mondo. Pandora è aliena e riconoscibile al tempo stesso: le sue giungle ricordano quelle dell’America delle invasioni spagnole, le sue specie animali e vegetali sono invece completamente diverse dall’esperienza terrestre. Diversamente, gli alieni intelligenti che vi abitano – i Na’vi – differiscono per pochi elementi dagli umani: sono ben più alti, hanno la pelle blu, hanno mani e piedi come noi, occhi, orecchie, bocca. E da ciò deriva un comportamento sociale identico a quello umano: gruppi, tribù, amori e odi, lotta per la leadership e spinta alla riproduzione (il cui apparato verosimilmente è identico al nostro, considerando che i Na’vi tra l’altro si baciano come fanno gli umani).
La scelta dell’ambientazione non è perciò casuale. Cameron recupera in Avatar il vecchio mito del buon selvaggio, spingendo il pubblico a riconoscere nei Na’vi una forma primordiale di umanità che, grazie al suo naturale rapporto simbiotico con la natura, non ha ancora assaggiato il frutto proibito che comporta la radicale differenza e contrapposizione tra l’uomo e la natura. La lettura data da Cameron permette perciò di far rientrare pienamente il film nel genere fantasy piuttosto che nel filone fantascientifico, proprio perché Avatar sposa le premesse fondamentali del fantasy: il rifiuto dell’apporto delle rivoluzioni industriali e del progresso tecnologico in favore di un ritorno all’antico, al primordiale. Ritorna quindi la differenza fondamentale a livello “filosofico” tra la fantascienza – inguaribilmente illuminista e positivista – e il fantasy prettamente romantico, che smentisce le tesi di chi sostiene che “perché un film appartenga al genere fantascientifico, è necessario che possieda uno spazio-tempo segnato dall’estensione ontologica [ossia ambientato nel futuro e/o nello spazio, ndr], degli oggetti prodotti dall’intensificazione tecnologica [ossia tecnologie futuristiche, ndr] e degli individui nelle cui forme di vita (sia individuali, sia sociali) convergano” questi due elementi (Bandirali e Terrone, 2008). Non è così semplice. Avatar rispetta queste condizioni ma condivide un’impostazione filosofica diametralmente diversa da quella della fantascienza perché sostiene la superiorità di un’ontologia irreale: gli dei di Pandora sono superiori alla tecnologia terrestre; l’elemento mistico, primordiale e misterioso prevale sull’elemento positivista. Non è la fantascienza “pessimistica” di tanti autori della social-science fiction, che non condividevano l’impostazione positivista della prima fantascienza ma restavano agganciati a una visione materialista della realtà; è la filosofa del fantasy che rigetta il mondo attuale per rifugiarsi in un mondo primordiale, radicalmente “altro”. Come il Romanticismo, il fantasy rivaluta non solo (com’è noto) l’epoca medievale, ma anche – andando più indietro – un’epoca mitica mai esistita nella storia umana, che riecheggia il mito dell’Eden: quella in cui l’uomo non è stato ancora corrotto dalla società e vive come la natura lo ha fatto. Lo anticipava per primo Rousseau: “Tutto è bene quando esce dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo”, scriveva nell’incipit dell’Emile. Perciò, i Na’vi che seguono le regole dei loro dei sono immancabilmente buoni, gli uomini che seguono le loro regole sociali (prevaricazione e rapina) sono inevitabilmente cattivi. La visione manichea del mondo è difatti una costante del fantasy e Avatar la riprende in pieno. Anche questo è un chiaro sintomo di fuga dalla realtà: la guerra tra i Na’vi e gli umani è semplice da capire, perché i primi sono i buoni e i secondi i cattivi. Ciò serve a dare sicurezza al pubblico smarrito dalle guerre contemporanee dove ormai il confine tra bene e male è svanito: i tempi della Guerra Fredda che divideva “noi” dagli “altri” sono finiti, e la riproposizione di un Asse del Male da parte del’ex presidente Bush non ha avuto gli effetti sperati. L’americano medio che si chiede perché i propri ragazzi muoiano in Iraq e in Afghanistan, che si domanda se le democrazie lì instaurate siano veramente tali, che inorridisce agli attentati terroristici così come alle sevizie nelle carceri e ai bombardamenti sui civili, ritrova in Avatar una rassicurante (ir)realtà.
Sostenere che Cameron abbia voluto con questo film muovere una critica all’americanismo è senz’altro sbagliato. Non è quella la lettura che l’autore vuole suggerire. All’apparenza tutto fila: i Na’vi sono gli Indiani d’America in lotta contro gli arroganti bianchi alla conquista del Far West; fantascientificamente parlando, era quello che George Lucas suggeriva quando i pacifici Ewoks della foresta mettevano in ginocchio le truppe d’assalto dell’Impero galattico in Star Wars; e ancora meglio, le ragioni dell’intervento umano sul pianeta Pandora dettate dalla ricerca di un raro minerale fondamentale per l’economia terrestre suggeriscono fin troppo bene il parallelismo con la guerra in Iraq per il petrolio. Ma pur gettando queste chiare tracce, Cameron non invoglia lo spettatore ad un impegno in questo mondo. Lo invita piuttosto a credere alla possibilità di un nuovo mondo dove ricostruire una società nuova, lo invita alla fuga dalla realtà.
Jack Sullivan, alla fine del film, non ritorna sulla Terra, il “pianeta morente” come lo descrive la sua voce fuori campo. Il pianeta morente è lì, a chissà quanti anni-luce, ormai perduto. È su Pandora che inizia una vita nuova, una vita fatta di speranza. Ed ecco di nuovo il tema principale di Avatar: la speranza liberatoria di fuga dalla realtà. L’avatar è la seconda vita di Jack, come si evidenzia alla fine del film, quando il protagonista abbandona per sempre il suo vecchio corpo umano e decide di trasferire la sua coscienza nel nuovo corpo alieno. “Si festeggia il mio compleanno”, dice giustamente Jack. Perché è l’inizio di una nuova vita. Che questa nuova vita si esplichi attraverso un simulacro che ricorda la realtà virtuale non è affatto un caso. Ognuno di noi, su Internet, sperimenta un avatar: come semplice profilo in un forum pubblico, o come identità parallela in un gioco di ruolo o su Second Life. Quest’ultimo progetto è forse l’antesignano di Avatar, perché proprio attraverso questa identità parallela l’utente “rinasce”, si costruisce una nuova vita che è sempre e comunque fuga dalla realtà. La tecnologia 3D stessa impiegata da Cameron in questo film è una “tecnica liberatoria”, per il regista in primo luogo – perché gli permette di superare i vincoli ristretti posti dal cinema all’immaginazione – ma anche per lo spettatore. Il 3D rende reale il mondo di Pandora come nessun altro mondo nato dal processo di world-building è mai stato reale. È l’avatar dello spettatore, attraverso gli occhialini ad hoc, a proiettarsi concretamente in un mondo nuovo, immedesimandosi quasi nella trama o meglio nel protagonista e nel suo essere “a cavallo di due mondi”.
Si avvera così, ottant’anni dopo la sua prima formulazione, l’attualissima profezia di Theodor Adorno sull’industria culturale: “… e tanto più facile riesce oggi far credere che il mondo di fuori non sia che il prolungamento di quello che si viene a conoscere al cinema. A partire dalla subitanea introduzione del sonoro il processo di riproduzione meccanica è passato interamente al servizio di questo disegno” (Horkheimer e Adorno, 1997). L’evoluzione degli effetti speciali ha dato ragione alle previsioni dei filosofi: l’evasione dalla realtà diventa la speranza, del tutto inconscia e irrealizzabile, non di cambiare il mondo, ma di credere che sia possibile e auspicabile vivere in un mondo creato dalla pura fantasia.
:: letture ::
— Bandirali L., Terrone E., Nell’occhio, nel cielo. Teoria e storia del cinema di fantascienza, Lindau, Torino 2008.
— Horkheimer M., Adorno, T.W., Dialektik der Aufklärung. Phisophische Fragmente, 1944, trad. it. Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1997.