L'Italia, per seguire un famoso adagio, è paese di santi, di poeti e di navigatori. Verissimo, ma si aggiunga anche di inventori.
È il Milleseicentoquarantaquattro quando Evangelista Torricelli, fisico faentino, inventa uno strumento in grado di misurare la pressione atmosferica: il tubo di Torricelli, il barometro. Invenzione senza dubbio dall’importanza gigantesca, non solo per la prima applicazione dello strumento stesso e per l’indicazione dei gradi di pressione, quanto soprattutto perché grazie ad essa, si testimonia definitivamente di una cosa che tanto fastidio avrebbe dato agli ecclesiastici porporati che uscivano già acciaccati e inviperiti dalle osservazioni di Galileo (che tra l’altro di Torricelli era il maestro): il vuoto esiste, ergo l’universo non è costantemente pieno, ergo il rapporto tra essere e non-essere è più problematico si quanto si immaginasse. Bisognava, in sostanza, fare definitivamente i conti con il vecchio Aristotele.
È il Milleottocentonovantasette quando Guglielmo Marconi, contemporaneamente al fisico slavo Nikola Tesla, mette a punto il telegrafo: le distanze sono improvvisamente abbattute da un sistema di ingranaggi ed onde radio e la comunicazione, che di lì a poco avrebbe preso ad essere uno dei mostri totemici dell’uomo moderno, attraversa centinaia di chilometri come se questi fossero pochi centimetri: due luoghi distanti diventano d’un tratto contemporanei. Bisognava, in sostanza, ridefinire problematicamente l’ontologia di spazio e tempo.
È il Millenovecentotrentotto quando lo psichiatra veneto Ugo Cerletti e quello romano esperto in elettrotecnica Lucio Bini utilizzano su un uomo, per la prima volta, la loro strabiliante invenzione: l’elettroconvulsione (Cerletti, 1940, in R. Passione, 2006). A discapito del nome così lungo e così marinettianamente moderno, la tecnica per utilizzare lo strumento era semplicissima: bastava applicare alle tempie di un allucinato, di un depresso, di uno schizofrenico degli elettrodi (a volte anche il naso e altre estremità andavano bene), tirare giù l’interruttore di una macchina a cui gli elettrodi erano collegati ed aspettare che quello che prima era allucinato, depresso o schizofrenico, s’agitasse come un’anguilla viva fuori dall’acqua. Qualche istante di estrema agitazione bastava per garantire una quiete successiva quasi irreale, un silenzio che l’allucinato, il depresso o lo schizofrenico, non sarebbero riusciti a garantire in nessun altro modo, nemmeno con le più antiche e medievali tecniche di contenzione. Magari restava loro anche un po’ di bava a scendere giù dalle labbra, magari qualcuno con tutto quell’agitarsi elettrico abbandonava le inibizioni del buon gusto e dei modi gentili lasciandosi andare al rilascio di materia interna senza chiudere la porta. Ma tutto, dicevano i due psichiatri, andava poi per il meglio: i pazzi, dopo qualche seduta con gli elettrodi piantati sulle tempie, guarivano dal loro stato morboso, e ne guadagnavano un altro, soffice, tranquillo, beato e morbido come quello degli ebeti. Insomma, alla fine dei conti nessuno, né lo schizofrenico, né il depresso, né l’allucinato, dava più fastidio.
Si disse che questa invenzione avrebbe soppiantato altri metodi di inibizione alla malattia come, per esempio, lo shock insulinico (con relativo coma ipoglicemico), quello acetilcolinico e la lobotomia. La macchina di Cerletti e Bini, infatti, si posizionava su tre diverse piattaforme d’intervento, quella economica, quella terapeutica e quella organizzativa, garantendo nello stesso momento un triplice vantaggio: risparmiare tutto il denaro che altrimenti si sarebbe speso per i farmaci; evitare ai neurochirurghi quelle scomode pratiche di asportazione della materia grigia; guadagnare tempo nell’intervento e nel risultato dello stesso. E qualcuno, qualche filantropo con il monocolo che in psichiatria non è mai mancato, sosteneva anche che il paziente stesso, rigenerato da diverse scosse di 125 volt della durata di 1/5 di secondo, applicate in sedute successive, sarebbe uscito rigenerato e rispettato in misura molto maggiore di quanto non fosse con le altre pratiche invasive. Certo, c’era il problema dell’assenso del paziente: ma perché mai chiederlo? Tanto l’allucinato, lo schizofrenico e il depresso, in quanto allucinato schizofrenico e depresso non è che avessero poi tanta voce in capitolo per raccontare la loro versione, per rivendicare il diritto al proprio corpo, per fare di sé ciò che avrebbero preferito. E non si pensi che questa crudeltà fosse solo il portato di una convinzione di una nutrita schiera di uomini in camice bianco divertiti a sezionare parti di cervello in formalina. No, c’era anche la legge (una legge scritta nel Millenovecentoquattro) a garantire che l’operato di costoro, per quanto sarebbe stato abominevole se agito su di una persona normale (cioè che matta non era), era invece più che legittimo nei confronti di chi normale, per colpa della natura e per colpa della propria inclinazione soggettiva, non lo era affatto. Questa legge sanciva l’impotenza del matto, una legge di inizio secolo che decretava l’inadeguatezza di certi uomini a fare certe cose. Il pazzo, infatti, non poteva gestire il proprio patrimonio, non poteva votare, né poteva possedere, sposarsi men che meno. In poche parole gli venivano negati, in un sol colpo, i diritti politici e quelli economici: sommando tutto questo gli venivano negati i diritti sociali.
La storia della pazzia, che poi, già quando fu inventata l’elettroconvulsione s’era già da tempo trasformata in malattia mentale, è una storia di sottrazione di soggettività, di svuotamento del sé. Una storia cominciata secoli orsono, ma giunta al suo terzo atto solo di recente.
Fortuna ha voluto, in questo modo, che in un passato un poco più vicino, mentre ancora l’elettroconvulsione risultava pratica delle più comuni, l’Italia (che s’è detto essere paese di santi, navigatori, poeti ed inventori) sfornasse una nutrita serie di nuovi uomini d’ingegno. Ma tra tutti, uno più di altri ha innescato un processo di innovazione che, senza nulla voler togliere alla maestria di Cerletti e Bini, ha forse significato un passaggio più importante di quello rappresentato dall’elettroconvulsione. Questi, uno psichiatra veneziano nato nel Millenovecentoventiquattro, reinventò un dispositivo efficacissimo nella pratica terapeutica della cura psichiatrica: la soggettività.
Seguendo un semplice quanto basilare assunto, questo psichiatra, che si chiamava Franco Basaglia, postulò che un uomo, un qualsiasi uomo (quindi anche uno schizofrenico, un depresso o un allucinato) se reso soggetto, se reso libero, poteva tranquillamente disporre di se stesso. Anche i pazzi, dunque, anche i malati di mente. Numerose sono, ad essere sinceri, le eredità che lo stesso Basaglia raccolse a destra ed a sinistra per tutta l’Europa: altri inventori come Maxwell Jones, come Ronald Laing, come Ludwig Binswanger, come David Cooper o come Hermann Minkowski, per citarne solo alcuni, hanno posto le basi affinché Basaglia potesse ben lavorare nella sua bottega di psichiatra. Con tutte queste eredità, il medico veneziano propose infatti un nuovo tipo di pensiero, ed alla base di questo pensiero stava un’evidenza: la follia e la malattia mentale, con tutte le loro dovute differenze interne, impongono, a chi ne soffre, una solidificazione della soggettività. Se, dunque, il matto riesce con difficoltà ad essere soggetto, a proporsi agli altri ed a se stesso come soggetto, la psichiatria null’altro deve fare che cercare di restituirgli questa possibilità (Cfr. per esempio, Basaglia, 2005, pp. 27-42). Strumenti come tutte le contenzioni e la stessa elettroconvulsione, sosteneva Basaglia, non fanno altro, invece, che negare tale soggettività in quanto, agendo sulla corporeità e sulla motilità del matto o del malato, ne inibiscono uno degli elementi più diretti di promozione e sviluppo dell’identità. Il malato di mente, in sostanza, veniva trattato dalla stessa psichiatria di Cerletti e Bini, come un oggetto. E questa cosa, detto per inciso, non doveva per nulla essere imputata soltanto a questi ultimi due personaggi, ma ad un sistema intero, un sistema (ed un sapere) le cui radici arrivano fino a diversi secoli addietro, se è vero che l’elettroconvulsione è solo uno degli ultimi discendenti di altri strabilianti strumenti dell’ingegno psichiatrico: si prendano, per esempio, congegni come la borsa di Horn (Cutting, 1985, p. 25), o ancora come la camera oscura, il letto orizzontale di forza, la macchina rotatoria o le urticazioni (Canosa, 1979, pp. 38-39).
Ecco allora l’invenzione sorprendente di Basaglia: la restituzione, al matto, della soggettività. Tutto qui.
Proprio l’Italia, allora, che aveva con Cerletti inaugurato un nuovo incrocio della scienza psichiatrica, pone con Basaglia la possibilità di un altro bivio, ma tra questi due innovatori, ci sono quarant’anni di progetti, di proposte, di litigi, di leggi e di sentenze, quarant’anni di tentativi e di esperimenti. Tutto accade in un secolo un po’ strano, dove la tecnica ed il pensiero si rincorrono come due bestiole divertite in un cortile. Valeria Babini (2009), che di recente ha raccolto queste vicende, ne ha fatto una storia tutta italiana perché, come s’è detto, in questo paese un po’ strano, l’ingegno di certo non ci manca. Come poi esso venga usato, beh, questa è un’altra storia.
:: letture ::
— Basaglia F., L’utopia della realtà, Einaudi, Torino, 2005.
— Canosa R., Storia del manicomio in Italia dall’Unità ad oggi, Feltrinelli, Milano, 1979.
— Cerletti U., L’elettroshock, 1940, in Passione R. (a cura di), Ugo Cerletti. Scritti sull’elettroshock, Franco Angeli, Milano, 2006.
— Cutting J., The Psychology of Schizophrenia, 1985, trad. it. Psicologia della schizofrenia, Bollati Boringhieri, Torino, 1985.