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di Roberto Paura
Un cantico per Leibowitz
nell'epoca dei millenarismi in salsa teocon 

Quando Walter M. Miller jr. pubblicò nel 1959 Un cantico per Leibowitz, le cui tre “storie” autoconclusive erano precedentemente apparse su rivista, aveva qualcosa di molto importante da dire: dopo quel romanzo, autentico fulmine a ciel sereno nel panorama della fantascienza americana, Miller non pubblicò più nulla. Il resto della sua vita lo spese a scrivere un monumentale seguito, uscito postumo in America grazie al lavoro di Terry Bisson che ne completò il manoscritto (e uscito in questi mesi in Italia dopo tredici anni con il titolo di San Leibowitz e il Papa del giorno dopo). Quella storia così urgente da raccontare nasceva, come spesso capita, da un’esperienza importante della sua vita: pilota durante la Seconda guerra mondiale, prese parte al bombardamento degli Alleati sull’abbazia di Montecassino che i nazisti avevano trasformato in base strategica per il mantenimento della Linea Gustav. Lo spettacolo della guerra che violava un sancta sanctorum della cultura europea, all’interno delle cui mura per secoli i monaci avevano preservato la conoscenza del mondo durante l’età oscura, colpì profondamente il futuro scrittore. La storia narrata in Un cantico per Leibowitz è quasi una sorta di richiesta di assoluzione per quelle vicende. La vicenda è infatti simile: la furia della guerra, la barbarie dell’ignoranza, l’azione della Chiesa nella preservazione della conoscenza nei secoli bui. Una lettura del ruolo-chiave assunto dalla religione nel medioevo per molti versi originale, tanto da far storcere il naso a molti critici riguardo la presa di posizione di Miller a favore della Chiesa. Niente di più sbagliato. Un cantico per Leibowitz non è un’opera anti-scientifica, benché apparentemente ne abbia i presupposti: la fede che permette ai monaci di superare indenni i secoli del nuovo medioevo, senza però riuscire a fermare la nuova escalation tecnologica che porterà a un nuovo olocausto nucleare, frutto dell’insensatezza adamitica dell’Uomo che non impara dai suoi errori ma torna a cogliere la mela dall’albero della conoscenza. Lettura sbagliata. Nell’opera di Miller i monaci dell’Abbazia di “San Leibowitz” sono perlopiù ignoranti timorati di Dio, i politicanti e i barbari che ne auspicano i poteri sono ugualmente zotici signorotti locali il cui unico fine è maggiore spazio vitale. Protagonista della vicenda è la conoscenza, pura e semplice; oggetto nelle mani dei personaggi del romanzo, soggetto della Storia perché indipendente dal comportamento di chi la vuole strumentalizzare.

La ripubblicazione di Un cantico per Leibowitz nella collana Urania Collezione cade proprio a proposito in un periodo in cui il post-apocalittico è di nuovo di moda, probabilmente per l’avvicinarsi dell’ennesima data messianica del 2012. Soprattutto il cinema hollywoodiano ha sfornato negli ultimi mesi diversi prodotti tra loro simili: su tutti The Book of Eli (in Italia Codice: Genesi) di Albert e Allen Hughes (Usa, 2010), ma anche Legion di Scott Stewart (Usa, 2010) e il più riflessivo The Road tratto dall’acclamato romanzo di Cormac McCarthy (Usa, 2009). In tutti domina l’importanza della fede come strumento di salvezza, metafora finale presente anche in altri film precedenti sulla stessa scia, a partire da quello che si può definire il capostipite, Io sono leggenda nella discutibile interpretazione di Francis Lawrence (Usa, 2007), passando per il recente Knowing di Alex Proyas (Usa, 2009). Una pericolosa spia della deriva evangelico-conservatrice che caratterizza l’America di inizio terzo millennio, scandita dall’emergere delle potenti lobby teocon, dalla ripresa del dibattito sul “disegno intelligente” e del più becero creazionismo. Il recupero del romanzo di Miller e del suo profondo significato emerge quindi come potente ammonimento alla pletora di deliranti predicatori che trovano, oggi come non mai, la compiacente alleanza dei grandi mezzi di comunicazione di massa.

Sarebbe tuttavia sbagliato credere di stare assistendo a una rinascita del fanatismo religioso di matrice evangelico-cristiana negli Stati Uniti. Senz’altro con l’approssimarsi del 2012 sono tornati in voga i culti New Age legati alle bizzarre teorie dell’Era dell’Acquario che adesso cercano di legittimare le loro affermazioni sulla base di presunti elementi storici o archeologici come la storia del calendario Maya. In realtà, come mostra lo studioso Emilio Gentile in una documentatissima ricerca sulla “religione americana” pre e post-11 settembre, La democrazia di Dio, la convinzione dell’avvicinarsi dell’apocalittica palingenesi è precedente al grande shock dell’11 settembre 2001. “L’incubo del millennio”, titolo di un paragrafo dello studio di Gentile, comincia ad affermarsi proprio allo scadere del secondo millennio nelle forme nuove della sindrome Y2K, quella del millennium bug che convinse il governo americano a spendere somme ingenti per allontanare l’irrazionale paura di un’apocalisse informatica. Un sondaggio Gallup del 1995 mostrava che il 61% degli adulti americani e il 71% dei giovani credeva che “il mondo fosse prossimo alla fine o alla distruzione” (Gentile, 2006). E oltre all’industria hollywoodiana, anche quella editoriale fece affari d’oro cavalcando queste paure: il libro The Late Great Planet Earth di Hal Lindsey del 1970, convinto propugnatore dell’imminente Armageddon biblico, vendette ventotto milioni di copie in cinquantadue lingue fino agli anni ’90. Ancora, secondo un altro sondaggio citato da Gentile, datato 1994, “il 61% degli intervistati [americani] non aveva dubbi sulla seconda venuta di Cristo, e di questi il 53% credeva che il mondo sarebbe finito nel Ventesimo secolo secondo la profezia biblica”. L’improvvisa rivelazione del pericolo del fondamentalismo islamico alla maggioranza ignara degli americani nel settembre 2001 ha avuto come effetto quello di consolidare la convinzione di essere entrati in una fase terminale della storia umana: una lotta tra il Bene e il Male, come la definì Bush jr. nel suo discorso sull’Asse del Male, che riproponeva quella di reaganiana memoria (anche lì si parlava di Impero del Male per definire l’URSS) e che implicitamente veicolava la convinzione che il tempo della battaglia finale fosse ormai prossimo.

Non è un caso se il tema del mondo post-apocalittico, dopo aver avuto una larghissima diffusione e fortuna tra gli anni ’50 e ’60 per la concreta possibilità di un olocausto atomico, è tornato ora di gran moda. Diversa è la metafora di fondo: il lume della ragione era l’idea-guida di molte importanti opere su questo tema di metà XX secolo (Io sono leggenda, Paria dei cieli, Il Pianeta delle Scimmie, Cronache del dopobomba, e ovviamente Un cantico per Leibowitz); oggi l’idea-guida è esattamente l’opposto, sta nella fede e nella speranza irrazionale dei protagonisti. La fede ora si pone come termine di contrasto rispetto alla scienza, considerata l’artefice della distruzione dell’umanità, in qualsiasi forma essa avvenga: tramite le vecchie bombe atomiche (oggi passate di moda), o piuttosto attraverso azzardati esperimenti biologici. Nel nuovo revival del post-apocalittico il ruolo della ragione scompare, si afferma quello della pura fede. Accade quindi che un grande romanzo positivista come Io sono leggenda di Richard Matheson si trasformi, nelle mani di un regista come Francis Lawrence (che aveva già firmato Constantine, dove la Terra diventava scenario di un grande gioco tra Satana e l’arcangelo Gabriele per evitare l’Armageddon), un pamphlet cinematografico anti-scientifico. O che il protagonista del recente Knowing, docente di astrofisica, debba fare i conti con la sua fede perduta e ritrovata, unico modo per garantire alla figlia di essere salvata da Dio e portata nella Gerusalemme celeste nell’ultima, imbarazzante sequenza del film. Sul ruolo della fede come unica salvezza per il genere umano sull’orlo della catastrofe batteva anche M. Night Shyamalan nel suo Signs (Usa, 2002), dove il pastore spretato Mel Gibson rigettava nello spazio gli invasori alieni grazie alla profezia fatta dalla moglie in fin di vita, a cui qualcuno aveva suggerito che per sconfiggere le forze del male bisognasse impugnare una mazza da baseball.

In The Book of Eli, nelle sale italiane al momento in cui esce questo articolo, la Bibbia è un’arma per la quale si battono i sopravvissuti all’olocausto atomico: l’ultima copia distrutta da chi la considerava causa dell’apocalisse è conservata e difesa da un messia-guerriero impegnato in una missione voluta da Dio affinché la fede torni a dominare il mondo. E in Legion, anch’esso attualmente nelle sale italiane, l’Apocalisse di San Giovanni si sta realizzando letteralmente sulla Terra, dove l’Arcangelo Gabriele si schiera con l’umanità contro lo stesso Dio nel tentativo di proteggere la nostra specie dall’estinzione. Controverso nel suo voler affrontare la religione nel modo semplicistico preferito dagli americani, il film è stato attaccato dai circoli teocon per la blasfemia di fondo che sembrerebbe proporre l’idea di un Dio che può essere criticato e osteggiato nelle sue scelte. Ma il pubblico è corso in massa per assistere all’ennesima storia di apocalisse. Anche lo scrittore fantasy di grido Terry Brooks nella sua ultima trilogia La genesi di Shannara (2006-2008) ambienta la storia nella Terra post-apocalittica, dove la fede è l’unica cosa a cui i sopravvissuti si aggrappano per riuscire a raggiungere la Terra Promessa, nella quale saranno protetti dall’ultima ecatombe nucleare che spazzerà via l’umanità e i demoni. Brooks non è nuovo al manicheismo fantasy Bene contro Male, ma nelle sue prime opere bilanciava il tema classico della magia con quello della conoscenza, arma contro il male del mondo. Nelle ultime opere, invece, lo scrittore sembra essersi allineato ai fervori millenaristici degli States, interpretandoli nell’ampia cornice della sua saga fantasy di Shannara.

In tutto questo, Un cantico per Leibowitz propone lo stesso tema dello scontro tra fede e scienza, sicuramente in maniera più complessa e problematica di tanti recenti film e romanzi recenti. Ma suggerisce una via diversa per risolvere il contrasto: quella di un’alleanza tra la fede e la scienza contro l’ignoranza dell’umanità. Nel monastero di San Leibowitz, attraverso i secoli che scandiscono il ritmo della storia, i monaci gradualmente riscoprono il torchio da stampa, l’elettricità, l’informatica e infine la propulsione per le astronavi. Inizialmente timorosi di avere a che fare con i ritrovati della tecnologia, apparentemente blasfemi, gradualmente ne accettano i benefici pur conservando il proprio discernimento tra bene e male. Non è quindi né la scienza né la tecnologia la causa dell’olocausto atomico, come inizialmente i monaci sostenevano; è piuttosto il cattivo uso dei ritrovati tecnologici fatto dall’uomo nella sua naturale, incontenibile e inguaribile brama di potere. La storia si ripete in Un cantico per Leibowitz, ma questa volta i monaci sanno leggerne i presagi e prendere le dovute contromisure: realizzando ed equipaggiando un’astronave pronta a lanciarsi nello spazio, dove portare sulle prime colonie umane che sfuggiranno all’apocalisse finale i frutti della conoscenza accumulati in secoli di paziente lavoro. Walter Miller realizzava così in quest’opera un vero inno al ruolo del monachesimo nel mondo medievale, così barbaramente colpito dai bombardamenti alleati della Seconda guerra mondiale.

Nel suo La civiltà dell’Occidente medievale, lo studioso Jacques Le Goff svolgeva un’uguale difesa del ruolo della Chiesa nella conservazione della conoscenza nel medioevo. In un capitolo significamente intitolato “Chiarori nella notte” scriveva delle righe che davano ragione all’interpretazione di Miller: “Ma il fulcro della civiltà dell’Alto Medioevo è il monastero, e sempre più il monastero isolato, il monastero rurale. Esso è, con i suoi lavoratori, un luogo di conservazione delle tecniche artigianali e artistiche; con il suo scriptorium-biblioteca, un deposito di cultura intellettuale… civiltà di punti isolati, di oasi di cultura in mezzo ai deserti” (Le Goff, 1964). Pare quasi di credere che Le Goff, prima di scrivere queste pagine, avesse letto il romanzo di Miller e avesse impresso nella mente l’immagine del monastero di San Leibowitz, fin dalle prime righe descritto come una cittadella nel deserto, da cui si irradierà nei secoli la conoscenza dell’umanità risorta delle ceneri. Ma nell’epoca in cui “fede” è il contrario di “scienza”, il messaggio di Miller non sarà certo recepito a dovere e la storia rischierà di ripetersi ancora, oggi come allora.

 


 

:: letture ::

— Gentile, E., La democrazia di Dio. La religione americana nell’era dell’impero e del terrore, Laterza, Roma-Bari, 2006.

— Le Goff, J., La civilisation de l’Occident médiéval, 1964, tr. it. La civiltà dell’Occidente medievale, Einaudi, Torino, 1999.

— Miller, W. M. jr., Saint Leibowitz and the Wild Horse Woman, 1997, tr. it. San Leibowitz e il Papa del giorno dopo, La Biblioteca di Profondo Rosso, 2010.

— Paura, R., Io sono leggenda da cinquant’anni, ma qualcosa è cambiato, in “Quaderni d’Altri Tempi” n. 14, maggio-giugno 2008.

— Paura, R., Segnali (poco rassicuranti) dal futuro, in “Delos Science Fiction” n. 117, settembre 2009. .

 

:: visioni ::

— Hillcoat, J., The Road, Usa, 2009.

— Hughes, A. e A., The Book of Eli, Usa, 2010, Codice: Genesi, 01 Distribution, 2010.

— Lawrence, F., I am Legend, Usa, 2007, Io sono leggenda, Warner Bros. Home Video, 2007.

— Proyas, A., Kwoning, Usa, 2009, Segnali dal futuro, Eagle Pictures, 2009.

— Shyamalan, M. N., Signs, Usa, 2002, Id., Buena Vista Home Entertainment, 2003.

— Stewart, S. Legion, Usa, 2010, Id., Sony Pictures, 2010.