Nel significativo rapporto pieno / vuoto (volume, spazio) e il mutare di prospettiva e di piani – cosa riservata al solo fotografo – c’è tutta una pittorica figurativa dello scorcio, a significare che quello che c’è ed è nel teatro-dettaglio dovrebbe evocare tutto il senso (segno) della sua globalità. Con l’indicazione di una visione scorciata, non strettamente legata all’oggetto, diventato più che referente, attraverso un’angolatura più che angolazione: il piccolo risvolto sta al tutto, segnandolo e significandolo.
Il teatro ritrovato nella singola componente, più che nella totalità, sorta di metonimia dello sguardo. Ciò che non impedisce, anzi fortifica l’evocazione, anche e soprattutto, fantasmatica di un teatro totale, proprio là dove si ferma l’attenzione sul teatro come minima dimensione di espressività. Un filo conduttore trapassa le architetture da volta a volta, da soffitte a palchi – di materia tattile, sonora, visiva, olfattiva – dalle decorazioni agli specchi, dalle corde alle stanghe: e attraverso lo scorcio, si ritrova il teatro nella sua singola manifestazione, il particolare del teatro come manifestazione quasi semantica della totalità.
Si parla di evocazione, e se il dettaglio evoca o si configura come campo lungo, onnicomprensivo, è una poetica degli scorci di rappresentazione totale quella che si impone.
Il tutto sotto forma di fantasma e non soltanto di oggetto, nel senso che è tutto quello che non si vede nella cornice di una fotografia: La vertigine del teatro di Silvia Lelli e Roberto Masotti.
Il ritaglio, la fotografia come ritaglio – solitamente rettangolare – l’inserimento della fotografia stessa in una realtà ritagliata, sì, ma molto solida; blocca in una dimensione apparentemente a due che evoca tutta una solidità intesa come esemplarità del contenuto fotografico, che proprio perché scisso da quella che potrebbe essere la realtà, diventa più forte in termini di trasmissione.
Lo scorcio delle fotografie è di per sé oggettuale – è il teatro quello che ci viene rappresentato – ma questo si può vedere naturalisticamente come dettaglio di qualcosa e, quasi metalinguisticamente, nel discorso della e sulla fotografia in quanto tale. Quasi una fotografia manifesto dello scorcio, quindi, e di tutta la fotografia in quanto ritaglio. Lo sguardo dell’occhio si configura come antefatto e moltiplicazione.
Il teatro nel suo elemento programmatico, quindi, come dimensione non esclusivamente fisica ma quasi esemplata, e sempre nella sua funzionalità. Dopo l’argomentare su quello che c’è, potrebbe forse scaturirne un discorso su ciò che non c’è, su quanto esula dalla dimensione rappresentativa, ma viene automaticamente evocato. Evocazione per assenza. Soffermando l’attenzione sul dettaglio, la sottrazione tecnica evoca – per sottrazione di quanto viene rappresentato. Sinteticamente, tutto quello che non compare è da tenere presente anche all’interno della fotografia. C’è poi il rivelarsi del pieno e del vuoto: un oggetto inserito nello spazio, circondato da forme e solidi che costituiscono il pieno, intervallato da vuoti. Il vuoto come assenza di oggetto diventa a sua volta oggetto fotografato, parte integrante, quindi, nella sua funzionalità creativa, pieno. Tutto ciò che non compare, in quanto rappresentato a mo’ di figura è comunque parte integrante della fotografia. Dunque il vuoto come rappresentativo e rappresentato, sottrazione e addizione.
L’immagine in quanto tale come ritaglio, pieno, vuoto, ma anche alterità. Intesa come immagine, quindi la partecipazione ontologica dell’immagine a sé stessa, al proprio mondo “ontologico”. Così immagine come vita altra e altra vita rispetto al reale. Partecipazione doppia: per presenza perché si rappresenta un supposto reale, per assenza perché al momento che lo si rappresenta lo si sottrae al reale stesso, lo si blocca nell’immagine. Non è più in sé stesso, nelle coordinate del reale. Da qui il senso del limite della cornice, quindi non una rappresentazione fotografica come realtà parziale, in senso spaziale, ma addirittura la fotografia in quanto tale, la realtà della fotografia come visibilità e visione. L’altro diviene, è un tutt’altro, il reale viene fantasmaticamente evocato, incluso per il tramite dell’immagine ma escluso da e con l’immagine stessa.
La foto e il reale hanno in comune il fatto che non possono esulare dal filtro dei nostri sensi. Comunque sia sono evocati ed evocanti. Si potrebbe pensare quindi a una simmetria tra reale e fotografia. Dove la partecipazione dei sensi si configura come vincolo imprescindibile di entrambe le componenti.
La riproduzione, apparentemente soltanto meccanica, di un frammento di reale colloca, in quanto alterità rispetto all’oggetto, il reale stesso in tutta un’altra dimensione. La sensorialità privilegiata è quella della vista, ma l’immagine sottende un allargamento al tutto. La fantasia passa attraverso una cornice solitamente, ma non necessariamente, rettangolare e di dimensioni variabili, che mutano e rafforzano l’identità della fotografia, appartenente al fantastico per la sua stessa natura di ritaglio in contrapposizione alla reale interconnessione di tutto.
“Borges: Mi pare sia stato Baudelaire a dire: ‘Ora che per la realtà c’è la fotografia, la letteratura dovrà essere fantastica’. In verità, anche le fotografie possono essere fantastiche” (Porzio, 1992).
Il filtro soggettivo della realtà si congiunge a quello della fotografia attraverso l’occhio di chi guarda – distacco, frammento e diaframma rispetto al reale stesso.
Oltrepassando la fissità materiale.
Struggimento e forza nella lotta di qualsiasi rappresentazione, segno di una dimensione, quasi cattura di elemento acqueo. “…è l’immagine che è pesante, immobile, caparbia (…), invece io sono leggero, diviso, disperso” (Barthes, 1980).
:: letture ::
— Barthes R., La chambre claire. Note sur la photographie, Paris, 1980; tr. it. La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 2003.
— Borges J. L., Tutte le opere, 2 voll., Mondadori, Milano, 1984/1985.
— Porzio D., Jorge Luis Borges, Studio Tesi, Pordenone, 1992.