Il jazz, com’è noto, più di ogni altro genere musicale ha vissuto e prosperato grazie allo svilupparsi delle tecniche di fonofissazione, che a partire dalla fine dell’Ottocento hanno letteralmente cambiato il modo di pensare e vivere la musica. Si fa convenzionalmente risalire al 1917 il primo disco di jazz, quando il 26 febbraio 1917 la Original Dixieland Jazz Band di Nick La Rocca incide per la Victor un 78 giri contenente i singoli Livery Stable Blues e Dixie Jass Band One Step, ma è dell’anno precedente la misconosciuta incisione in cui per la prima volta appare il termine jazz. Nel 1916 i solisti Arthur Collins e Byron G. Harlan, infatti, coadiuvati da un accompagnamento orchestrale, pubblicano per la Diamond Disc una “oscura” registrazione intitolata That Funny Jaz Band from Dixieland, che però pare avesse davvero poco a che fare con il jazz (cfr. il sito Centro Nazionale Studi sul Jazz Arrigo Polillo, all'indirizzo www.centrostudi.sienajazz.it). Certamente, almeno a partire dagli inizi del Novecento, forme più che embrionali di questa musica sono state incise sui primi rudimentali cilindri (Music & Arts Program, 2006)). Per una musica come il jazz, fortemente estemporanea, fondata sulla “improvvisazione” e la sua irripetibilità, con una scarsa confidenza nei confronti della notazione musicale, l’invenzione della riproducibilità sonora e la sua rapida diffusione è stato uno degli elementi fondamentali che ne hanno garantito lo sviluppo. Quando Thomas Edison, l’inventore del primo fonografo a cilindri e non solo (annunciò l’invenzione del fonografo a cilindri il 21 novembre 1877, dandone una prima dimostrazione pratica il 6 dicembre dello stesso anno.), trovò il modo di fissare su un oggetto mobile lo spazio e il tempo in cui quei suoni, altrimenti inafferrabili, si libravano e roteavano nell’aria in un turbinio sinestesico di danze e colori, la storia del jazz, ricca narrazione, caleidoscopio dell’umano, un linguaggio e le sue molteplici declinazioni, ha cominciato a prendere forma, se non altro dal punto di vista strettamente fono documentale.
Tra le tante vicende avvolte nella leggenda che animano quest’avvincente storia, vi è senz’altro quella di Dean Benedetti (Musica Jazz, 1974), stralunato hipster di origine toscana, hobo sciamannato e irrequieto, sassofonista a tempo perso, che nella narrazione afro-americana ha lasciato traccia di sé per aver registrato diverse live performance di Charlie Parker, utilizzando i primi “acerbi” modelli di registratori portatili: valigette in pelle con all’interno un motore, dotate di un microfono e due braccetti con puntina, il primo per ascoltare, il secondo (più importante) per incidere direttamente sul disco di cera. Erano passati una ventina d’anni dall’avvento della registrazione elettrica che aveva soppiantato quella fonografica. Risale infatti al 1925 entrata in commercio dei primi dischi registrati con strumentazione elettrica Western Electric sviluppata dalla AT&T (American Telephone and Telegraph Incorporated) nel corso dei 10 anni precedenti. Una tecnologia che, quando Benedetti cominciò a operare, era ancora ad uno stato “primordiale”, alla vigilia del successivo travolgente progresso della tecnica, che a partire dai primi anni Cinquanta porterà rapidamente dall’Lp alle odierne generazioni dell’Ipod. Dean Benedetti, a modo suo, era uno sperimentatore, un coraggioso pioniere della registrazione.
Si dice che Dean, rimasto folgorato dalla rivoluzione musicale parkeriana, che in un lampo aveva “sbriciolato” la lezione di maestri fino a quel momento insuperabili come Coleman Hawkins e Lester Young, abbia cominciato a seguire ovunque, come un’ombra, il geniale sassofonista di Kansas City, con il quale strinse anche una sincera amicizia, per carpirne gli arcani segreti, per fissare in eterno le sue iperboliche evoluzioni musicali. Un modo per cristallizzare quell’esuberante espressività costruita su intervalli impossibili, frasi impazzite e spezzate che nascevano da vertiginosi arpeggi a sfrenata velocità su accordi impensabili. Ma anche un escamotage per brillare di luce riflessa, per custodire nel taschino una manciata di prodigiosa luminescenza. Benedetti aveva evidentemente capito prima di altri quanto il jazz sia una musica “audiotattile”, come sostiene il musicologo Vincenzo Caporaletti (cfr. Quaderni di Musica/Realtà 54). E cioè un espressione artistico-musicale il cui unico testo di riferimento, sola fonte cui attingere per un irrinunciabile confronto, è rappresentato dalla registrazione e in particolare dall’oggetto disco. Un indissolubile rapporto tra materiale e immateriale, tra corporeo e incorporeo, che potrebbe mettere d’accordo filosofi e teologi per una nuova teosofia della trascendenza. Caporaletti parla anche di “codifica neo auratica”, definizione che intende il disco come opera d’arte provvista di un’aura, un codice sonoro, a partire dal quale è possibile creare ulteriori opere d’arte che da quella codifica abbiano preso spunto. Uno strumento, quindi, che ha agevolato sensibilmente la trasmissione di una cultura orale come quella jazzistica, favorendone la costante reinvenzione (ibidem, cfr, anche Zenni 2007). Anche questo Dean Benedetti aveva intuito, ma senza riuscire a ricavare da quei ripetuti ascolti nessun altro capolavoro. Pare che Dean registrasse solo gli assoli di Charlie Parker e che per alcuni anni questa fu la sua maniacale ossessione: raccogliere frasi, abbozzi, frammenti di senso della musica del grande sassofonista per averli costantemente a portata di mano. Una personale ricostruzione dadaista del linguaggio parkeriano, una teoresi dell’anacoluto o del volo pindarico che ben si armonizzava con la frenetica modernità urbana che il be-bop metteva in scena e con la continua drammatica dialettica tra lucidità e follia nella vita di Parker. Una dialettica che forse ha trovato la sua più estrema e disperata sintesi nella memorabile, balbettata, stentata e aporistica versione di Lover Man che Parker incide a Los Angeles per l’etichetta indipendente Dial nel luglio del 1946 (ESP Disk, 2009).Un documento di inestimabile valore che definisce e connota il disco nelle sue molteplici proprietà: un oggetto-testo che è un saggio, un romanzo, un libro di storia, una personale testimonianza esistenziale, uno spettro stratigrafico, l’indicatore sonoro di un complesso e articolato fenomeno culturale, capace in pochi minuti di mettere a fuoco lo stato dell’arte del jazz in quel preciso momento storico. Per anni, in realtà, è esistito il forte dubbio che quel “Santo Graal” sonoro, le matrici di Dean Benedetti, esistesse davvero o fosse solo il parto della fantasia di qualcuno della cerchia attorno a Parker. Matrici famose tra gli appassionati quasi come il leggendario cilindro mai trovato inciso (o forse no) nel 1898 da Buddy Bolden (1877-1931), il leggendario cornettista di New Orleans, considerato il primo band-leader a suonare quella musica improvvisata che più tardi sarebbe stata conosciuta come il jazz (a proposito del favoleggiato cilindro cfr. anche www.centrostudi.sienajazz.it).
Una questione, infine, risolta dalla Mosaic Records che qualche anno fa ha pubblicato per intero tutte le registrazioni di Dean Benedetti, recuperate chissà come e chissà dove (Mosaic Records, 1990). Per carità, niente di eccezionale: Benedetti non è stato il solo a catturare al volo le visionarie note parkeriane, ma senz’altro la sua storia è giunta fino a noi con un anelito di fascino, mistero e romanticismo in più che altre non hanno conservato. E non certo grazie agli storici del jazz, per i quali la sua figura è sempre stata considerata marginale, appena abbozzata e avvolta nella nebbia più fitta. Benedetti è ricordato nei libri di storia semplicemente come colui che a Los Angeles mise Bird in contatto con il famoso “Moose The Mooche”, lo spacciatore a cui Parker decise di devolvere metà degli incassi derivanti dal suo recente contratto con la Dial (Polillo, 1998).
E invece Dean Benedetti è stato un personaggio vero e autentico, malinconico e indolente, esistenziale e sfuggente, cui è necessario tentare di rendere omaggio. Lo fa in un breve e intenso romanzo, intriso di struggente malinconia, vero e proprio atto d’amore nei confronti del jazz e di tutti i suoi protagonisti, lo scrittore romano Vittorio Giacopini, già artefice di un precedente bel libro dedicato a John Coltrane. Stiamo parlando de Il Ladro di Suoni, testo in cui l’autore ricostruisce alla sua maniera la sofferta vicenda dell’italo-americano, intrecciandola a quella drammatica di Charlie Parker e alla sfumata fotografia dell’America di quegli anni: un’America “on the road” spietata e dolente fatta di grandi metropoli e desolati spazi, l’America raccontata da Jack Kerouac, Ralph Ellison, Woody Guthrie.
Dean Benedetti morirà in Versilia (giovane vecchio) nel 1957, un paio d’anni dopo la prematura scomparsa di Charlie Parker nella casa di New York della famosa baronessa “Pannonica”, che qualche anno più tardi assisterà anche agli ultimi giorni di vita di Thelonious Monk. Era tornato, da americano, segnato da un profondo fallimento esistenziale, nella terra dei suoi avi per fuggire da tutto e rifugiarsi stanco a Torre del Lago, vicino alle rive del lago di Massaciuccoli. Muore a soli trentacinque anni la mattina del 20 gennaio 1957 presso l’ospedale di Pisa a causa di una broncopolmonite, che ha avuto la meglio sul suo fisico ormai minato dallo smodato uso di stupefacenti. La stessa malattia che, per ironia della sorte, due anni prima aveva posto fine alla vita di Charlie Parker, anch’egli trentacinquenne. Qualcuno racconta che con sé avesse stipate in un baule le famose matrici, oppure no, non ha importanza. In quei tardi anni Cinquanta il jazz stava per compiere decisivi balzi in avanti, voli che avrebbero portato quest’arte povera al di là di ogni possibile immaginazione. Ma su quel lembo di riviera toscana, intanto, un’epoca si chiudeva per sempre. Altri avrebbero continuato a coltivare quella fonofissazione che aveva così profondamente segnato la vita di Dean Benedetti, fuligginoso “angelo della storia” alla ricerca del paradiso perduto.
:: letture ::
— Caporaletti V., I processi improvvisativi nella musica. Un approccio globale, LIM (Quaderni di Musica/Realtà 54) Lucca, 2005.
— Giacopini V., Il posto della libertà. Breve storia di John Coltrane, E/O, Roma, 2005.
— Polillo A., Jazz, Mondadori, Milano 1998.
— Zenni S., I segreti del jazz, Stampa Alternativa, Viterbo, 2007.
:: ascolti ::
— AA.VV. (by Allen Lowe), That Devilin’ Tune 1 (1895-1927), West Hill Radio archivi, WHRA-6003 (9), Music & Arts Program, 2006. Primo di una serie di 9 dedicati alla storia del jazz dal 1895 al 1950.
— Parker C., Bird in Time 1940-47, ESP Disk 4050, 2009.
— Parker C., The Complete Benedetti Recordings of Charlie Parker, Mosaic Records, 1990.