All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro?
Ugo Foscolo
I molteplici mondi possibili degli infiniti multiversi
dickiani, generati da un’articolata riflessione storica,
incrociano le vicende americane della seconda metà del
Novecento, per accostarsi a una dimensione metafisica, dissolvendo ogni
espressione terrena di arbitrio nella tenace opera di fagocitosi che
satanicamente corrode materia ed energia.
L’individuale
reazione superomistica all’avvenire di estinzione cui siamo
condannati, urlata in opere che si incastonano nella parabola
psichedelica della fertile attività creativa dickiana,
è percorsa da una potente tensione vitale, così
disperatamente forte, ma anche così tragicamente lucida, da
prevedere l’efferato ribaltamento del rimando di vita nel suo
ineludibile contrario. La volontà di dispiegamento
illimitato della potenza, manifestata grazie all’espansione
percettiva, allo sconfinamento sensoriale, all’eccitata
frenesia, alla dismisurata vitalità,
all’esaltazione del rimosso, esprime il desiderio di
ritrovare un’autenticità arcaica, primordiale,
negata all’uomo moderno da secoli di storia, da
un’alienante e reificante realtà consuetuamente
esperita, quotidianamente subita, che impone un sofferto trapasso senza
riscatto.
La riscoperta di
un’originalità mortificata è perseguita
paradossalmente grazie all’artificialità
esperienziale, cognitiva e simbolica, e alla creazione di
personalità sintetiche, alterate, che, nella pertinace
operazione di disseppellimento della natura nascosta, finiscono invece
per rendersi simili a entità meccaniche, reflex machine,
macchine dotate di riflessi, in grado di fornire soltanto reazioni
automatiche, scontate, prevedibili, risposte da androide, derivate
dall’attivazione di un determinato numero di bit. Ed
è proprio nella figura del simulacro, metafora del
progressivo processo di assimilazione fra organico e inorganico, che si
dibattono i conflitti di un uomo sempre più accanito nella
lotta sferrata alla propria finitezza, nella battaglia combattuta
all’invalicabilità del proprio limite. In Do
Androids Dream of Electric Sheep? (Dick 2000) il dolore
generato dall’impotenza, dall’incapacità
di estendere la durata dell’esistenza, è umano,
troppo umano per appartenere esclusivamente alla fondamentale
elettronicità delle unità cerebrali Nexus-6
prodotte dai laboratori Rosen. Il tormento è troppo
sconvolgente per indurci a ritenere che torturi solo una vita affidata
ad un congegno e che non si inoltri fino a scuotere
quell’abisso dell’interiorità agitato da
radicate paure, insondabili timori, istintuali pulsioni, tensioni di
un’umanità che progredisce per sconfiggere la
propria debolezza. L’inorridito volto smaterializzato,
sommerso da uno spasmodico grido di terrore, ritratto nel celeberrimo
dipinto munchiano, L’urlo, raffigura splendidamente, come
è sottolineato in un passo del romanzo, la misera condizione
delle creature artificiali, costrette a mascherare penosamente o a
scoprire miseramente la difficile riconoscibilità della
propria essenza, mistificata da falsi ricordi e da sogni improbabili,
da un passato fittizio e da un futuro illusorio. Gli androidi sono
destinati all’inevitabile dipendenza da una tecnologia che
crudelmente non può non animarsi, non riscaldarsi,
infuocando parvenze di passioni, infiammando possibilità di
sentimenti, incendiando potenzialità di desideri, e
producendo un senso di attonito disorientamento, di atterrito
smarrimento di fronte all’improrogabile condanna. Il destino
di dissoluzione ingloba l’intera realtà cosmica,
incontrovertibilmente votata alla frantumazione, alla trasformazione in
kipple, la palta formata da un gigantesca massa di particelle di
polvere radioattiva e di frammenti infiniti di detriti, che, ammantando
la crosta terrestre, e insinuandosi minacciosamente nei suoi anfratti,
ne distrugge i pieni e ne riempie i vuoti. La sorprendente
capacità analitica di Dick nell’approfondire le
antiche questioni dell’uomo di fronte a un universo che
progressivamente assume tratti sempre meno consueti e la sua indubbia
abilità nello scandagliare la sensazione di spaesamento
spazio-temporale che affligge la nostra condizione ci inducono ad
accomunare le volontà negate dei sofisticati esemplari di
unità Nexus-6, infiltratisi illegalmente sulla Terra, ai
timori rimossi degli umani da cui essi sono braccati. Dick vuole
illuminare un’oscurità solcata da creature
artificiali, tossici abbrutiti, esseri deevoluti, tutti kipple viventi,
residui organici o rottami meccanici, debolmente striscianti, ammassati
in un mondo che altro non è che la versione allegorica del
nostro, intangibile nel suo mistero, imperscrutabile nella sua
indecifrabilità, segnato indelebilmente dal crollo
dell’ordine razionale e stretto dalla morsa entropica che
tutto stritolerà.
Eppure si afferma tenacemente una
forza contraria al potere demolitore costantemente in azione, che si
appiglia, di volta in volta, ad ancoraggi di natura scientifica,
filosofica o teologica, o semplicemente ad espedienti letterari,
epifenomeni di un oceano inconscio, buio e tempestoso, sul cui fondo
scalpitano sogni, tormenti e ricordi indistruttibili. Impulsi nebulosi,
regressivi, imperituri sembrano dibattersi nell’ubikiana
semivita, popolata da morti viventi congelati in
“moratoria”, sfera che presenta le sembianze
sfuocate dell’indefinito, i contorni sbiaditi di
un’esistenza sospesa, metafora di ciò che
disperatamente resiste alla sua stessa fine. Flebili palpitazioni,
turbinii di misteriosi pensieri, sconnessi e disarticolati, brandelli
di coscienza, avanzi di memorie, fluttuanti sensazioni, fumose visioni
abitano la gelida immobilità che caratterizza il kipplizzato
orizzonte di non-morte, delineato in Ubik (Dick
1999), un mondo che declina, riportando alla superficie fasi passate di
una realtà che smarrisce il suo sostegno interno, rifluendo
verso forme arcaiche, soprattutto quando i legami con tale
realtà sono ancora molto forti, e l’universo
indugiante viene trattenuto come carica residuale della mente e vissuto
come un ambiente apparentemente reale, ma fortemente instabile, privato
del supporto di qualsiasi struttura ergica (Dick 1999, p. 135). La
regressione temporale delle elaborazioni degli artefatti,
contro-processo che fa riaffiorare gli stadi primitivi delle
configurazioni materiali, sovverte ogni criterio di logica successione,
peraltro già irrimediabilmente spezzata in Counter-Clock
World (Dick 2001), che capovolge il continuum del ciclo
biologico, invertendo la naturale sequenza degli eventi nascita-morte.
Il
romanzo, costruito intorno alla Hobart Phase, ribalta la direzione del
tempo, che appare non più solo disarticolato, scardinato,
fuori squadra, out of joint, ma upside down, rigirato (Pagetti 1983, p.
173), cosicché i morti resuscitati possono rivivere
all’indietro il già vissuto, dalla tomba
all’utero. Alcune ditte specializzate, i
“vitaria”, si occupano di prelevare i defunti,
ritornati al mondo, da cimiteri trasformati in magazzini di vita,
serbatoi di anime in procinto di risvegliarsi dalle maligne tenebre,
depositi che custodiscono sottoterra la vita nascente pronta a
riattraversare, in senso inverso, le varie fasi
dell’esistenza già trascorsa. A ritroso
è vissuto anche il periodo della gestazione: “Le
madri, nove mesi dopo che un bambino era entrato nel loro utero,
diventavano… in calore […], era una
necessità biologica; lo zigote si doveva scindere in sperma
e uovo” (Dick 2001, p. 135). Sembra non essere già
così lacerante la vocazione alla sterilità che
serpeggia nelle pagine dickiane: “Nove mesi l’ho
tenuto, mentre diventava giorno dopo giorno sempre più una
parte di me; è una sensazione meravigliosa, lei non ha idea
di come ci si sente mentre un’altra creatura, una creatura
che si ama, si fonde molecola dopo molecola con le tue stesse
molecole” (ivi, pp. 133-134). In realtà
è già affermata la volontà di
azzeramento della potenzialità creativa propria del
concepimento, che si convertirà in negazione di ogni
principio di vita: “Mi sento solo come morta e svuotata
[…]. Forse sono incinta” (Dick 1997, p. 266). In In
Counter-Clock World, infatti, l’attimo della
fecondazione è il momento conclusivo di
un’esistenza che ha già compiuto il suo ciclo e
che reperirà proprio nel suo incipit
l’ineluttabile fine: dalla morte ci si può
risvegliare, ma nel principio primo della vita si incontra il termine
ultimo, che occlude ogni spiraglio, sigilla ogni apertura, nega ogni
riconversione, nella chiusa circolarità di un percorso
avvitato claustrofobicamente su se stesso, nell’assoluta,
soffocante coincidenza di realizzazione originaria e annientamento
finale, di regressione embrionale e rattrappimento cadaverico.
Il
fosco paesaggio sepolcrale fa da sfondo al divenire e al suo ciclo
perpetuo di produzione e di distruzione, al prepotente, operoso
dissidio di un processo che promuove la nostra nascita e ci divora
senza tregua. È nel trasformare il futuro in passato, nello
scompaginare l’ordine degli accadimenti che si riesce a
cogliere l’impulso febbrile proteso a rivitalizzare
l’esanime, a ricostituire il corrotto, a ricomporre
l’infranto. Una tensione ontologica, manifestazione di
pulsioni profonde, si riflette sul piano epistemologico, intrecciando
un inscindibile nodo tra processi e rappresentazioni, natura e
metafisica, esistenza e conoscenza, essere e scienza, e riaccendendo
una dialettica che non si estingue nell’implosione della
polarizzazione vita-morte, nella cinica e crudele inconsistenza di un
tempo inafferrabile. Se le categorie di spazialità e
temporalità consentono la costituzione
dell’identità soggettiva attraverso la nostra
collocazione in un particolare flusso storico e il nostro inserimento
in una determinata costruzione sociale,
l’inabilità umana ad esercitare un controllo su
spazio e tempo sollecita Dick a divellere tali coordinate, a divertirsi
nel moltiplicarle o dissolverle, per approdare perfino alla
reversibilità dei processi, alla reiterazione dei percorsi,
alla ripetizione di uno sviluppo già completamente dipanato.
Nelle
riflessioni dickiane, dotate di un’intima coerenza,
proliferano potenti risonanze filosofiche, che, pur senza giungere a
una conoscenza approfondita, attraversano la cultura sapienziale
buddista, la gnoseologia scettica di tipo analitico-humeano (cfr. Di
Costanzo 1990), la dottrina della percezione kantiana, lo spirito
anti-idealistico dello storicismo critico, ancorandosi, in Counter-Clock
World, alla profondità speculativa della
tradizione teologica occidentale, cogliendo il motivo ispiratore di
specifici studi, rielaborandone i precipitati, ereditando
l’intelligenza, la sensibilità e
l’intuito di pensatori illuminati. “La materia
stessa, indipendentemente dalle forme che assume, è al tempo
stesso invisibile e indefinibile. Scoto Eriugena” (Dick 2001,
p. 95): se lo spazio, mai corrispondente, almeno
nell’infinitamente piccolo o nell’infinitamente
grande, alla sua apparenza, ridelinea continuamente i suoi contorni, il
tempo, disperso nella molteplicità informe degli istanti,
sfugge inesorabilmente. “Ma non si è ancora
raggiunto il domani e si è già perso lo ieri. E
la vita di oggi non è più lunga di
quell’attimo fuggevole e transitorio. Boezio” (ivi,
p. 183): la tragedia cosmica della natura riconduce
all’irrevocabile trascorrere dei giorni, sospendendo
l’uomo tra il terrore del nulla e l’ambizione al
raggiungimento della conoscenza ultima. “Tali pensieri
meditava il mio misero cuore, oppresso dai più tormentosi
affanni, per paura di dover morire prima di aver scoperto la
verità. S. Agostino” (ivi, p. 201):
nell’inquietudine della sua finitezza l’uomo
ricerca la purezza, la perfezione e l’immutabilità
dell’Essere, solo parzialmente carpito. Il sapere non
è mai assolutamente esatto per non dover accogliere
ripensamenti, assecondare riadattamenti, accettare accomodamenti,
così come l’esistenza non è mai
perfettamente definita da non presentare contorni da infrangere,
barriere da oltrepassare, che Dick collega a forme di vita altre,
altalenanti fra mondi diversi, in bilico fra passato e futuro, fra
organico e meccanico, fra natura e artificio, espressioni di un
costante slittamento dei confini, di una progressiva dissoluzione delle
differenze nell’indistinzione di umano e oltreumano. E se
Seth Morley, nelle pagine finali di A Maze of Death
(Dick 1994), riconoscerà nell’esito letale
l’unica speranza di salvezza, il suo pensiero sarà
subito contraddetto dal gioioso entusiasmo di Mary Morley:
“Una nuova vita […]. Nuove
responsabilità e avventure eccitanti. Mi piacerà
Delmak-0?, si chiese. Sì. So che mi
piacerà” (Dick 1994, pp. 197-198). Anche in questo
romanzo, dunque, si riconfigura una direzione, si ridisegna una
destinazione, ricompare una meta già raggiunta, per quanto
illusoriamente, all’interno dei mondi poliencefalici, dove
ciascun personaggio, saldamente ancorato al proprio cubicolo, con
cilindri di fili multicolori innestati sul capo, ricoperto
dall’oscurità, può esperire
un’idiosincratica realtà, vivendo vite
artificiali, nella reiterazione convulsa di un ingannevole trip
ripetuto all’infinito.
Il viaggio del protagonista
di Counter-Clock World segue un percorso circolare,
che inizia e si conclude nel piccolo cimitero di Forest Knolls, fra
fiori rinsecchiti ed erbacce ammuffite, mentre le ombre della notte,
regnanti nell’entropico tomb world, avvolgono Sebastian
Hermes e il freddo tagliente, penetrato fin nel suo cuore, lo
attanaglia. Scrutando nell’oscurità, scorgiamo
questo eroe senza gloria, coperto di polvere, intento a scavare, per
far sgorgare la vita dalla fossa, tra le macerie prodotte dal
catastrofare del tempo avido e rapace. Mentre osserviamo il suo volto
contratto non possiamo non pensare a un’altra icona dickiana
del dolore, l’inebetito Bruce di A Scanner Darkly
(Dick 1998), che, in ginocchio, contempla attonito il sorgere, questa
volta, della morte dalla terra, il suo spuntare insieme
all’azzurro “fiore del futuro” (Dick
1998, p. 327), la Substance Death, la droga che dissemina degenerazione
e disperde vita. “Sic igitur magni quoque circum moenia mundi
expugnata dabunt labem putresque ruinas” è scritto
sul monumento dell’Anarca Thomas Peak di Counter-Clock World,
il profeta carismatico, il messia che avrebbe dovuto salvare il mondo
con la sua rinascita, e che gli uomini hanno crudelmente ucciso. Hermes
non comprende alla fine il significato dell’iscrizione, non
trova un senso che spieghi le sventure, che plachi la sofferenza, che
attenui lo sconforto. Ad un tratto, però, il gelido silenzio
sembra sciogliersi, frantumato dal mormorio confuso del ritorno alla
vita, l’eccitato balbettio, indistinto e lontano, dei
redivivi: “ -Hanno bisogno d’aiuto - disse
Sebastian […]. -Non ne ho sentito uno solo questa volta, li
ho sentiti tutti- Non aveva mai sentito nulla del genere. Mai.
Così tanti tutti in una volta, tutti insieme”
(Dick 1998, p. 259). E seppure Hermes non riuscirà a
cambiare il corso dell’umanità, né ad
essere ricordato in eterno come il titolare del vitarium Fiasca della
Grande Los Angeles, perché rivelatosi incapace di salvare
l’Anarca risorto, seppure sarà destinato ad essere
cancellato dalla storia, dopo aver distrutto le nuove basi di una
nascente teologia mondiale, continuerà comunque ad assistere
al travaglio della rinascita, a testimoniare la realizzazione
dell’avvertimento di Paolo di Tarso, costante riferimento
nell’opera dickiana, il risveglio dalla morte del Cristo,
primizia di tutti coloro che si sono addormentati, e lo farà
nel modo più nobile per un essere umano, compartecipando a
una sofferenza e adoperandosi per attenuarla, ricercando la vita
nell’annullamento di un dolore corale, contraddicendo
l’ultima verità dell’incomprensibile
epitaffio, interrompendo l’infinità del grande
riposo. “Sum tu, pensò [...]. Io sono te, per cui
quando tu muori, muoio anch’io. E finché io sono
vivo tu continui a vivere. In me. In tutti noi” (ivi, p.
244): con questa riflessione Sebastian scrolla gli ultimi residui,
reali e metaforici, dell’umido terriccio della tomba dai
corpi inerti, soffiando la vita in essi, riaffidando loro un compito,
riconsegnando loro un’anima. “Ma come possiamo
misurare il presente vedendo che non ha spazio? Lo si misura mentre
passa; ma quando sarà passato non si potrà
misurarlo, poiché non ci sarà niente da misurare.
S. Agostino” (ivi, p. 209): se il passato non è
più, è però nell’anima che
persiste la memoria del tempo trascorso, e se il futuro non
è ancora, è sempre nell’anima
che insorge il desiderio di ciò che l’avvenire
potrebbe riservare. È dunque nell’anima che si
riesce a fissare la caducità di un tempo altrimenti
ingovernabile, trattenendone l’inarrestabile corsa, ed
è nel gioco di dissolvenze, così tipicamente
dickiano, in cui alla realtà si sovrappone
l’illusione e alla morte si sostituisce la vita, che, forse,
intravediamo ciò che veramente Dick tenta di dirci con
questo romanzo permeato del senso dell’attesa, scosso dagli
effetti macabri e grotteschi di un capriccioso processo siderale.
“Hanno bisogno d’aiuto” suggerisce
accoratamente il rabdomante dei vivi, battezzato da Dick come il dio
greco che accompagnava le anime dei defunti nell’Ade e che fu
concepito, in un tempo molto antico, come divinità ctonia,
oltre che dei morti, della fecondità, della terra e delle
forze potenti che la animano. Hermes, evocando, dunque, con il suo
nome, significative contraddizioni, esorta a prestar attenzione, a
condividere empaticamente gli affanni altrui, a prendersi cura del
prossimo, tesaurizzando un altro insegnamento paolino, il perseguimento
dell’agape, la carità, qualità che lo
stesso Dick si preoccupa di far guizzare nelle batterie ad elio dei
suoi robot, quasi a volerne contrastare l’assenza nei cuori
umani. “Tu e io, quando argomentiamo, ci compenetriamo
l’uno nell’altro. Quando infatti io comprendo
ciò che tu comprendi la mia mente si fonde con la tua, e in
certo qual modo ineffabile mi compenetro in te. Scoto
Eriugena” (ivi, p. 87): la religione dell’illusione
si traduce così in religione della realtà fondata
sul culto delle virtù, trasformando il canto della morte in
elegia alla vita, tramutando il tempo cangiante in condivisa dimensione
dell’esistere e la durata sincopata in una serie di ritmi che
concatenano terreni vissuti individuali. Il prestar attenzione alle
cose presenti, il rivolgere la mente all’hic et nunc
dell’oggi, e a quanto esso ci richiede, con il suo portato di
pene e afflizioni, con il suo carico di responsabilità, ci
permette di rinascere nella solidarietà, di non irrigidirci
in un passato che non è più e di non disperderci
in un futuro che non è ancora, ma di fissare
l’istante, protraendo l’Augenblick di un tempo che,
da successione desolatamente disgregata, si converte in sensata
unità di un eterno presente in cui nulla sembra trapassare.
L’avventura letteraria dickiana, sempre aperta a
nuove soluzioni, disposta a rischiarare inesplorati risvolti, tesa a
svelare i profili di universi probabili, varca la sottile soglia del
sensibile, per sondare l’invincibile invisibile. Dick,
cercando incessantemente la ragione profonda che ci lega alla nostra
sorte, urla la sua fede dolente non nella resurrezione dei corpi,
bensì nella condizione di una storia che non procede
seguendo un senso unitario, poiché ogni esistenza singola,
in ogni suo attimo, deve trovare tutto il suo senso in sé.
Scompaginando gli ordini stabiliti, sconvolgendo gli itinerari
prefissati, moltiplicando i tragitti possibili, il sentire dickiano
rifiuta l’idea di un divenire ascendente e cumulativo, nel
quale ogni evento risulta essere il diretto precipitato di una crescita
rispetto al passato e la condizione di uno sviluppo futuro. Ben lontana
da una visione storica unilineare in senso verticale, tale world view,
conferendo problematicità alla nozione
dell’esistente come sequenza di avvenimenti proiettata
finalisticamente verso un risultato, dissolve ogni pretesa di tipo
assolutizzante, collocando il disincantato Occidente, razionalizzato e
intellettualizzato, non più al culmine di una vicenda di
progresso. Dick non interpreta la realtà come manifestazione
graduale di un escatologico realizzarsi storico, né il
progresso come suggello di una Weltanschauung pervasa
dell’illusione di certezze inconfutabili. Non è
dato reperire nei suoi complicatissimi romanzi alcuno stereotipo
tardo-positivistico di glorificazione tecnologica, ma, aggirandoci
nelle cupe atmosfere delle distopiche metropoli del suo futuro e del
nostro presente, si scorgono degli spiragli, dei varchi dischiusi nei
catastrofati landscape, che, attraverso i capovolgimenti di prospettiva
e i finali aperti, ci permettono di penetrare in mondi probabili,
pronti a ricostituire significati, a correggere soluzioni, a
rielaborare interpretazioni, grazie a un soggetto che si riappropria di
una consapevole individualità e di una responsabile
libertà.
La negazione di una teoria totalizzante comporta una costante
ridefinizione dei limiti di una visuale che, nell’intreccio
di analisi storico-politico-filosofica, idiosincratica
rifunzionalizzazione religiosa ed elaborazione di immaginario, come un
complesso e sconfinato sistema di linkage, si mostra finalizzata a
inattese connessioni, a insospettate ramificazioni. “Poi
oltrepasserò anche questo limite della natura, innalzandomi
per gradi fino a Colui che mi ha creato. E giungerò ai campi
e agli ampi palazzi dei miei ricordi. S. Agostino” (ivi, p.
217): Dick riarticola la dottrina della conoscenza come rimembranza,
anche attraverso il richiamo, in altri punti della sua opera,
all’anámnesis platonica, che allude alla perdita
dell’amnesia, all’annullamento della dimenticanza,
al recupero della memoria delle proprie origini, rievocando un
più autentico sapere e incrociando il tempo
all’attività della coscienza, misura delle
vicissitudini dell’anima, con le sue reminiscenze e con le
sue proiezioni.
È l’alitare della pietas
sull’impenetrabile mistero universale a sollevare
l’uomo dall’epica vicenda del cosmo verso
l’assoluto, placando l’ansia di una ricerca che non
si arresta di fronte alla soglia fluttuante del confine, ma ne fa la
sua linea di partenza, rilanciando sfide, rinvigorendo le energie
intrinseche della speculazione, conciliando le dicotomie, mentre
l’infinito sfuma nel finito, il provvisorio interseca
l’eternità, l’individuale sparisce
nell’universale, e la morte, che non uccide fino in fondo la
vita, trasforma la fine nel principio di un tempo nuovo.
:: letture ::
— Dick, P.K., Counter-Clock World, 1967, trad. it. di P. Prezzavento, In senso inverso, Fanucci, Roma, 2001.
— Dick, P.K., Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968, trad. it. di R. Duranti, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, Roma, 2000.
— Dick, P.K., Ubik, 1969, trad. it. di G. Montanari, Ubik, Fanucci, Roma, 1999.
— Dick, P.K., A Maze of Death, 1970, trad. it. di V. Curtoni, Labirinto di morte, Fanucci, Roma, 1994.
— Dick, P.K., We Can Build You, 1972, trad. it. di G. Montanari, Abramo Lincoln androide, Fanucci, Roma, 1997.
— Dick, P.K., A Scanner Darkly, 1977, trad. it. di G. Frasca, Un oscuro scrutare, Fanucci, Roma, 1998.
— Di Costanzo G., Appunti su Philip Kindred Dick, in La parola abitata, aprile 1990.
— Frasca G., La scimmia di Dio, Costa & Nolan, Genova, 1996.
— Frasca G., L’oscuro scrutare di Philip K. Dick, Meltemi, Roma, 2007.
— Nietzsche F., Unzeitgmässe Betrachtungen, Zweites Stück: Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, 1873-76, trad. it di Giametta S., Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano, 1973.
— Pagetti C., Quando i morti si risvegliano: il mondo alla rovescia di Dick, 1983, in Viviani-Pagetti 1989.
— Pagetti C., Quando i mostri si svegliano, in Ph. K. Dick, In senso inverso, Fanucci, Roma, 2001.
— Ronchetti E., Postfazione, in Ph. K. Dick, In senso inverso, Fanucci, Roma, 2001.
— Viviani G – Pagetti C., (a cura di) Philip K. Dick. Il sogno dei simulacri, Editrice Nord, Milano, 1989.