Il poeta è un fingitore. Finge così
completamente che arriva a fingere che è dolore
il
dolore che davvero sente Fernando Pessoa
Il realismo visionario e metaforico dei
dipinti di Lynn Randolph reinterpreta simboli, icone, miti,
rappresentando i processi materiali, percependo le spinte di
un’ineludibile mutazione antropologica, decifrando le inedite
realtà affiorate nel mondo natural-culturale e preconizzando
il modello dell’umanità futura.
Quest’artista outsider, come lei stessa ama definirsi,
ispirandosi a suggestioni letterarie e a riflessioni filosofiche, a
vette della teoria estetica e ad espressioni della cultura popolare,
delinea le relazioni di scambio intercorrenti tra le esperienze del
politico e la rappresentazione sociomorfica del cosmo, per sottolineare
l’estrema difettività dell’uomo,
costitutivamente estraneo a un mondo privo di senso oggettivo.
La
Randolph coniuga splendidamente, nella magia del quotidiano
tratteggiato, del sogno raffigurato, degli oggetti rappresentati,
l’influenza della pittura del tardo Medioevo e del primo
Rinascimento all’influsso di artisti come Man Ray, Frida
Kahlo, Remedios Varo. Fonde, inoltre, il richiamo perturbante della
scrittura spettacolarizzata di autori come Edgar Allan Poe
all’eco di romanzieri come Philip K. Dick, James G. Ballard,
Thomas Pynchon e di registi come George Romero e Ridley Scott,
adombrando, sulla falsariga dell’eterogeneo punk cibernetico,
i tratti che definiscono l’ipercontemporaneo media
landscape.
Ricalcando i percorsi di una tecnica che
rilancia ossessivamente il proprio limite, la pittrice coglie il
pericolo che le dinamiche di decentralizzazione emancipatoria dei
processi di comunicazione non trovino adeguato rispecchiamento nella
pervicace affermazione di arcaici e imperialistici modelli di potere
gerarchico. Dando forma a significati, strumenti e tropi della
tecnoscienza, la Randolph delinea sul piano artistico
quell’universo culturale, analizzato sul piano filosofico da
Donna J. Haraway, trasformatosi in un circuito integrato dove
individuo, tecnologia, liberismo e politica si intrecciano in una
complessa matrice discorsiva.
L’accesa
protesta politica contro la repressione militare vibra attraverso la
rappresentazione di creature come il Merciful Angel, dipinto nel 1984,
dalle ali imponenti e variopinte, caduto tra pezzi di cadaveri e teschi
disseminati sui campi di battaglia, o della donna alata, colpita a
morte, imbrattata di sangue, di U. S. Peace Plan,
del 1990. Le entità edeniche si trasformano, in Annunciation
of the Second Coming, del 1996, nel messaggero dalle ali
trasparenti -comparso sulla copertina del testo harawayano Modest_Witness@FemaleMale_Meets_OncoMouse™-,
morbida figura femminile, annunciante la venuta del Redentore,
un’arcana immagine anorganica, fantasmatica, composta di
silicio, chip e dati, dalla superficie corporea digitalizzata, che
rischiara la notte, ma non schiva i rischi legati al sogno-incubo di
una trascendenza tecnologica del corpo. La Randolph mostra come
quest’ultimo, per integrarsi perfettamente con le macchine
intelligenti, riconfiguri se stesso, sortendo la trasformazione della
forma-uomo, la realizzazione di organismi di sintesi,
l’integrazione dunque delle capacità sintetiche
delle funzioni mentali tradizionalmente umane con quelle analitiche
delle intelligenze artificiali e dissolvendo la dipendenza del pensiero
da una specifica struttura fisica (cfr. Caronia, 1996, p. 55).
La
pittrice registra le fantasie di immortalità disincarnata,
vagheggiate dalla cibernetica biologica, che, celebrando un mondo in
cui le strutture mentali siano preservate come modelli di informazione
potenzialmente eterni (cfr. Moravec, 1998, p. 17), negano il
radicamento dell’uomo in un universo materiale di estrema
complessità (cfr. Hayles, 1999, p. 5) e disconoscono il
corpo come sede dell’essere, auspicandone la sostituzione con
un custode dei bit che ne descrivono la struttura, un simbionte del
codice, precipitato ultimo dell’assimilazione realizzata
dall’homo technologicus (cfr. Longo, 2003, p. 84),
nell’estrema restrizione della materia, divenuta
indifferente. Ed è dalla comunicazione tra corpo, mente e
semiosi della macchina che nasce la raffigurazione degli esseri
surreali accostata all’immagine tecnico-medica della sezione
frontale del cranio nell’autoritratto Immeasurable
Results, del 1994, ispirato alla pubblicità di
un’apparecchiatura per le risonanze magnetiche della Hitachi,
società produttrice di strumenti di visualizzazione medica
computerizzata, in cui la Randolph coglie se stessa giacente sotto lo
schermo che proietta le immagini diagnostiche e i livelli psichici,
consapevoli e inconsapevoli, l’esperienza vissuta che
continua a vivere, il flusso che eccede le sue rappresentazioni e ne fa
conflagrare la sintassi, l’erlebnis, non
scomponibile in elementi semplici, non misurabile attraverso il calcolo
informatico della macchina. Il dipinto sembra voler sottolineare che
l’intelligenza, se concepita come mera entità
astratta e logico-formale, non rimanda allo storico essere nel mondo, e
che l’intelligibilità, con il suo humus di
credenze inoggettivabili, non è mai completamente
matematizzabile, così come la conoscenza e le azioni
significanti non sono totalmente formalizzabili, inseribili in teorie
ed esprimibili tramite sistemi di regole.
Sovvertendo
la convenzionale polarizzazione di intelletto e carne, conoscenza e
materia, la Randolph palesa l’invisibile, il substrato
inaggirabile della vita, la sfera del pre-riflessivo, e radicalizza il
proprio simbolismo nella frequente comparsa di immagini-archetipo
dell’inconscio, presenti nell’umanità
fin dai tempi remoti, destinate a rappresentare la realtà
sia fenomenica sia psichica, immagini che nel e per il loro essere al
di fuori del pensiero lo alimentano abbondantemente con produttiva
alterità.
La ricerca figurativa randolphiana
delinea, con lirica tragicità, orizzonti onirici su cui si
stagliano paradossalmente oggetti estraniati dal loro contesto
originario, universi ibridi sortiti da contaminazioni tra il mondo
organico e il mondo macchinico, preludi di putrefazione, con corpi
attraversati da bestioline adulterate o squarciati da costruzioni
elettroniche, rappresentazioni emblematiche di una natura
prodigiosamente potenziata e drammaticamente martoriata, che suggerisce
fughe verso mondi alieni e firmamenti non familiari: si tratta di sogni
che, più che custodire il sonno, vogliono svegliare i
dormienti, data la quantità sorprendente di svelamenti
riservati dalla cosiddetta realtà autentica, mai ultima, ma
sempre penultima, in perenne divenire, attualmente configurata, secondo
la pittrice, in un’intricatissima rete di connessioni, in
grado di intrecciare ideologie, segni e bisogni della
collettività.
Le tele randolphiane raccolgono, con
vigore espressivo, le potenti vibrazioni materiche e le vivide
sfumature cromatiche, trattenendole in ariose vedute, mentre atmosfere
silenti e luoghi incantati penetrano ciò che avvolgono,
realizzando un’istintiva sintesi tra messa in scena
naturalistica e rappresentazione metaforica. Travolta dal fascino del
pianeta, colto nel suo incanto originario e restituito in scenografiche
visioni d’insieme o magiche descrizioni minimali,
l’artista ne rende l’intensità
dell’impressione subita attraverso
l’incisività selvaggia della luminescente
oscurità, dei neri vellutati o dei blu iridescenti, da cui
affiorano manifestazioni della vita primordiale, della
fecondità della natura, come in Life within,
del 1984, fenomeni che diventano simboli universali di rivelazione e
trasformazione, di potere e spiritualità.
L’azzardato trascolorare dei verdi negli azzurri,
attraversato da intense fiamme di colori solari, ospita il tema
dell’immersione dell’uomo nella
sacralità naturale, dell’eterna
ciclicità dell’ordine cosmico, mentre, nelle
raffigurazioni scomposte, vengono disegnate prospettive arbitrarie e,
nei luoghi improbabili, diventa consueto l’assurdo. Tra i
riflessi infuocati lo spettacolo si fa vibrante, generando meraviglia e
stupore, e, tra le risonanze emotive, lo sguardo si perde in un
universo trasgressivo ed eslege. La luce evanescente che rischiara le
opere randolphiane o l’ombra trasparente che le vela si
insinuano nel pathos palpitante delle scene, al punto da offrire spunti
di fervida immaginazione metafisica, memore del passato, radicata
nell’hic et nunc e protesa verso un avvenire esperito
attraverso il desiderio, la scoperta, l’angoscia riservati
dal gioco del render presente e dall’avventura
espressiva.
Il tema della natura si compenetra con
quello della morte, laddove non è solo il caso che tende a
connaturare l’essere col non essere, lasciando filtrare, nel
declino del sole, un raggio di insana consapevolezza. Tra selve
lussurreggianti e nuvole passeggere, tra sfavillanti costellazioni e
lande desolate, la Randolph giunge a mostrare il cammino
dell’umano pellegrino ai margini della strada
dell’esistenza, attanagliato dalla morsa entropica, rapendo
lo sguardo dell’anima con tele come Memento mori,
del 2000, o Lamentation, del 2001, ed evocando
drammi che impediscono di sottrarsi alle mostruosità,
già adombrate in dipinti come Presiding, del 1991, della
tragedia del tempo, destinato a non dipanare più i
propri fili, a non scorrere più, a non spianare le proprie
pieghe, a non illuminare giorni nuovi, il tempo
dell’ombra funesta, dell’oblio totale, del mistero
ultimo in cui si smarrisce la speranza e si illanguidisce la
conoscenza. La pittrice cattura i riverberi luminosi, cogliendone, con
sentimento poetico, l’infinita vitalità, e li
fissa in un dilagare di tonalità capaci di rendere
l’effetto fuggevole di un brillare mai accecante nel mondo
mitico delle eroine mortali, che percorrono la semidivinità
della terra, dell’aria, dell’acqua, del fuoco, non
come mere rappresentazioni ideali, ma come specifiche caratterizzazioni
di donne reali, fluttuanti tra nebulose organiche, simili a uteri,
nell’inquieto avanzare di Skywalker Biding Through,
del 1994, o vaganti sul dissoluto caos urbano nell’orrifico
gioco finale di Somnambulist Mall-walking, del
1995, mentre inedite, complesse e proteiformi identità
forgiano se stesse. Tramare con il sé esige un intreccio di
entità ontologicamente difformi, una complicata matrice di
cervello, corpo e tecnologia, che costituisce ciò che si
dovrebbe propriamente identificare come “noi
stessi” (Clark, 2003, p. 27): l’elica di DNA della
donna e del suo clone androide, il quale ostenta la propria
artificialità bioelettronica, ritratti in Self-Consortium,
del 1993, è anche la serpentina spiraleggiante di una
galassia, che marca la soglia tra spazio interno e spazio esterno,
intorno a cui si muove il meticciato, non più tanto
avveniristico, autoconsorzio. La dimensione fantascientifica si
contamina con l’intrusione della tradizionale iconografia
cristiana, nel ritratto di divinità come la Mestiza
Cosmica, del 1992, un’indigena di una terra di
confine, versione contemporanea della Vergine di Guadalupe, che veglia
sul mondo, collocandosi sulla frontiera tra Messico e Texas, cavalcando
i limiti ridisegnati dagli accordi sul libero commercio del nuovo
ordine globale e difendendo le politiche contro
l’immigrazione sostenute dai paesi centrali
dell’economia mondiale. La sacra meticcia ricapitola i
persistenti dualismi della tradizione occidentale, funzionali alle
logiche e alle pratiche del dominio sulle donne, sulla gente di colore,
sui lavoratori, sulla natura, vale a dire del potere su chiunque sia
stato costruito come altro con il compito di rispecchiare il
sé (cfr. Haraway, 1999, p. 78). Dal XVIII secolo, le grandi
costruzioni storiche di genere, razza e classe sono state recintate nei
corpi delle donne, dei colonizzati, degli operai, marcati dal punto di
vista organico, simbolicamente altri rispetto al sé fittizio
e razionale della specie-uomo, universale e quindi non marcato. La
madre cosmica con una mano tiene a bada un crotalo adamantino e con
l’altra maneggia il telescopio di Hubbell, mediando tra il
naturale e il tecnologico e stagliandosi su quell’orizzonte
organico-cibernetico che ha trovato, già nel 1989, anno
delle violenze perpetrate a Tian’anmen, compiuta espressione
nel ritratto di una studentessa cinese, l’entità
animal-umano-macchinica di Cyborg, colta nella
suggestiva, e forse promettente, solitudine di un paesaggio lunare, tra
le scintillanti galassie e le formule matematiche della teoria della
relatività einsteiniana e della teoria del caos.
Quest’immagine totemica, probabile foriera di nuove
realtà tecno-politiche, è, in un certo senso, una
figura simile a quella dipinta in A Diffraction,
del 1992, una diffrazione narrativa, grafica, psicologica e politica,
una trasmutazione, che, metaforizzando l’incarnazione di
sé multipli in un solo corpo, con due teste, più
dita, ondeggiante nello spazio metafisico, a differenza della
riflessione, non sposta il medesimo altrove, ma racconta una storia
eterogenea, non riguardante più gli originali, una
trasformazione che si ingenera di fronte alla voragine dello
sconosciuto, nella zona liminale tra il presente e il futuro, e che non
oppone più il falso al vero, ma sostanzia la produzione di
nuove realtà e di nuove identità con apparenze
né vere né false (cfr. Frasca, 1996, p. 23).
La
Randolph comprende che il binomio organico-inorganico, concepito in
termini meramente dicotomici, non restituisce una cornice esplicativa
della pluralità fenomenica che anima
l’antroposfera: la cultura umana rappresenta infatti il
più grandioso progetto partecipativo che la natura abbia
saputo mettere in atto. L’uomo appartiene a una specie che
oltrepassa “lo specchio dell’innato”
grazie all’aiuto e alla mediazione di svariate
alterità, prima tra tutte quella animale” (cfr.
Marchesini, 2002, p. 69). Il processo culturale, interpretato come assoluto
evento ibridativo, si realizza secondo varie modalità:
“l’uso di uno strumento, la partnership con
un’altra specie, il conferimento di un significato, la
proposizione di una teoria – in breve tutto ciò
che attiva una coniugazione con la realtà esterna o
referenza” (ibidem, p. 25).
I dipinti randolphiani,
ostili all’euforia tecnofila, esplorano gli effetti aberranti
sortiti dal vertiginoso e incontrollato progresso scientifico, dalla
pertinace stoltezza della sperimentazione medica nella
brutalità terapeutica di Managed Care,
del 1996, esercitata sullo sfondo del dominio delle priorità
economiche, che regala oscene felicità e offre
impressionanti spettacoli di morte, in un regime di
spazio-temporalità in cui sembra essersi spezzato il
compimento dell’evoluzione naturale, lasciando comunque
l’individuo ingabbiato in una fisicità votata
all’estinzione. Ridotti a inestricabili grovigli di circuiti,
batterie, valvole e bobine, sorretti dall’attività
di ticchettanti macchinari, gli esseri umani, dolenti, nel loro
sbigottito tormento e nella loro caparbia coazione, aspettano il tempo
della morte. Inane è la sfida contro l’implacabile
trionfo della debolezza umana, lanciata attraverso
l’avvicendamento di trasformazioni organiche, frutto della
ricerca di un’artificialità che sconfigga
l’ineluttabile destino di dissoluzione,
l’ineludibile, per quanto allontanata, tappa finale del
cammino individuale. Dotati di microchip, pace-maker ed
elettrocateteri, o addirittura forniti di cuori e sangue artificiali,
patetici “manufatti bastardi” (Haraway, 2000, p.
34), che ingurgitano la vita o l’affidano a un congegno,
fatti di scienza e morte, ridotti a merce fin nel DNA, mentre le
aziende biotech si affrettano a registrare brevetti, gli uomini
percorrono il loro destino di cyborg, stampigliato sui loro circuiti,
cogliendo inedite opportunità, instaurando nuove dipendenze,
prolungando l’esistenza, combattendo l’insensato.
La passione degli ibridi chimerici è raccontata, in tutta la
sua atrocità, nel ritratto della donna-topo di The
Laboratory, or The Passion of OncoMouse,
del 1994, la cavia transgenica presunta salvatrice della specie umana,
diventata oggetto della sorveglianza tecnoscientifica transnazionale,
nonché strumento che riconfigura sapere biologico, prassi di
laboratorio, fortune economiche, speranze e paure sia individuali sia
collettive. Sito per il trapianto di un gene tumorale umano che produce
cancro al seno, primo animale brevettato al mondo, l’OncoTopo™,
modello di ricerca transpecifico, è condannato a compiere un
percorso di contraffazione del ciclo vitale, rimodulato dalle
istituzioni normative che regolano il mercato mondiale. “Le
controversie che hanno circondato la brevettazione e la
commercializzazione del ‘topo di Harvard’ sono
state al centro dell’attenzione della stampa scientifica e
popolare in Europa e negli Stati Uniti . [...] Il 12 aprile 1988
l’ufficio federale dei marchi e brevetti concesse un brevetto
a due ricercatori genetici, Philip Leder della Scuola di medicina di
Harvard e Timothy Stewart di San Francisco, che lo intestarono al
presidente e agli amministratori dell’Harvard College.
L’ulteriore concessione del brevetto alla E. I. Du Pont de
Nemours & Co. per lo sviluppo commerciale è
diventata il marchio della simbiosi tra industria e accademia nel campo
della biotecnologia dalla fine degli anni settanta in poi. Con una
concessione illimitata a Philip Leder per lo studio della genetica e
del cancro, la Du Pont è stata uno dei maggiori sponsor
della ricerca. La Du Pont fece successivamente degli accordi con i
laboratori Charles River di Wilmington nel Massachussets, per
commercializzare OncoTopo™. Nel suo Listino
Prezzi del 1994, Charles River pubblicava cinque versioni di
questi topi portatori di differenti oncogeni dei quali tre si
traducevano in tumori del seno. Questi roditori possono contrarre molti
tipi di cancro, ma quello del seno è stato quello
semioticamente più potente nella stampa come nel brevetto
originale” (ibidem, p. 120).
Nuova alterità, perturbante e irriconoscibile,
indefinita e indefinibile, OncoMouse sembra oltrepassare
l’avvenire prima ancora che si attualizzi, collocandosi in un
flusso temporale ritoccato, non più disteso sulle sue
volute, non più adagiato sulla naturale sequenza
passato-presente-futuro. Ridefinito come invenzione dallo status di
brevetto, merce circolante nei circuiti di scambio del capitale
transnazionale, scheggia di potere innervata nella carne, coagulo di
scienza, denaro e natura, l’animale da laboratorio biotecnico
e biomedico è una creatura appartenente al regno dei morti
viventi (cfr. ibidem, p. 119), una metafora della
mortalità e una promessa di esistenza. Trapiantando nel
ratto progettato l’oncogene e promettendogli la morte, se ne
tradisce la biochimica spontanea, se ne adultera
l’identità e se ne condiziona il telos. I bisogni
impiantati, la proficua agonia, che inocula la morte per ricercare
più vita, i palpitanti squittii del topo umano esprimono la
sofferenza di una vittima sacrificale, icona del dolore ritratta come
un’immagine cristologica, con le mammelle rigonfie e una
corona di spine sul capo, mentre vive il mistero della carne,
introiettando la tecnica, investendone i progressi, patendone gli
sviluppi, pagandone i fallimenti, in una crudele forma di esistenza
altra, che giustifica l’efferatezza e sublima il
sadismo.
Il mistero, che attraversa, nelle sue molteplici declinazioni,
tutta l’opera della Randolph, viene svelato da
quest’ultima con vigore espressivo attraverso le fantasiose
articolazioni di un periodare estetico in cui le illusioni e le
delusioni dipinte si dispiegano in una fertile logica immaginativa.
L’energia che pulsa nei corpi chimerici dei cyborg o nelle
figure vampiresche rappresentate nell’orrore di camere
tecnoscientifiche, come quella, infestata da pipistrelli e dal loro
portato metaforico, di Transfusions, del 1995, non
è poi così lontana dalla forza che scuote i corpi
disobbedienti, perduti al di là dei confini in orgiastiche
estasi, ispirati alle esperienze mistiche delle Ilusas, donne
messicane, vissute nel XVII secolo, vedove, orfane, prostitute,
raffigurate in un’evocativa serie di piccoli ritratti e
riproposte mentre travalicano i contorni del proprio corpo, come nella
divina ribellione di Venus, del 1992, o si adagiano
sul corrusco candore del solipsistico pulsare dell’eros, come
nell’impudico abbandono di Alone in the Wetlands of
Desire, del 1993.
La pittura randolphiana si colora con tocchi naïf e
si intride di surrealismo, situandosi nella zona sfumata in cui lo
sguardo si spinge fino al confine tra conscio e inconscio, superficie
manifesta e profondità latente, mondo naturale e universo
metafisico, passato, presente e futuro, vita e morte, e alle loro
reciproche relazioni salde e illogiche. Il narrare solidamente ancorato
ai luoghi e attaccato agli oggetti si stempera, durante la fase
più recente della sua produzione, nella stesura rarefatta di
una pittura spesso ispirata agli scorci magrittiani, nel mare da sfondo
che sfuma in memorabili cieli, illuminati da tramonti vermigli o notti
argentate, penetrati da ombre caliginose o raggi violacei, e nel
richiamo degli assenti attraverso il turbinio dei drappeggi da cui un
tempo essi erano avvolti, come in Shrouds of Light,
del 2002, Spirit Cradle, del 2003, e ancora Soul
Sail, del 2006, o mediante la delicatezza di armoniose
silhouettes che accennano alla forma umana, come in Sacred
Wedding in the Night, del 2002, e che, disobbedendo alle
leggi fisiche, levitano, fuggono verso l’alto, aleggiano su
panorami celestiali e cristallini, mentre lo stesso sguardo
dell’osservatore, soffermandosi sulle eteree trasparenze, si
svincola dalla forza di gravità. L’essere
è qui designato non come afferrabile presenza
dell’ente nel suo dispiegato apparire, ma come evocazione,
diafana promessa della vita, che lievemente, ma caparbiamente riafferma
se stessa, enfatizzando la sua mancanza e ricostituendo la permanenza
dell’umano nella sua fragile origine, persistenza
già del resto evocata dai piccoli angeli che sembrano voler
proteggere il tenero abbraccio delle innocenti fanciulle di Millennium
Children, del 1992, braccate da una muta di iene, schernite
da un demone clownesco con lo stomaco a forma di efferata maschera
della morte, inginocchiate sulle rive di una palude inquinata, dominata
da avvoltoi appollaiati su un albero inaridito, da ciminiere fumanti di
una centrale nucleare e da una Houston infiammata e senza futuro.
Il discorso randolphiano ha per oggetto una politica che non
si traduca solo nella protezione di specifiche forme di vita associata,
ma anche nella difesa della vita stessa, che decostruisca dunque il
dominio che il potere esercita attraverso il principio di
sovranità. Il vivente diventa fonte di ispirazione per una
biopolitica che parta da un’idea di vita non meramente intesa
come semplice falda biologica, filo verticale tra la nascita e la
morte, ma interpretata nella sua complessità, come fenomeno
pluridimensionale, discontinuo, stratificato, meticciato, contaminato
con l’artificialità. L’incarnazione del
cyborg, generato da “uteri tecnoscientifici”
(ibidem , p. 41), creatura implosa allo stato embrionale, aggira
il consueto ciclo della parabola fisiologica, disincaglia il processo
di replicazione dal piano riproduttivo biologico, si realizza in un
mondo “senza genesi”, che potrebbe diventare un
mondo “senza fine” (Ead., 1999, p. 41), negando
l’origine dal magma originario e l’annichilimento
nella polvere finale. Dimorando nel regime spazio-temporale del
tecnobiopotere, il cyborg percorre meno i territori della
“‘vita’, con i suoi ritmi evolutivi e
organici, che la ‘vita stessa’, i cui tempi sono
intrinseci al potenziamento della comunicazione e alla riconfigurazione
del sistema” (Ead., 2000, p. 40).
Una pratica politica in grado di custodire la vita senza
sopprimerla va presumibilmente cercata in un territorio liminale,
laddove l’identità possa inglobare
l’alterità, in particolare quella di tipo
tecnologico, in una relazione molto complessa, non riconducibile a un
rapporto di pura opposizione, bensì a un nesso di reciproca
implicazione, che, data la sua problematicità e
pericolosità, richiede di essere affrontato con selettiva
consapevolezza. Rifuggendo sterili dicotomie, che oppongono la teoria
sociale all’immaginario, la materia al pensiero o la
verità all’arte, la pittrice lascia esplodere la
propria energia immaginativa e la converte in una poetica del corpo
grazie a espressioni visuali di rinascita da un mondo di ottundimento,
evocando la forza plastica dell’uomo, che,
nell’inesauribile conflittualità e
nell’infinita teoria di contraddizioni riservatigli
dall’esistenza, è chiamato a riconfermare la
propria libertà e la propria responsabilità, ad
attribuire senso all’accadere molto spesso insensato e ad
operare scelte coscienti di fronte all’ardito processo di
avanzamento tecnologico. La Randolph concentra l’interesse
etico, proiettato su un terreno di relazioni pragmatiche, nel nodo
indissolubile tra individualità e universalità,
nell’indefinito slittamento di senso, proprio della metafora,
quasi ossessivamente ricorrente nelle sue opere, nel rifiuto del
continuismo di ogni filosofia della storia, attraverso il contrasto tra
l’autonoma potenza del soggetto e la sua estrema
perifericità, la violenza apocalittica delle pulsioni
macabre, gli stati stranianti al di là del tempo e dello
spazio, cogliendo gli ineludibili legami tra la vita e le sue
rappresentazioni, e celebrando l’arte, indipendentemente
dalle forme da essa assunte, alte o basse, elitarie o di massa, colte o
triviali che siano, come uno dei luoghi privilegiati della
comunicazione con il vero, come una tra le più
nobili delle menzogne che consentono di riconoscere la
verità.
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