Postumano indica una modificazione del confine, di tutti i
confini, e di questo raccontano i contributi che seguono.
Dell’annullamento del confine tra il genere umano e il regno
animale, come nei postumani nati dalle visioni di Lynn M. Randolh,
oppure della separazione tra la vita e la morte, demarcazione che
Philip K. Dick cancellò nel suo romanzo In senso
inverso (Dick, 2001), o ancora nella divisione tra uomini e
macchine e il suo superamento (si veda l’intervista a
Giuseppe Longo). Multiverso ibrido, che ha il suo baricentro proprio
nelle ibridazioni fra corpo e ambiente. Infatti, si è fatta
strada, negli ultimi vent’anni, la coscienza di come il corpo
umano sia esso stesso direttamente un’interfaccia,
declinandosi in modi sempre più vari ed estesi. È
il trionfo dell’immaginario per natura sconfinante, ma anche
della sua implosione, non potendo più (o quasi) passare
alcuna frontiera. Si sfoglino in breve i paesaggi mentali
collettivamente condivisi. Troviamo temi che appartennero alla
fantascienza, stili che incarnarono la trasgressione giovanile, oggetti
protagonisti di film, telefilm, fumetti e cartoni animati, una folla di
personaggi tratti da generi narrativi vari, memorie di passati recenti
e remoti. Ecco, l’immaginario si nutre ed è
alimentato da questo scivoloso intreccio di discorsi, spesso
intercambiabili tra di loro, narrazioni che si infiltrano negli
interstizi della produzione materiale, traendone linfa vitale e
seminando nuovi ibridi destinati alla vita quotidiana. Il susseguirsi
di ordinaria stupefazione che permea gesti, modi e luoghi della vita
materiale, dando sostentamento alla civiltà dei consumi, ha
nelle scene dedicate alla vendita i suoi luoghi deputati al
dispiegamento pieno della logica della permutazione.
Dentro
ogni negozio si annida uno sciame di figure che hanno storicamente
abitato l’immaginario tecnologico delle prime due
civiltà industriali. È in un negozio che bisogna
rivolgere lo sguardo per osservare quanto siamo mutati e come si
è modificata, se non del tutto saltata, l’idea
stessa di confine. È quanto, in un ambito a metà
strada (il confine è labile) tra ricerca scientifica e
performance artistica, suggerisce Stelarc, inscenando proprio
un’abolizione della distanza tra il corpo e il resto del
reale (cfr. De Feo, 2009). Questo vivere senza limiti nella
società liquida di Zygmunt Bauman ci pone in uno degli ex
futuri possibili della fantascienza? Una risposta ce la può
fornire una rapida visita ad un negozio londinese, Cyberdog. Si trova a
Camden Market ed è: “un virtual store, negozio
virtuale di abbigliamento, creato, secondo la leggenda, da un chihuahua
cibernetico al ritorno da una delle sue missioni nel cyberspazio.
L'ambiente è un'inquietante galleria che vibra al ritmo di
una martellante house music con arcate di mattoni scrostati, pareti di
alluminio e pavimento in cemento. Il decor è un assortimento
di vari rottami, giocattoli salvati dalla discarica, tv in bianco e
nero riciclate, tastiere e telefoni cannibalizzati, spazzatura
post-nucleare. Ci si può collegare via Internet ai cinque
i-mac del bar, oppure fare un giro tra le collezioni di abiti e
accessori. Cyberdog è abitato da commessi postpunk con
treccine fosforescenti filorasta, che indossano technopantaloni
multitasca, t-shirt con cuori a luce intermittente, e accolgono i
clienti insieme a manichini mutanti, da cui fuoriescono fili elettrici,
e lontani, sorridenti parenti di ET in cartapesta argentata. Gli abiti
da uomo, donna e bambino sono tagliati su misura per i nipotini del
guerriero urbano RanXerox, sopravvissuti a varie catastrofi nucleari ed
esperimenti di ingegneria genetica, che amano il padding (le
imbottiture) e i tagli sagomati, i materiali sintetici, i colori
primari e fluo” (Divella, 2000). Come si è
arrivati a vivere in un mondo che quotidianamente ci conduce dentro
mondi ibridi come Cyberdog? Riferendosi a quelle che individua come le
“trasformazioni della legge del valore”, Jean
Baudrillard scriveva a metà degli anni Settanta del
Novecento che dopo il Rinascimento si erano succeduti tre ordini di
simulacri:
– La contraffazione è lo schema dominante dell’epoca “classica”, dal Rinascimento alla rivoluzione industriale.
– La produzione è lo schema dominante dell’era industriale.
– La simulazione è lo schema dominante della fase attuale retta dal codice. (Baudrillard, 1979).
Da allora sono passati più di trent’anni,
il regime della simulazione – l’ultimo in ordine di
tempo, fissato dal filosofo francese – è esploso e
si è trasformato in (o è stato sostituito da?)
qualcos’altro. Forse si sta legittimando un quarto ordine di
simulacri? O un superamento della logica
simulacrale stessa? Questa è la domanda vera, di fronte alla
quale ci troviamo, se guardiamo ai fenomeni di ibridazione, contagio,
meticciato, mimesi, contaminazione che interessano arte e industria,
reale e virtuale, uso e scambio, superficie e profondità,
corpo e mondo, se queste categorie ancora si riferiscono a sfere
separate fra loro – semmai lo hanno fatto…
Nella
sua discussione Baudrillard usa come esempi l’angelo di
stucco per il primo ordine, il robot per il secondo, il codice
(genetico, elettronico) per il terzo. Indica una strada: se
all’era preindustriale può appartenere solo un
simulacro statico, fatto di materia inerte, che può solo
imitare banalmente il reale, dalla statua ai finti drappeggi in gesso a
incorniciare porte e finestre, alla logica dell’industria
può corrispondere solo il robot, icona del lavoro meccanico,
seriale, bruto, e alla prima postmodernità –
l’iperrealtà, per usare i termini di Baudrillard
– può corrispondere solo
un’unità elementare, unificante di comunicazione e
di descrizione del mondo: il codice, il minimo
comun denominatore di ogni tecnologia della comunicazione.
Altrove,
ecco un’altra conferma. In La crisi della
modernità (2002), David Harvey definisce il
postmoderno in opposizione al modernismo. Il modernismo come opzione
estetica, certo, ma necessariamente come visione del mondo:
è per certi versi l’ideologia del capitalismo
fordista (ibidem, pp. 157 e segg.), quindi della catena di
montaggio e della serializzazione – ma, anche, del mito del
progresso come motore. Il postmodernismo vi si sostituisce/oppone
perché non solo abbandona ad ammuffire in qualche deposito
l’idea di progresso, ma prima di tutto agisce sulla
mescolanza, la moltiplicazione, l’ibridazione. La rottura
delle convenzioni e delle gerarchie – e delle barriere fra le
varie sfere dell’agire umano. L’estetica
può esprimersi attraverso l’uso e la
reinterpretazione di tutti gli artefatti,
perché questi hanno sempre una dimensione comunicativa: sono
sempre testi.
Per cui nel regime
del postmoderno possiamo far rientrare artefatti fra i più
svariati, dalle pagine di fumetti di Roy Lichtenstein, ai dipinti
iperrealisti di Richard McLean, al cinema di David Lynch e di Quentin
Tarantino, alle opere della citata Lynn Randolph, ai romanzi di Thomas
Pynchon e David Foster Wallace. L’importante è il
contesto – e le intenzioni degli autori.
Ma
è ancora così? O si è passati ad un
ordine successivo, in cui anche ciò che è fuori
contesto, che cioè non è ospitato in gallerie
d’arte, musei, librerie, biblioteche, o performato in sale
cinematografiche, da concerto ed è non-intenzionale rispetto
alla dimensione estetica esplicita, può essere letto come
opera d’arte? Cioè, una protesi nata in ambito
ortopedico, un robot costruito per viaggiare fino a Marte, una sirena
di fabbrica, può essere reinterpretata e fruita come oggetto
estetico, così come tutti gli oggetti che in un modo o
nell’altro sono mimesi del corpo umano? Che lo imitano, lo
completano, lo sostituiscono? Si direbbe di sì, anzi
paradossalmente, sono tutti artefatti che ci forniscono una misura, in
un mondo senza più punti di riferimento, perché,
come scrive Carlo Sini, “l’automa è in
generale proprio l’umano in cammino”
(Sini, 2009, corsivo dell’autore). Una lunga marcia che ha
visto sparire sempre più confini, se si osserva quanto
esposto nella mostra Corpo, automi, robot. Tra arte, scienza
e tecnologia ospitata nel Museo Cantonale d’Arte
di Lugano (Corà, Bellasi, 2009): reperti archeologici,
disegni, libri a stampa, documenti relativi, al teatro, al cinema e
alla musica, varie tipologie di automi, giocattoli, dipinti, sculture,
video, installazioni, robot per uso industriale, medico e ludico.
Cioè, i vari simulacri in cui si è declinato il
corpo umano dall’antichità all’oggi, e
qui riassunto da oltre cento opere, dalle rappresentazioni futuriste
della modernità, agli spiazzanti e poco rassicuranti innesti
surrealisti, e alle macchine inutili di Jean Tinguely e Bruno
Munari, fino ai lavori di Nam June Paik, Rebecca Horn, Antony Gormley,
Jaume Plensa e altri artisti contemporanei.
Londra,
Lugano, luoghi dove si mostrano evidenti le connessioni tra cultura,
shopping, tempo libero, intrattenimento, produzione di opinioni,
consumo di gusti. Spazi dove si confondono i concetti, dove il museo
offre merci estetiche e il negozio ne espone altre, entrambi fanno
mercato dell’immaginario e tutti e due producono cultura.
Incarnazioni dell’immaginario che abita in questi luoghi,
l’universo mentale di visitatori, consumatori (è
uguale, non ci sono confini), degli abitanti della tarda
modernità, dei postumani.
:: letture ::
— Baudrillard J. L’échange
symbolique et la mort, 1976, trad. it. Lo scambio
simbolico e la morte,
Feltrinelli, Milano, 1979.
— Corà B. Bellasi P., Corpo, automi, robot. Tra arte, scienza e tecnologia, Mazzotta, Milano, 2009.
— De Feo L., Dai corpi cibernetici agli spazi virtuali, Rubettino, Soveria Mannelli, 2009.
— Dick, P.K., Counter-Clock World, 1967, trad. it. di P. Prezzavento, In senso inverso, Fanucci, Roma, 2001.
— Divella T., Negozi Shopping da robot, D La Repubblica delle Donne, 14 marzo 2000.
— Harvey D., The Condition of Postmodernity, 1990, trad. it. La crisi della modernità, Net, Milano, 2002.
— Sini C., L’uomo, la macchina, l’automa, Boringhieri, Torino, 2009.