Da una parte ci sono gli uomini comuni, dall’altra ci sono i poeti. Ci sono gli uomini normali, e ci sono gli anormali. Spesso c’è coincidenza tra l’una e l’altra cosa. Spesso la poesia rimesta nel profondo calderone dell’anima in modo tale da grattare sul fondo tutto quell’appiccicaticcio, quella materia bruciata, quel nero solido non commestibile, indigesto. È la poesia, quella stessa poesia che tratta l’amore ed i sentimenti belli con la misura dell’ombra, con il metro dell’incomprensibile. Karl Jaspers, usando il linguaggio della psicopatologia, l’ha detto per la prima volta: incomprensibile. Ed a fronte di quest’incomprensibile ci sono solo l’esclusione, lo stigma, l’interrogazione senza risposta. Ci sono le parole nuove dell’ebefrenia, oppure il movimento speculare dell’ecoprassia, le cascate vertiginose delle glossolalie ed il vuoto sidereo e spettrale della catatonia. Cose che, in fin dei conti, non si possono dire agli altri, a meno che non lo si faccia in un certo modo, con la poesia, appunto, o con l’occhio dell’arte. La letteratura, lo ha sostenuto anche Michel Foucault (1994), ha fatto di questa necessità una vocazione traslando il piano di quello che normalmente non si può dire se non dicendolo con un altro linguaggio. Le piattaforme antropologiche devono coincidere, altrimenti non c’è comunicazione alcuna.
È il linguaggio della sofferenza, è il linguaggio del dolore e dello strazio dei corpi, sono le parole che tornano indietro se gridate di fronte ad un muro, sono, generalmente, le parole che sbattono contro la sostanza solida di un potere normalizzante, sordo ai richiami di un’anima umbratile, nascosta tra le pieghe della solitudine. Prendete queste ultime parole, e cercate una definizione secca, un solo termine per descriverle e riassumerle. Non ne troverete uno, ne troverete due: follia e poesia. Spesso entrambe nascono dallo stesso liquido seminale, spesso entrambe si accostano l’un l’altra affiancandosi nella voce di una sola persona, ed allora disegnano le biografie di Friedrich Nietzsche, quelle di Vincent van Gogh, di Antonin Artaud e di Simon Weill, quelle di Gerard de Nerval, quelle di Nanof e quelle degli altri poeti. Tra questi, fino a poco fa, c’era Alda Merini. In un modo o nell’altro queste voci, nel loro continuo rimbalzo contro chi le pronunciava, sono implose nei versi di quella poesia che trasporta le esperienze oltre la grammatica e la sintassi del quotidiano o che affonda a piene mani in esse per servirsi delle stese armi della normalizzazione per dire quello che di tremendamente assurdo c’è nell’anima di ognuno.
Ecco quello che un poeta folle (Artaud, 1988, p. 102) ha detto di un altro poeta folle (uno che non usava le parole ma i colori):
Senza fare letteratura, ho visto la faccia di van Gogh,
rossa di sangue,
ritornare
kohan
taver
tensur
purtan
verso di me
in un incendio,
in un bombardamento,
in un’esplosione vendicatrice di quella pietra da macina che il povero van Gogh il pazzo si portò al collo per tutta la vita.
Kohan, taver, tensur, purtan: sono tutte parole che solo il poeta può utilizzare, che manifestano la stretta connessione tra l’esperienza della reclusione in manicomio e il detto glossolalico (Eugenio Borgna, 2002, pp. 169-187). Chi ricorda l’Estrazione della pietra della follia di Hieronymus Bosch sa che la follia, un tempo, era considerata una pietra che stava nella testa dei poveri pazzerelli, invece Artaud dice che quella stessa pietra non sta dentro la testa, ma sta al collo di gente come van Gogh, alla maniera di un giogo imposto da due mani indecenti: la sofferenza e la normalizzazione. E chi ha questa pietra al collo sta nel silenzio plumbeo della sua anima, oppure urla tutte le sue parole con una voce da poeta. Sono parole che altrimenti non possono essere dette, quasi come se seguissero quell’imperativo wittgensteiniano (Wittgenstein, 1968) che, in fin dei conti vuol dire questo: “il pensiero è la proposizione munita di senso”, ossia, ancora: “l’uomo possiede la capacità di costruire i linguaggi, con i quali ogni senso può esprimersi, senza sospettare come e che cosa ogni parola significhi. – Così come si parla senza sapere come i singoli suoni siano emessi” (ibidem, pp. 20-21). Non può essere detta l’esperienza del terribile, quell’esperienza caotica delle minacce portate alla propria anima che tonfano sorde in quel lago ghiacciato, in quel Cocito che è l’angoscia senza sbocchi. Non può esser detta ma può essere cantata, può essere disegnata. E come l’hanno disegnata van Gogh e Nanof, come l’ha cantata Artaud, l’ha cantata una donnetta a cui la sofferenza e la reclusione in manicomio avevano portato via i denti, e non solo quelli. Questo cantava del manicomio Alda Merini (1996, p. 46), l’ultima nostra poetessa:
Il manicomio è una grande cassa di risonanza
e il delirio diventa eco,
l’anonimità misura,
il manicomio è il monte Sinai,
maledetto, su cui tu ricevi le tavole di una legge
agli uomini sconosciuta.
Una cassa di risonanza al cui interno stanno tante altre piccole casse di risonanza chiuse in se stesse, in isolamento, a sbattere sulle pareti morbide o a girare in cerchio senza guardare al cielo, con gli occhi puntati verso il suolo, in posa di rassegnazione, subordinazione e delirio. Credere alle proprie voci, alle voci della propria anima è il compito più difficile, tanto difficile quanto evitare di sentirle. Ma Alda Merini non ha cantato solo la reclusione, non ha cantato solo la mestizia della segregazione e della contenzione, ha cantato ugualmente dello spirito di una donna innamorata che aveva anche l’ardire di incoraggiare l’amore agli altri, ma che tuttavia sapeva della profonda vocazione dell’essere umano, quella solitudine (Merini, 2004, p. 49) che la poetessa ha scelto per gli ultimi anni della sua vita, fin quando con il suo ultimo sberleffo ha deciso di morire proprio nel giorno in cui si celebrano i santi.
Ritorna al vento della poesia
che non ha speranza
ma vive giorno per giorno
calcando le ossa di vecchi
e antichi profeti.
Ritorna alle montagne ardenti
della solitudine
che ti bruceranno il corpo
e la voce.
Ritorna ai quotidiani tormenti
ma sappi che la solitudine
è l’unica donna
che non ti abbandona.
Per quanto si possa immaginare, questa non è la retorica del poeta malinconico. Retorica un po’ romantica e molto adolescenziale. Perché la malinconia del poeta romantico, delle candele, della pioggia in autunno e delle fotografie sfocate, è una malinconia dolce, soffice e suadente. Nulla a che vedere con il grigio di un edificio macilento, impolverato e chiuso. Nonostante duecento e passa anni fa un uomo, che si chiamava Philippe Pinel, disse che bisognava sciogliere quegli uomini strani dalla catene, quelle catene sono rimaste. Pesanti fardelli al collo che assommano sofferenza su sofferenza. Perché, forse, quel che gli altri non vogliono vedere se non è più abbastanza rinchiuderlo dietro a grosse mura, che allora lo si chiuda direttamente dove nasce. Nella testa, nell’anima. Quella solitudine di cui ha parlato Alda Merini è allora la solitudine di ogni uomo e di ogni donna. Non soltanto la sua, ossia di chi sa guardarla. È la solitudine di chi scrive ed anche quella di chi legge.
:: letture ::
— Artaud A., Van Gogh le suicidé de la société, 1974, trad. it.
Van Gogh il suicidato della società,
Adelphi, Milano, 1988.
— Borgna E., Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica, Feltrinelli, Milano, 2002.
— Foucault M., La folie, l’absence de l’œuvre, in ID
Dits et écrits, 1994, trad. it. La follia,
l’opera assente in ID
Scritti letterari, Feltrinelli, Milano, 2004.
— Merini A., La terra santa, Libri Scheiwiller, Milano, 1996.
— Merini A., Clinica dell’abbandono, Einaudi, Torino, 2004.
— Wittgenstein L., Tractatus logicus-philosophicus, 1918, trad. it.
Tractatus logico-philosophicus,
Einaudi, Torino, 1968.