C'era una volta la cultura pop. Adesso, in piena post civiltà mediatica, siamo entrati nell’era della politica pop. Abbandonati i grandi ideali, le ideologie, le idee, i progetti, i programmi per il bene comune, per la collettività, per un nuovo modello di società, il politico vincente è colui che sa imporre meglio la sua immagine attraverso abili strategie comunicative. E non basta dire che adesso votare un democratico o un repubblicano, un uomo di centro sinistra o un uomo di centro destra, è diventato come scegliere tra due marche di saponette. Il marketing è importante, certo, ma vendere di più non è la sola questione. Così come il punto centrale da mettere a fuoco non è una mera questione di gossip a favore (o contro) uno o l’altro dei contendenti. Ma è proprio dal gossip, e più precisamente da una raccolta ragionata di “notizie” comparsa sull’allora neonato sito di Roberto D’Agostino, Dagospia, che il professor Gianpietro Mazzoleni, docente di Comunicazione politica e Sociologia della comunicazione a Milano, nonché fondatore e direttore della rivista ComPol, ha preso le mosse per scrivere, con Anna Sfardini, Politica Pop, Da Porta a Porta all’Isola dei Famosi.
Ora, a parte l’ovvio compiacimento di chi vi troverà materia abbondantissima per esecrare il potere della tv e la sua funzione di annullamento della realtà operato tramite la soppressione della distinzione tra i generi – intrattenimento e notizia, informazione e pubblicità, fatti e commenti, gossip e cronaca, revival e storia – il punto è che il libro stesso non esce da questa stessa logica. A partire dal Gabibbo di copertina che fa ciao ciao al lettore, per finire con le schede su venticinque programmi tra quelli analizzati, con il corredo degli immancabili grafici, ma senza indice dei nomi, è fin troppo facile dire che gli autori strizzano l’occhio allo stesso sistema – che qualche difettuccio in effetti ce l’ ha – anche secondo loro in grado di mettere in crisi se non la democrazia, perlomeno il diritto ad un’informazione corretta, che non è poco.
Non è una questione di “dignità – acquisita tramite il mezzo televisivo e la sua capacità di raggiungere milioni di persone – di figure, e figuracce, altrimenti squallide come la tata ritrovata di Piero Fassino, Irene Pivetti sadomaso o Maurizio Gasparri imitato da Neri Marcoré” (Ceccarelli, 2009). La mutazione troppo profonda operata/subita dal video in prima o seconda serata non dimostra solo la subalternità della politica all’industria culturale e al mercato dell’intrattenimento. I protagonisti che vi si prestano non sono dei poveracci che credono astutamente di “essersi adattati al nuovo e invece ne rimangono invischiati, anzi ridotti in colorati e appiccicosi filamenti” (Ceccarelli, 2009). Questa è la genesi del fortunato programma di Enrico Ghezzi su Raitre, Blob, il cui successo risale però a una ventina (centinaia) d’anni fa, quando c’era ancora la Prima Repubblica. Adesso tutta la televisione è un immenso blob, e difatti per vedere e divertirsi con un programma come Blob è più facile adesso fare zapping fra Annozero, Ballarò, Exit, L’Infedele, Matrix e Porta a Porta.
La riserva di conoscenza sul presente che un’analisi, come quella del libro, sugli sfottò di Maurizio Crozza, le battute di dubbio gusto di Striscia la Notizia, sui “predicatori” come Adriano Celentano, Roberto Benigni e Beppe Grillo (qualcuno doveva però far presente agli autori che quest’ultimo è esiliato dal video da decenni) può mettere a disposizione dei lettori, non risulta in definitiva decisiva rispetto al bagaglio culturale necessario a mettere a nudo la logica dei media e gli imperativi del consumo.
“Leader, sosia, iene, meduse e altri mostri dati in pasto al pubblico” (Ceccarelli, 2009), ma anche trans ed escort: questa sarebbe la politica pop. Ma concentrarsi sulla centralità del Bagaglino nella vita pubblica è la via che porta dritto alla legittimazione del Grande Fratello come laboratorio di nuove virtù civiche, fino ad esaltare il televoto come nuova forma di democrazia partecipativa. Il cerchio si chiude e l’intellettuale che ha speso, magari in perfetta buona fede, tante delle sue ore di studioso ad analizzare tali questioni diventa l’esponente di una nuova branca delle scienze umane, ora anch’esse diventate pop. In pratica, non ha perso il suo tempo, e noi il nostro a leggerlo.
Dove sta l’inghippo? Innanzitutto nel credere nell’“innocenza” dei politici presi di mira. Sono essi stessi che manipolano/creano il “nuovo” che avanza a loro vantaggio anziché esserne derisi: le logiche del consumo/consenso giocano a loro favore anche quando sembrano prendersene gioco. Poi nel sottovalutare la centralità degli interessi di parte sulla loro pretesa sottomissione alle regole dello show business. È vero che “the show must go on” ma, come dimostra ancora una volta il simulacro di Mike Bongiorno, presente tra noi dall’aldilà, sono gli affari a prevalere sullo spettacolo (la famiglia non aveva bisogno dei soldi di quegli spot per andare avanti, ma il gestore telefonico pubblicizzato aveva bisogno di un morto).
Altra materia per gli autori del libro avrebbe potuto essere, ma non era ancora stato trasmesso, lo spot della nota marca di calze per donne con il sottofondo della versione soft dell’inno nazionale con il titolo stravolto di Sorelle d’Italia. Ora, a parte l’operazione “culturale” postmoderna di dissacrazione easy di uno dei simboli dell’Unità nazionale, ritenuto a quanto pare troppo trito, e a parte l’accusa alla marmellata televisiva di cancellare i confini del lecito elevando a dignità spettacolare espedienti per vendere fin troppo evidenti, ma di che sorelle stiamo parlando? Quelle a cui vendere i collant? O quelle, che poi sono le stesse, il cui corpo la videocrazia degli ultimi trent’anni ha utilizzato allo scopo di addormentare le masse nel sonno della ragione che ha generato, ma non solo, il mostro della politica pop?
E si potrebbe continuare così: gli esempi non mancano certo. Anzi, da qui in avanti si moltiplicheranno ancora. Perché lo spettatore, almeno quello della tv generalista, non sembra aver colto il punto essenziale. Che è il seguente: che cosa ci guadagna? De gustibus a parte, cosa c’è di democratico, ma anche di divertente, nello scegliere, per esempio, il cantante vincitore di X Factor che farà i soldi a spese degli spettatori-consumatori pur avendo magari scarso talento? (La chiacchiera e non la musica è la principale protagonista di questo reality).
La macchina del consenso messa in moto dalla tv ha distrutto la politica e con essa il senso civico. Perché ha ridotto la cultura, le tensioni ideali e l’impegno ad argomenti barbosi buoni solo per persone noiose disposte a spendere la vita sui libri, dove vince la scrittura, ormai difficile da capire. Mentre invece non c’è nulla di più semplice e di più diretto dell’intellettuale che offre in modo chiaro le coordinate per comprendere la complessità del reale. Ma è proprio questo che la politica pop non vuole venga fatto: meglio lasciare spazio alle emozioni, alla pancia dello spettatore, che in questo modo reagisce scegliendo in base alla comunicazione più efficace che non sempre (quasi mai) è quella che offre più informazioni per poter scegliere.
La comunicazione, che si dovrebbe basare sulla corrispondenza tra la parola detta e un significato cui la parola rimanda condiviso da tutti, nella sua espressione/degenerazione televisiva ha eretto un muro tra la politica e i cittadini, a detrimento dell’una e degli altri. Questo perché l’“aspetto essenziale di questo profondo mutamento consiste anche nell’introduzione in economia o nell’industria dell’informazione della dimensione del sentire: le sensazioni e le emozioni hanno acquistato un significato commerciale, come risulta evidente dall’importanza economica assunta dalla star cinematografica o televisiva, dalla fotomodella, e più in generale, dai divi dello spettacolo” (Perniola, 2004).
Già, ma il processo era in atto già nel 1970, e come osserva lo stesso Mario Perniola, colto nei suoi aspetti essenziali dall’inquietante volume La moneta vivente di Pierre Klossowski: uomini e donne non più merci, come nella schiavitù o nel lavoro salariato, ma denaro. “L’idolatria del successo ad ogni costo e l’esaltazione del fatto compiuto (che spesso solo in apparenza è tale)” (Perniola, 2004) dissolve tutti i contenuti - morali, logici, scientifici, estetici - alterando le capacità di scelta. Per prendere una decisione non si tratta infatti di contrapporre sentimento e ragione: entrambe le facoltà cognitive stanno di volta in volta dall’una e dall’altra parte a definirne le ragioni. Ma lo stato di confusione indotto dalla comunicazione, non solo televisiva, determina la completa abdicazione alla consapevolezza, comporta il messaggio della rinuncia a ogni tipo di “economia dei beni simbolici” (Perniola, 2004), così importanti per la tenuta della coesione sociale, e trasmette sotto forma di divertimento lo sdoganamento di qualsiasi nefandezza e squallore. Quando questi ultimi passano il limite, tutto è lecito, anche il linciaggio morale, o “pestaggio mediatico”, come lo ha chiamato la Fnsi (Federazione nazionale della stampa italiana), del video di Canale 5 sul giudice Raimondo Mesiano. Ma se il pubblico pensa si tratti di normale dialettica tra due fronti contrapposti, dimentica la lezione di Bertolt Brecht: se non protesti quando vengono a prendere l’ebreo, il comunista, il negro e l’omosessuale, quando verranno a prendere te non ci sarà più nessuno a protestare.
La politica pop ha trasformato le forze in campo in partiti multimediali di massa. Perché il loro potere è quello mediatico, dicono gli autori del libro. Ma affermare che nei media gli opinion leader sono oggi gli uomini di spettacolo e i conduttori, e i leader di partito sono diventati attori e comici, è gettare fumo negli occhi perché le vere fratture sono altre. Quella tra le reti in chiaro e la pay tv, per esempio, come ci ricorda il sociologo Ilvo Diamanti. Quella tra chi si forma un’opinione solo tramite la televisione e chi legge i giornali, e quella tra questo pubblico colto, ma anziano, e chi non legge nemmeno più i quotidiani ma si informa solo su Internet. A parte questo non secondario aspetto, la partita è comunque sempre tra chi manipola e chi viene manipolato. Considerazione che parrebbe un’ingenuità che invece non è nel caso ci si soffermi a riflettere sul fatto che a prevalere, nella politica pop, sotto le mentite spoglie di un grande circo mediatico che media gli interessi di tutti, è la contrapposizione tra interessi reali. Per questo viene nascosto, con la retorica del gossip, ai cittadini quali sono i loro. Il crescente successo di una trasmissione di inchiesta su temi scomodi – che ha anch’essa la sua retorica, ci mancherebbe, ma almeno è quella dell’obiettività – come Report di Milena Gabanelli, riporta la questione con i piedi per terra. Quando il cittadino è bene informato su come la politica gli sottragga diritti – e soldi – non c’è politica pop che tenga (forse). Allora invece di rincorrere i politici sul loro terreno, come fanno certi giornalisti compiacenti spinti solo dall’ audience, perché non esercitare un minimo di consapevolezza che, al di là della semplice cultura, è la capacità di distinguere il bene dal male? Consapevoli, tra l’altro, che questo non è moralismo: come c’è un “bene” per i politici – il potere – c’è un bene anche per chi li vota: che questo potere venga esercitato nei limiti imposti dalla legge e nell’interesse della collettività.
La contrapposizione nasce quando i politici, proprio per aver rimbecillito le masse con la televisione, si sottraggono a questo loro compito/dovere. Per tornare quindi al libro del professor Mazzoleni, la sua analisi, che vuole essere tecnica e quindi moralmente neutra, dimentica che “essere”, e rendere, “consapevoli di un problema è ben altro che tecnica” (Zoja, 2009). A questo proposito sono utili alcuni esempi tratti proprio dall’articolo di Luigi Zoja sul Fatto Quotidiano. Lo spettatore-cittadino, come lo chiama Noam Chomsky, perde di vista, informandosi solo alla televisione, ma anche solo sui quotidiani, alcune questioni fondamentali del vivere civile in un mondo globalizzato. Non sa nulla, o quasi, per esempio, pescando a caso nell’elenco fatto da Zoja, del fatto che la Cina ha prodotto fin qui ricchezza per acquistare 70 milioni di cellulari, ma ha rimandato l’approvazione della copertura sanitaria gratuita al 2020 (dopo tre generazioni di comunismo), e che la preminenza sul mercato delle bibite in lattina (più zucchero, meno vitamine, minori costi di un succo fresco ma maggiori guadagni) ha portato, tra l’altro, alla presidenza del Messico il presidente messicano della Coca Cola. Il postideologico, commenta Zoja, è diventato neoaziendale.
Anche qui, nulla di particolarmente nuovo, se non fosse che anche i tra i più colti che navigano costantemente in Internet, il 51% degli italiani secondo la più recente indagine del Cnr (Comitato nazionale della ricerca), perlopiù maschi di elevato livello di istruzione e opinion leader come professori e giornalisti, pochi fanno ricerche ad esempio sui temi dell’inquinamento ambientale o sul Coefficiente di Gini, calcolo che permette di stabilire l’incremento delle disparità di reddito tra i più ricchi e i più poveri del pianeta. La rete non è di per stessa generatrice di maggiore coscienza, e maggiori saperi, ma riflette in pieno il sistema socioeconomico e i rapporti di potere che ne stanno al di fuori. L’impermeabilità anche di questa nuova frontiera della conoscenza a un’economia di “disinteressi interessati” (Perniola, 2004), fondamentale per rimettere ordine nei valori simbolici su cui si basa il riconoscimento sociale delle persone, è effetto ancora una volta delle perversioni del sistema dell’informazione e del potere mediatico? Forse le cause sono più radicali, ma le conseguenze ormai sono sotto gli occhi di tutti. Un senso comune di solito migliore del pensiero di chi detiene le redini del comando, è ancora Noam Chomsky che parla, ridotto a non vedere più dove sta il male. “Essere circondati dal mulino bianco degli oggetti istituisce il mulino nero dell’anima” (Zoja, 2009).
Subire una videocrazia maleducata, che non parla affatto dei cittadini e del loro quotidiano, defrauda del diritto alla propria dignità. Il guaio delle soft news non è troppo poca politica, ma troppa (mala)politica. Sarebbe meglio, anziché farne oggetto di studio, lasciare la politica pop al suo destino: una tendenza diventata moda e, come tutte le mode, passeggera.
:: letture ::
— Ceccarelli F., L’era della politica pop, La Repubblica, 8 ottobre 2009.
— Chomsky N., Capire il potere, a cura di Mitchell P. R., Schoeffel J., Il Saggiatore, Milano, 2007.
— Chomsky N., Herman E. S., La fabbrica del consenso. Ovvero la politica dei mass media, Il Saggiatore, Milano, 2008.
— Perniola M., Contro la comunicazione, Einaudi, Torino, 2004.
— Mazzoleni G., Sfardini A., Politica pop. Da “Porta a Porta” a “L’isola dei famosi”, Il Mulino, Bologna, 2009.
— Zoja L., Il mulino bianco e il mulino nero, Il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2009.