Ci voleva un Re Mida delle serie televisive come J.J. Abrams, il tanto decantato autore di Lost, per far rivivere sul grande schermo (su quello piccolo per ora non se ne parla) la serie per eccellenza, quella di Star Trek. Guardando il suo ultimo film con gli occhi dell’esperto del marketing sarebbe difficile non essere soddisfatti: 385 milioni di dollari incassati in tutto il mondo, laddove i precedenti film al loro meglio non ne avevano racimolati nemmeno la metà. Il pubblico è rimasto perlopiù soddisfatto, l’appassionato tutto sommato convinto che poteva andare peggio e che l’importante è pur sempre evitare la morte di Star Trek. Eppure, lo Star Trek di Gene Roddenberry, che ne era stato il creatore e l’indiscusso padre dal lontano 1966 fino alla sua scomparsa nel 1991 (benedicendo alla fonte battesimale due serie televisive e 6 film), è morto davvero. Non a caso Abrams aveva voluto che per il suo film, l’undicesimo della serie cinematografica, non ci fosse nessun riferimento al numero dell’episodio: mai uno “Star Trek XI”, per carità, ma uno Star Trek in corsivo, l’unico, l’originale. Un nuovo inizio, una creatura completamente nuova. Critici e appassionati si sono presi a capelli per mesi sui reali meriti del film di Abrams. Il soggetto banale od originale, la trama ricca di errori o di gentili omaggi, gli attori fuori posto o perfetti per la parte: de gustibus non disputandum est...
Il problema principale che pochi hanno posto riguarda l’etica stessa di Star Trek: un problema che certo non si pongono gli smaliziati sostenitori dell’idea che il cinema sia solo una macchina per far soldi, una questione di marketing, di pubblicità e di uscite strategiche nelle sale. E se forse questo non vale per Truffaut e Bertolucci, vale per i cine-panettoni che rinvigoriscono il cinema italiano ogni anno e per i sequel dei grandi blockbuster-movie che le case di produzione sfornano in continuazione per battere il ferro finché è caldo. Oggi è così anche per Star Trek, nient’altro che un’operazione pensata a tavolino per ridare linfa a una serie disastrata come già era stato fatto per l’epopea di 007 e si era tentato persino di fare per Rocky Balboa e magari per Indiana Jones. Eppure che esistesse uno spirito o meglio un’etica di Star Trek se n’erano accorti in molti, addirittura dedicando al tema un lungo libro, L’Etica di Star Trek, uscito nel 2000 e scritto da una studiosa di filosofia, Judith Barad, e da un esperto di cultura popolare, Ed Robertson. Anche l’edizione online del settimanale inglese Newsweek aveva dedicato un articolo al film di Abrams dall’eloquente titolo Enterprise Ethics, chiedendosi: “Star Trek ha perso la sua rilevanza morale?”. Senza scomodare le serie successive del telefilm e gli episodi cinematografici dedicati all’equipaggio della “nuova generazione”, ma limitandosi alla Serie classica e ai film connessi di cui questo Star Trek punta a essere l’emulo, possono essere estrapolati letteralmente centinaia di esempi chiarificatori di una “etica di Star Trek”.
Lo stesso Gene Roddenberry, in una famosa intervista, dichiarò: “Mi accorsi che creando un mondo a parte, un mondo nuovo con regole nuove, si poteva parlare con più facilità di sesso, religione, Vietnam, alleanze, politica, missili intercontinentali. È quello che facemmo in Star Trek”. Non è un mistero che il conflitto a bassa intensità tra la Federazione e i Klingon ripreso in molte puntate della serie alludesse alla Guerra fredda, fin nella retorica usata da Kirk per distinguere “noi” da “loro”, che poi nell’episodio Missione di pace verrà smussata a favore di un presa di coscienza pacifista. La scelta di giungere a una pace definitiva tra i Klingon e la Federazione fu presa proprio da Roddenberry che volle narrarla nell’ultimo film con l’equipaggio della vecchia Enterprise, tra l’altro a lui dedicato, Rotta verso l’Ignoto. Era un modo per mettere anche in questo universo la parola fine alla Guerra fredda che non a caso quando il film uscì (1991) era ormai terminata. La diffidenza reciproca tra le due parti (“Non mi sono mai fidato dei Klingon, né mai lo farò”, recitava Kirk) e la paura del futuro viene in questo film esorcizzata dalla volontà di pace: “Alcune persone credono che il futuro sia la fine della storia”, rifletteva sempre Kirk nelle ultime scene, in quello che per molti era una critica alla visione ottusa di Fukuyama nel suo omonimo best-seller La fine della storia e l’ultimo uomo. Eppure sarà proprio il capitano dell’Enterprise, il cui figlio era stato ucciso dai Klingon, a salvare la pace e addentrarsi per primo in quel territorio inesplorato (Undiscovered country) che dava il titolo alla pellicola originale, terminando la celeberrima frase con una significativa correzione: “Arrivare là dove nessun uomo… dove nessuno è mai giunto prima”. Il pacifismo di Star Trek, dove la guerra fine a se stessa è sempre seccamente condannata, si ritrova anche in una splendida puntata A taste of Armageddon (in italiano Una guerra incredibile). Nell’episodio l’Enterprise scopre che i due mondi vicini di Erminian e Vendikar sono in guerra tra loro da centinaia di anni, al punto da aver sviluppato una tecnica incredibile per evitare i danni alle rispettive economie derivanti da una guerra infinita: lanciare attacchi del tutto virtuali, i cui danni (anch’essi virtuali) vengono calcolati da un supercomputer che decide il numero stimato di vittime. Ben poco di virtuale c’è però nell’imposizione sociale di uccidere concretamente, attraverso eutanasia, l’esatto numero di presunte vittime prodotte dall’attacco. Così le economie di guerra dei due mondi continuano a svilupparsi e a portare avanti il conflitto per sempre, mentre persone innocenti vengono sacrificate affinché il perverso gioco possa continuare. “Morte. Distruzione. Malattie. Orrore. La guerra è tutto questo. Tutto ciò la rende una cosa da evitare”, sentenziava Kirk nel suo sforzo di raggiungere una pace tra i due pianeti.
Un altro importantissimo tema trattato nella serie è quello del razzismo. Nell’episodio della terza stagione Sia questa l’ultima battaglia l’Enterprise offriva protezione a Lokai, un alieno dal volto mezzo bianco e mezzo nero, inseguito da Bele il cui volto ha gli stessi colori ma disposti in modo speculare: due specie di uno stesso pianeta divise da un profondo odio razziale derivante dalla diversa disposizione dei colori del viso. Un modo, per Roddenberry, di parlare di razzismo senza trattare il tema nella sua accezione contemporanea quando negli Stati Uniti si era appena usciti dalla segregazione razziale; Cechov poteva dire, nell’episodio, che “una volta” esisteva anche sulla Terra il razzismo, o almeno così lui aveva letto “nei libri di storia”. Nello storico episodio Plato’s Stepchildren (in italiano Umiliati per forza maggiore) il capitano Kirk e Uhura sono costretti da una specie aliena di telepati a baciarsi contro la loro volontà: è il primo bacio tra un bianco e un nero su uno schermo americano, girato 36 volte per renderlo più carico di intensità possibile; solo un anno dopo la fine de facto del divieto contro i matrimoni misti in tutti gli Stati Uniti. Che differenza rispetto alla Uhura del film di Abrams che cerca di incarnare (senza alcun successo) gli stereotipi femministi di una donna che non cede al fascino del playboy Kirk ma preferisce innamorarsi dell’imperturbabile Spock! Il razzismo del resto era anche il tema de L’Ira di Khan, il secondo film della serie cinematografica, seguito dell’episodio Space Seed della seconda stagione del telefilm. L’eugenetica qui costituiva l’elemento dominante: Khan, leader dei superuomini un tempo signori della Terra grazie, si ritiene superiore all’equipaggio dell’Enteprise e al resto della Federazione non per le proprie capacità acquisite ma per un potere derivante dai suoi geni modificati. L’immagine di Kirk che inforca gli occhiali da vista e lo batte con l’astuzia è una delle più riuscite dai tempi di Davide che batte Golia o Ulisse che sconfigge il Ciclope.
Impossibile poi non ricordare un tema scottante che fu ciò nonostante affrontato nel pur mediocre L’ultima frontiera (quinto film): l’eutanasia. Il dottor McCoy veniva costretto da Sybok a rivivere il drammatico momento del suo passato in cui, incapace di salvare il padre affetto da un’incurabile malattia, decideva di somministrargli una dolce morte per porre fine alle sue indicibili sofferenze, benché poco dopo fosse stata trovata una cura decisiva. Un tema che fa discutere violentemente oggi, e che all’epoca del film era un vero pugno in faccia. Del resto spesso la morte in Star Trek ha assunto un ruolo importante come motivo di riflessione. Basti ricordare quella più celebre di tutte, la morte di Spock nel secondo film: il sacrificio imposto dalla logica perché “le esigenze dei molti valgono più di quelle dei pochi, o di uno”. Una logica rigettata da Kirk che nel film successivo non temeva di mettere a rischio la sua carriera e la sua stessa vita, seguito dai colleghi veterani di mille avventure, per restituire il karma di Spock al suo corpo rigenerato, perché “a volte, le esigenze di uno valgono più di quelle di molti”. O anche la morte forse più drammatica in assoluto nella serie di Star Trek, quella dell’episodio The City on the Edge of Forever (nella versione italiana Uccidere per amore): qui Kirk e Spock, giunti sulla Terra degli anni ’30 per salvare il dottor McCoy gettatosi per incidente in una porta dimensionale su un pianeta sconosciuto, incontravano la bella Edith, direttrice di un istituto per nullatenenti e attivista contro la guerra. Quando Kirk ed Edith s’innamorano l’uno dell’altra la linea temporale rischia di essere drammaticamente distorta, al punto da consentire al nazismo di vincere la guerra mondiale: perciò Spock dovrà convincere Kirk che l’unica soluzione è di assistere impotenti alla morte di Edith travolta da un’auto in corsa. Forse in quest’episodio c’è la prima elaborazione della filosofia vulcaniana esplicitata poi in L’Ira di Khan da Spock morente; certo una distanza incredibile dall’ultimo Star Trek dove anche l’ecatombe di un mondo intero come Vulcano viene trattata in maniera semplicistica lanciando Spock al salvataggio dei suoi genitori in evidente contraddizione con il personaggio voluto da Roddenberry.
Secondo Susan Sackett, che è stata a lungo assistente esecutiva di Gene Roddenberry e produttrice associata di diversi film della serie, “Star Trek non è questione di effetti speciali, ma riguarda la condizione umana”. Affermazione forse impegnativa, ma che meglio di tutte conferma l’idea di un’etica di Star Trek, essendo l’etica inestricabilmente legata alla condizione umana e all’agire che ne deriva. Quali sono allora i grandi temi etici inseriti da Abrams e dai suoi due fidati sceneggiatori, Kuzman e Orci, nell’ultimo Star Trek? Gli autori hanno citato il problema etico rappresentato dal mentire, visto che Kirk falsifica il test della Kobayashi-Maru perché non accetta di perdere; senza dubbio interessante, ma se n’era già discusso in L’Ira di Khan di cui tutta la sequenza del test Kobayashi-Maru è un fedele omaggio. L’altro tema che sembra emergere è quello dell’umanità di Spock, ossia della sua difficoltà a far convivere la personalità umana con quella vulcaniana. Ma un numero incredibile di episodi della serie classica si fondava proprio sul dilemma esistenziale di Spock, sulla sua condizione umana/vulcaniana. E il tema era stato scelto come l’elemento dominante del primo film, lo Star Trek diretto da Robert Wise. Qui l’equipaggio dell’Enterprise si confrontava con la minaccia di V’ger, un’immensa e potentissima nave spaziale completamente automatizzata dominata da una logica ferra: una sfida drammatica per la logica di Spock, appena uscita da un fallito tentativo di cancellare la sua metà umana su Vulcano. Al termine del film Spock si rendeva conto che proprio nell’estrema logica di V’ger risiedeva anche la sua debolezza, e che la superiorità del vulcaniano stava invece nel riuscire a mantenere anche una propria parte umana. Come sintetizzerà lo stesso Spock nel sesto film, con una mirabile frase: “La logica è solo l’anticamera della saggezza, non il suo epilogo”.
In definitiva l’operazione di J.J. Abrams ha trasformato Star Trek in uno dei tantissimi prodotti commerciali per l’intrattenimento che oggi affollano sale cinematografiche e televisioni. La logica spersonalizzante del marketing ha dato a “Star Trek” la possibilità di sopravvivere per altri anni, ma rubandone l’anima e l’essenza che gli permettevano di distinguersi da tanta pseudo-fantascienza oggi di moda. Il prodotto patinato targato Abrams non si distinguerà più, cosicché potremo vedere una puntata di Lost, un nuovo episodio di Mission: Impossible o di Star Trek e credere di star vedendo sempre la stessa cosa. Perché in fin dei conti sarà proprio così.
:: letture ::
— Barad J., Robertson E., The Ethics of Star Trek, 2000, ed. it. L'etica di Star Trek, Longanesi, Milano, 2003
— Bain M., Enterprise Ethics, "Newsweek", 6 maggio 2009.
:: visioni ::
— Abrams J.J., Star Trek, Paramount Pictures, Usa, 2009, Paramount Home Entertainment, 2009.
— Meyer N., Star Trek II – L’Ira di Khan, Usa, 1982, Paramount Home Entertainment, 2009.
— Meyer N., Star Trek VI – Rotta verso l’ignoto, Usa 1991, Paramount Home Entertainment, 2009.
— Nimoy L., Star Trek III – Alla ricerca di Spock, Usa, 1984, Paramount Home Entertainment, 2009.
— Shatner W., Star Trek V – L’ultima frontiera, Usa, 1989, Paramount Home Entertainment, 2009.
— Wise R., Star Trek – The Motion Picture, Usa, 1979, Paramount Home Entertainment, 2009.