Terza o Quarta Via, lo sapevano già i Romani, tertium
non datur. A prima vista il progetto di emancipazione
radicale di cui teorizza Slavoj Žižek in In difesa delle cause
perse (Žižek, 2009a), dando conto
dell’attuale dibattito sul superamento della democrazia
capitalista, potrebbe sembrare proprio questo e perciò
inattuabile. Pur non essendo il migliore dei sistemi possibili, il
capitalismo è l’unico che ha sempre funzionato, a
dispetto di Marx, Lenin e tutti i loro seguaci.
Allora, “Che fare?” Il filosofo e psicanalista
sloveno rovescia la prospettiva proponendo l’impensabile: i
fallimenti non sono davvero tali, come già intuito da Samuel
Beckett: “ Prova di nuovo. Fallisci ancora. Fallisci
meglio” (Beckett, 1986, pag. 67). Essi indicano, come il
sintomo patologico freudiano contiene il nucleo della vera
personalità del paziente, la via maestra per riscoprire e
realizzare l’autonomia del soggetto, per farlo diventare un
cittadino in grado di difendere i propri interessi
“bombardando i potenti con domande strategicamente ben
scelte, precise, finite…” (Žižek, 2009a, pag.
435). Ma il processo richiede una vera e propria demistificazione di
tutti i luoghi comuni, le retoriche, le false coscienze, i miti e i
riti di una coesione sociale ottenuta a prezzo della prevaricazione dei
soggetti più deboli, che poi di volta in volta sono tutti
gli uomini, a seconda dei rapporti di forza che si instaurano tra loro.
Karl Marx e Sigmund Freud avevano indicato la strada e fornito gli
strumenti proprio a tale scopo. Possibile che i revisionismi, i
populismi, i moralismi, i fideismi, le demagogie dell’ultimo
scorcio del Novecento abbiano fatto perdere queste preziosissime
bussole? Con un lavoro davvero improbo, che implica uno sforzo
intellettuale da Titano, Žižek ha scritto pagine e pagine sulla
questione, affrontandola sul piano sociologico e psicoanalitico e
scrivendo pagine imprescindibili – e molto godibili
– su argomenti filosofici e politici che meritano davvero una
riflessione approfondita da parte di tutti. Anche se solo lui sa
padroneggiare così e mettere in relazione tra loro Cartesio
e Spinoza, Kant e Hegel e soprattutto analizzare Jacques Lacan, per
fornire una guida perversa alla modernità, perversa come la
dimensione più radicale dell’esistenza
umana.
Ecco allora anche la cultura pop, di cui Žižek si rivela un profondo
conoscitore, assumere tutta un’altra dimensione, fuori dalle
retoriche del marketing e delle classifiche di vendita. Così
il senso del cinema, analizzato in quel capolavoro di critica
cinematografica “ermeneutica” che è
l’altro libro di Žižek, Lacrimae rerum
(Žižek, 2009b), non consiste soltanto nelle due ore di svago che regala
alla platea.
“I film non solo non sono quello che sembrano, ma soprattutto
sembrano quello che non possono essere”, si legge sul
risvolto di copertina. Perché l’inconscio
– di Krzysztof Kieslowsky, di Alfred Hitchcock, di Andrej
Tarkoskij, di David Lynch, dei registi di Casablanca
e di Pic Nic ad Hanging Rock per non parlare dei
fratelli Wachoswki, gli autori di Matrix
– è un linguaggio ed è per questo che
la psicoanalisi, nonostante le numerose campane a morto, è
ancora più viva che mai.
Perché le scene per cui è famoso Hitchcock
tengono il pubblico con il fiato sospeso? A partire dalla scoperta
nelle pieghe delle sue sceneggiature di dettagli apparentemente inutili
nell’economia della trama, Žižek conclude che evidentemente
il regista è partito da alcuni temi che tormentavano la sua
immaginazione per costruirci sopra solo dopo la narrazione; ha
inventato certe storie allo scopo di girare un certo tipo di scene; le
quali costituiscono, come il sinthomo lacaniano,
non un significato, un senso, ma la pienezza di un investimento
libidico. Per questo motivo, e non perché sia il maestro
della suspense, e nonostante “le sue trame offrano un punto
di vista divertente e spesso perspicace sui nostri tempi, è
nei suoi sinthomi che Hitchcock vive per sempre:
essi sono il vero motivo per cui i suoi film continuano a fungere da
oggetti del nostro desiderio” (Žižek, 2009b, pag. 121).
Altro film e stesso investimento libidico: tutta la censura
hollywoodiana è strumentale alla sessualizzazione di ogni
scena epurata. Vedendo Casablanca – nel
dialogo in albergo tra Rick e Ilse per i passaporti, in cui
l’ambiguità del concatenarsi di uno scambio di
battute con alcune sospensioni spazio-temporali dell’azione
potrebbe far pensare che abbiano fatto l’amore (o anche no)
– si è autorizzati a immaginarsi la scena di sesso
oppure no, a seconda del proprio grado di sofisticazione intellettuale.
Ma non c’è bisogno di due spettatori diversi. Per
le convenienze sociali non c’è stata scena di
sesso ma, in uno stesso individuo, per “la sua immaginazione
fantasmatica indecente, sì; questa è la struttura
della trasgressione innata allo stato puro: Hollywood ha bisogno di ambedue
(il corsivo è dell’autore) i livelli per
funzionare” (Žižek, 2009b, pag. 190). Perché le
apparenze contano. Ma oggi che il sesso è ossessivamente ed
indecentemente, Žižek direbbe oscenamente, esibito, dove sta la sua
carica erotica? Non certo nel corpo delle donne “senza
donne” della televisione post civiltà. Ma
attenzione, seguendo il pensiero di Žižek – che postmoderno
non vuole essere definito: per lui siamo ancora dentro la
modernità e dobbiamo saper affinare gli strumenti
interpretativi per capirla e indirizzarla – bisogna
concludere che la donna oggetto è riprovevole non per
motivi, ma nel nostro stesso interesse. Perché non
è vero che al posto dell’etica oggi comanda
l’estetica: le due istanze non sono contrapposte. Ad essere
contrapposti sono, come sempre, gli interessi di parte – e le
donne paiono non saper più difendere i loro –
diabolicamente sminuzzati e miscelati nel frullatore
mediatico.
Allo stesso modo opera anche la saga di Matrix che
vista da uno spettatore “ingenuo” dà
buoni motivi per credere che la realtà non esiste
più. La Realtà Virtuale, liberando gli uomini dai
loro corpi, ha liberato anche le macchine dalle
“loro” persone.
Cosa significa se Mike Bongiorno, nello spot ancora andato in onda dopo
i suoi funerali, diventa un simulacro che sembra ripetere:
“Sono il solo ancora vivo. Voi siete tutti morti”?
(Dick, 1995, pag. 141). Che un po’ morto lo spettatore lo
è – lo hanno fatto diventare –
veramente, incapace di distinguere un fatto da un sedicente evento, una
presa di posizione politica da uno show, un ragionamento da una
seduzione, una notizia da una pubblicità, un classico della
letteratura da un best seller, una performance di body art da una
mascherata.
Gli intellettuali come Žižek non devono smettere di “perdere
tempo” a riscattare la cultura perché le
virtù civiche non verranno certo riscattate dal televoto, ma
nemmeno da Internet.
Il cyberspazio, non più democratico della tv –
l’interfacciamoci di Twitter è
un’esortazione a guardare uno schermo e non una faccia e
dietro gli amici di Facebook non si sa chi si nasconde –
è una soluzione molto comoda per chi non tollera la
relazione con gli altri. Oggi sopportati solo se
“decaffeinati”: come si consumano caffè
senza caffeina, vino o birra senza alcol, biscotti senza zucchero,
pasta senza glutine, latte senza lattosio, maiale senza grasso, anche
uno sguardo, una parola o un contatto di troppo vengono subito
scambiati, e accusati, di molestia sessuale.
Molto meglio nascondere la propria identità, e le proprie
perversioni, stando comodamente seduti al computer. Nella Rete la
coscienza si scarica dentro a un computer elevando a realtà
le paranoie di cosa ci sia dietro lo schermo nello stesso tempo in cui
lo schermo rende immateriale la realtà. Ma il cosa
c’è, il che cosa si mette dietro lo schermo,
è il nostro fantasma fondamentale impossibile da accettare
come si dovrebbe per tenerlo alla giusta distanza. Anche la tecnologia
in definitiva non è affatto capace di regolare i legami
socio-simbolici che invece “…
già-sempre sovradeterminano il modo in cui il cyberspazio
influisce su di noi” (Žižek, 2009b, pag. 369).
Nella logica lacaniana del soggetto interpassivo, che si afferma
proprio oggi che tanto si parla di interattività del web
2.0, è paradossalmente solo quando un individuo indossa una
maschera, o il travestimento in chat, che è capace di
mostrare il suo vero volto. Perché si avvicina al “carattere
essenziale dell’apparenza stessa” (Žižek,
2009b, pag. 191), che è il segreto di cui va in cerca chi
è in analisi. Ancora una volta, le apparenze contano; la
perversione non è una qualche deviazione dal comportamento
sessuale lecito – tutti abbiamo un lato oscuro – ma
il vantare un accesso diretto all’Ordine Simbolico. Se invece
si riescono a integrare le fantasie oscene nella sfera pubblica della
Legge simbolica del grande Altro, il personaggio adottato
nell’interazione sociale è più
autentico di quanto uno sente in sé.
Un po’ come la questione marxiana della falsa coscienza,
rovesciata ulteriormente. Solo una lettura sbagliata di Lacan conduce
infatti a identificare la principessa Diana come “figura
dell’insorgenza” (Žižek, 2009a, pag. 435). Provare
un’emozione, come ripetono ossessivamente i
“giovani adulti” e gli “adulti
giovani” di oggi, quando ascoltano una canzone di Michael
Jackson o piangono ai funerali di Lady D., non vuol dire spogliarsi
della propria identità, del proprio ruolo sociale, del
proprio posto nell’Ordine Simbolico ed essere semplicemente
in sintonia con sé stessi, come pretendono certe
mistificazioni di stampo New Age.
Invece di indulgere in simili atteggiamenti adolescenziali,
perché non avere il coraggio di avvicinarci al luogo della
nostra verità, non una profonda Verità con la V
maiuscola, ma l’insopportabile verità con cui
imparare a convivere? Compiendo finalmente una vera scelta, per Žižek
fuori dal campo della morale, come quella dell’uomo capace di
rinunciare alla propria donna, conquistandone per sempre
l’amore, pur se la desidera molto, anzi proprio
perché la desidera così tanto, non per
rispettarla ma per una Causa superiore?
E possibilmente buttando via la coperta di Linus (il guanto bianco di
Michael Jackson? il “santino” di Lady D?).
Perché il “grande Altro”, il terzo che
sta al di fuori di noi e ci guarda, non garantisce nulla rispetto al
nostro desiderio. Come aveva già capito Italo Svevo ai primi
del Novecento nella Coscienza di Zeno con la
magistrale lettera di congedo dal suo psicanalista.
Ma allora, “per un dare un senso a questa storia se un senso
non ce l’ha” (Vasco Rossi), non basta riconoscere
che le nostre azioni e le nostre parole sono governate dalla Legge
dell’Ordine Simbolico che ha molteplici supporti fantasmatici
piazzati da sempre in Dio, da Freud nell’inconscio e dal
materialismo dialettico nella Storia. Ora che “Dio
è morto, Marx è morto e anch’io non mi
sento troppo bene” (Woody Allen), bisogna rimboccarsi le
maniche e ripensare il tutto, proprio come ha fatto Žižek.
Lezione numero uno. Smettiamola di accettare acriticamente le
democrazie liberali: ciò significa non conoscerne il limite
fondamentale consistente nel farci credere di desiderare veramente
quello che invece ci viene imposto, e che i totalitarismi imponevano
senza ipocrisie, lasciando spazio alla libertà di coscienza.
In altre parole, non basta che tu, cittadino, sia un ricco,
bello, magro e felice consumatore, ma devi anche volerlo essere. Se non
lo fai sei out, altro che libertà.
Questo inganno è smascherato fin dalle prime pagine di In
difesa delle cause perse nel confronto
che l’autore fa tra Le vite degli altri e
Goodbye Lenin, i due più famosi film
sulla caduta del Muro di Berlino. A dispetto del loro obiettivo
“alto”, sono incapaci di sfuggire
all’eterno cliché hollywoodiano della
“costruzione della coppia” (e la morte della donna
nel primo non va fraintesa, perché qui la coppia si
rivelerà essere quella dello spiato e della spia cui viene
dedicato il libro nell’ultima scena).
Mentre nel secondo, voler nascondere a tutti i costi alla madre
nostalgica la vittoria della democrazia nell’ex Ddr
rappresenta il riconoscimento del fallimento del comunismo in
contrapposizione alla libertà, sullo sfondo
dell’imperativo etico/sentimentale di proteggere le illusioni
delle persone che si amano. Ma la resistenza del popolo
all’ideologia ufficiale, avverte Žižek, fu al contrario
indizio del suo successo, perché la dittatura era nata
proprio per mettere in pratica gli ideali per i quali lottarono poi i
dissidenti, la giustizia, la libertà, la pace ecc. ecc.
Lezione numero due. Non esistono “macchie indelebili nel
corso della storia” (Antonio Gnoli, 2009), non Robespierre
con il suo terrore come imperativo etico, né
l’adesione di Heidegger al nazismo, o il Mao della
rivoluzione culturale e nemmeno lo Stalin che pur di realizzare il
socialismo in un solo paese puniva con la morte i suoi traditori
peraltro immaginari (e proprio per la loro innocenza, secondo il
dittatore, ancora più meritevoli di essere puniti). Questa
concezione della storia è opera del pensiero debole frutto
del relativismo. Occorre una scarto interpretativo e ideale allo scopo
di rintracciare la vera autonomia del soggetto nelle sue vicende
esistenziali, per decifrare le quali è necessario stabilire
i nessi tra ordine Simbolico, Reale e Immaginario.
Le “cause perse” della dialettica materialista non
sono dei fallimenti. La vera causa persa è il capitalismo
con la sua ambiguità intrinseca. Sta a noi non subirne
più le retoriche. E leggere Žižek è un grande
aiuto. Non solo per chi crede oggi che attuare il liberalismo sia
diventato compito della sinistra radicale, assumendosi i rischi di una
presa di posizione creativa e rigorosa. E perché a credere
che il Mercato abbia capacità autoregolatrici, e anche dei
rapporti umani, si incappa come minimo in crisi economiche di
dimensioni globali non previste da nessuno dei suoi protagonisti. Ma
perché la fiducia incondizionata nella naturalizzazione del
capitalismo come forma della migliore società possibile
“nega gli antagonismi al suo interno” (nel campo
dell’ecologia, delle nuove emarginazioni,
dell’etica delle tecnoscienze e in quello della
proprietà privata in relazione alla proprietà
intellettuale) “ che sono sufficientemente forti da
prevenirne una riproduzione infinita” (Žižek, 2009a, pag.
522).
Lezione numero tre. A Žižek non interessa affatto riabilitare il
comunismo, ma proporre i Materiali per la rivoluzione globale
del sottotitolo, la cui profondità teorica
rappresenta piuttosto il percorso intellettuale dell’unico
vero pensatore realmente controcorrente – i suoi paradossi
non sono mai soltanto tali e accetta la sfida di fallire /meglio/ anche
lui – in una contemporaneità devastata dal
relativismo cognitivo e morale dove “il populismo buono (a
volte) in pratica ma non abbastanza buono in teoria” (Žižek,
2009a, pag. 329) sostiene la volontà di potere di personaggi
asserviti a logiche del tutto estranee al bene comune. Una
profondità teorica che è anche un modo per far
piazza pulita di certe imbecillità tautologiche,
l’espressione è di Žižek, molto diffuse del tipo:
la grandezza di un uomo risiede nella sua ricchezza interiore. Se il
“grande Altro” lacaniano, il significante della
Legge che governa le nostre azioni, non esiste più,
è necessario portare il peso della continuazione della
Storia con altri mezzi. Ma forse si dovrebbe far presente a Žižek che
il cittadino italiano medio, come ha osservato Michele Serra su
un’“Amaca” di Repubblica dello
scorso settembre, o anche l’uomo del villaggio globale,
più che rifiutare il comunismo, oggi le tenta tutte per
sfuggire al capitalismo, ovvero impegnarsi e faticare. Anche se lo
abbiamo già sentito rispondere con l’ultima e
più importante lezione. Il nuovo “autoritarismo
permissivo” impone allo stesso tempo godere e dovere. Ci
sfida sul terreno del dover essere senza proibire
ma imponendo di godere. Solo che adesso godiamo in
pubblico – in tv, nei reality, persino sui palcoscenici della
politica invasi dalla chiacchiera e dalla battuta da bar – e
soffriamo in privato, perché a certe cose ci crediamo
ancora.
Che il SuperIo continui a fare brutti scherzi?
:: letture ::
— Beckett S., Compagnia – Worstward Ho, Jaca Book, Milano, 1986.
— Dick P.K., Ubik, Fanucci Editore, Roma, 1995.
— Gnoli A., Il pensiero fortissimo di Slavoj Žižek, Repubblica, 4 luglio 2009.
— Žižek S. (a), In difesa delle cause perse, Ponte alle Grazie, Milano, 2009.
— Žižek S.(b), Lacrimae rerum, Saggi sul cinema e il cyberspazio, Libri Scheiwiller, Milano, 2009.