Chissà
se c’entra con l’eclisse della ragione questo
periodo di intellettuale spasmo collettivo che ci tocca vivere...
Somiglia ad un trapasso duraturo, che baratta
l’istante replicando, morendo a rate, invece che
d’un pezzo. Dove la stupidità s’insinua
pigramente, indolente mette le radici, così, per niente,
senza raccapriccio, perché è così che
fa. E trova disponibile il ventre molle della società, che
feconda senza troppa voglia, e i rapidi frutti disperde in un crogiolo
di diversiforme niente. S’apre inspiegabilmente
all’infinito delle possibilità.
S’inaugura e si congeda, così, tutto da
sé. Nello sbadiglio d’impegno, la
società non le resiste, muore, a gara con lei, in uno
sfacelo composto. Sapròfita, si deposita in detriti
nell’immaginario, diventa melma, da cui, a forza, si libera
l’intelligenza che, sgocciolando, se ne va.
Noi ci siamo abituati a credere in
due regni, al regno dei fini e della volontà e al regno dei
casi. In questo ultimo l’accadere privo di senso, le cose
vanno, stanno e accadono senza che nessuno possa dire per quale motivo,
a che scopo. Temiamo questo possente regno della grande
stupidità cosmica perché il più delle
volte veniamo a conoscerlo per il fatto che nell’altro mondo,
in quello dei fini e delle intenzioni, gli casca dentro come una tegola
dal tetto, colpendoci a morte, una qualche bella finalità.
(Nietzsche, 1964)
Ostinata rimane solo la stupidità, non solo per
questioni di ragioneria. S’intigna, per circostanza:
… uno è stupido nello stesso modo in
cui un altro ha i capelli rossi. ( Cipolla, p.48). Le
parole sono tane e nascondigli: stupido è un iponimo, ma,
lungi dall’essere un sottomultiplo, per così dire,
di un iperonimo, è un’oceanica folla di pochi. Una
densa colata di bitume. Liberi siamo liberi. Tanto abbiamo fatto per
liberarci di metafisiche, di ideologie, di laboratoriali teorie, di
appoggi, tutto per diventare quel che siamo oggi: imbecilli.
Etimo certo: “in-baculus”, colui che si appoggia al
bastone. Protesi della mente, del corpo e persino della fantasia:
strizzata, resa cieca come una talpa, però occhialuta, dopo
l’indotta cecità. Quanto ci costa questa
civiltà che teme, lasciando il bastone, di scoprirsi zoppa,
che, socchiudendo gli occhi, attende il delicato tracollo… Una
volta occorreva un sapere per essere in grado di realizzare i
proponimenti, oggi si fa come la mosca – emblema della
stupidità – che sbatte più volte contro
il vetro, finché non imbrocca l’uscita. Pare
che gli “stupìti”, o stupidi,
che dir si voglia – pure troppo evidente l’etimo
per stare a spiegarlo – siano oggi in numero maggiore,
rispetto agli idioti, per esempio. C’è una
distinzione – cavillosa sì – da fare tra
idioti e stupidi, per capire se questi, poi, siano meglio di quelli.
L’idiozia è un comportamento che singolarizza
rispetto ai comportamenti medi – L’idiota
di Dostoevskij – ma condivide con la stupidità
l’analgesica costipazione del dubbio. L’idiota
intensifica un suo tratto fino al parossismo, contro la
medietà, è colui che va fino in fondo, arrivando
all’estremo (lo è, in tal senso, un rapinatore,
perché fuori delle regole, o un santo, come San
Francesco, per dirne uno). L’idiota è chi si tira
fuori, privato del contingente, mentre, esattamente al contrario, la
testa dello stupido è allagata dal presente. Lo stupido
è folgorato, è il paradigma dello stordimento
sinestetico: colui che è colpito da repentino stupore e ha,
perciò, una percezione disorganizzata del presente. Stupore
che si cronicizza e, insieme, si consuma
nell'istante, con la propensione, non già a
fermarlo, ma ad aiutarlo a svanire. L’idiosincratico
idiota si trae fuori. È lo “straniero”,
l’esiliato, dotato di un’intelligenza primaria che
deforma i processi esistenziali… la salvezza gli
sarebbe inutile. Proprio a rimestare nel secchio
degli avanzi, idiozia e stupidità possono apparire
come istigazione all’intelligenza… ma
proprio… Lo stupido non è
attrezzato a reggere lo schianto: non v’è la
possibilità di ripiegare sulla domanda, di leggere nelle
cose, perché, nel flusso continuo, egli non può
fissare lo sguardo, prerogativa dell’intelligenza (intelligere
è leggere dentro le cose) che, tra lo scorrere e
il putrefare, si protesizza, si rimbecillisce, preferisce spesso
l’entimema al sillogismo, è assertiva
senza essere riflessiva, è ragionevole senza essere
razionale, logica, senza ipotesi e tesi. Eppure l’idiota ci
mette il fegato, il cuore… e altre frattaglie, ma
resta uno spaesato. Lo stupido, l’idiota,
l’imbecille, dunque, nel loro essere morbo, ci salvano
perché il loro esserci ci fa sentire migliori. E ci fa
avvertire la nostra posizione come indecidibile. Sono la ragione di
un’intelligenza eccentrica, ché ha perduto il suo
centro e, sperabilmente, il sonno. Sono: Come tanti sonagli
sul berretto di un Dio buffone e deludente, […] sanno farsi
scuotere solo dalla supposta ostilità del suo arbitrio
(Vittorio Strada, 1986). L’intelligenza rischia, nel loro
farsi numero, di trasformarsi, nell’immaginario collettivo,
in una tara ereditaria rimediabile.
Non c’è niente
di più triste che, per esempio, essere ricchi, di buona
famiglia, di bell’aspetto, abbastanza istruiti e
intelligenti, persino buoni, e al tempo stesso non avere nessun
talento, nessuna peculiarità, neanche una stranezza
né un’idea originale, insomma essere proprio
‘come tutti’. La ricchezza c’è
[…] ma non si è mai distinta in nulla;
l’apparenza è piacevole, ma poco espressiva;
l’educazione passabile, ma non si sa come metterla a frutto;
l’intelligenza c’è, ma senza idee
proprie ; il cuore c’è ma senza
magnanimità e così via per tutti gli altri
aspetti […]. Per l’uomo
‘comune’ limitato, non c’è
niente di più facile che immaginare se stesso come una
persona poco comune e originale, compiacendosene senza alcun
tentennamento. […] La sfrontataggine
dell’ingenuità, in alcuni casi, arriva a livelli
stupefacenti.[…]. Questa sfrontataggine è
l’incrollabile fiducia dell’uomo stupido
[…] privo di dubbi […], talmente privo di dubbi
che… per lui le domande non esistono . L’uomo
comune intelligente, anche se qualche volta di sfuggita ha immaginato
di essere uomo geniale e originalissimo[…], conserva nel suo
cuore il tarlo del dubbio che lo conduce alla più totale
disperazione […]. Tuttavia, prima di arrendersi e
rassegnarsi, queste persone a volte ne combinano delle belle.
(Dostoevskij, 1990, pp. 537-538)
Tra la baldoria e il silenzio, la stupidità e
l’idiozia, s’annoda, dunque, la fune
penzolante da cui s’impiccia spesso l’intelligenza
– e le sue protesi – incatenata alla
realtà, ma come un debitore a un cambiale. È
qui, inspiegabile, tra le cose più inspiegabili, che
s’insinua una speranza, alla Gabriel Marcel, uno sperare
senza motivo: non quello della madre che non si rassegna alla perdita
di un figlio e dice: “io non sopporto l’idea che tu
non ci sia, dunque rimane possibile che tu ritorni”, ma un
“tu ritornerai” di pura gratuità che
consuma il suo momento, non attende, che cattura anche il
più riottoso oscitante. Sarà
l’ostinazione a vivere – non si sa se frutto della
stupidità o dell’intelligenza – che ci
recupera perdendoci. Che fa gorgogliare dall’affogo
nell’immaginario collettivo il genio
dell’immaginazione creativa, dell’intelligenza,
sempre morente perché sempre resuscitante, che
nell’ellisse intersecante stupidi, idioti e
imbecilli crea una traiettoria nuova, una inattesa
possibilità. Nella resistenza a ogni esteriorità
(l’idiota) o nella porosità fino alla con-fusione
(lo stupido), traballa nell’immaginario un Io, tenuto insieme
con lo sputo, titolare di un’ intelligenza – sia
pure protesizzata – ancora àncora di salvezza. Un
io che è un impero sconfinato e fragile:
… un impero i cui
confini sono irraggiungibili, è un impero che non
è possibile dominare centralmente, anzi che non è
possibile nemmeno definire. Se non esistono punti periferici, non
esiste neppure un punto centrale, né
comunicazione tra essi […] .Quando parliamo
dell’Io parliamo del potere che un io prende sugli altri io
possibili….che vive ogni istante una morte distanziale, che
opera una distanza, raddoppiando lo sguardo su se stessi e
sul mondo , liberando le singolarità trattenute, dando vita
trasformata agli istanti…una distanza che non è
distacco, ma sguardo narrante; come un accompagnarsi. Essendo
già morti. … L’io è il
delirio del suo nascondimento. (Cantalupo, Carotenuto,
Masullo, Piro, 1997, pp. 12-13).
L’intelligenza lo scova. Allora il problema non
è tanto l’identità indurita (idiota) o
liquida (stupida), ma il lavoro quotidiano dell’intelligenza
stessa che si esercita non sulla … paura che il
mio fragile equilibrio vada in frantumi, che il mio io si disfi, ma
invece il terrore che il mio io sia definitivamente compiuto, sia per
sempre senza diversità (ibidem, p. 37). Esiste un
sentimento dell’intelligenza, mentre non ne esiste uno della
stupidità o dell’idiozia. L’unica che si
dolga del nostro stato è l’intelligenza che, nel
tentativo di liberarsi dalla colla della stupidità, di non
darle “spazio ulteriore per l’esercizio dei suoi
talenti”, direbbe Cipolla, impara col tempo a fare gli errori
giusti. Insomma, stiamo morendo, ma…
niente di serio.
:: letture ::
— Cantalupo P., Carotenuto A., Masullo A., Piro S., L’Io mancante, Loggia de’ Lanzi, Firenze, 1997.
— Cipolla C., Allegro. Ma non troppo, il Mulino, Bologna ,1998.
— Dostoevskij F., Idiot, 1869, trad. it. L’idiota, Garzanti, Milano,1990.
— Nietzsche F., Morgenröte, 1881, trad. it. Aurora - Frammenti postumi 1879-1881, Adelphi, Milano, 1964.
— Strada V., Le veglie della ragione, Einaudi, Torino, 1986.
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