Nel Millenovecentonovantasei un uomo, seduto su una sedia di
fronte a due programmatori, muove il bianco, a muovere il nero
è Deep Blue, un tracotante programma dell’IBM che
ha avuto l’ardire di affrontare il campione mondiale del
gioco degli scacchi, il Gran Maestro Garri Kimovič Kasparov. La platea
resta col fiato sospeso, chi gioca a scacchi sa quanto può
mozzare il fiato anche solo la mossa di un cavallo. La platea
è grande quanto è grande il mondo, ed assiste non
soltanto ad una partita di scacchi, assiste ad una lotta
incommensurabile e cruenta, quella tra l’essere umano e la
macchina. È il tempo delle domande scomode
sull’intelligenza artificiale, della diatriba di fine
millennio di un immaginario umano timoroso di essere soppiantato dal
silicio. Le macchine sanno qualitativamente pensare come gli uomini?
Sanno farlo addirittura meglio? L’immaginario di
fine secolo è denso di questi interrogativi, ne parlano le
riviste scientifiche, ne parla la letteratura, ne parla soprattutto il
cinema. La risposta a questi interrogativi è, spesso,
apocalittica. Si ricordi 2001 Odissea nello spazio
(Kubrick 1968), si ricordi la partita tra HAL 9000 ed il cosmonauta di
Kubrick, i più avveduti ricorderanno anche altro, e faranno
le dovute corrispondenze, il computer di bordo HAL 9000 porta lo stesso
cognome traslato del Deep Blue che ha combattuto contro Kasparov (basta
spostare, nell’alfabeto, indietro di una lettera
l’acronimo IBM per avere HAL). Eccoli, un uomo ed
una macchina a sfidarsi per la supremazia di un genere
sull’altro. Quattro vittorie e due sconfitte a favore di
Kasparov: l’uomo ha battuto la macchina. Tuttavia un anno
più tardi, gli stessi uomini che avevano progettato Deep
Blue migliorano il programma, e la macchina batte l’uomo. Il
computo finisce in pareggio, una vittoria per l’uomo, una per
la macchina. Ma il gioco, quella piattaforma fatta di bianco e di nero,
fatta di sessantaquattro caselle, resta, come è resistito
nei secoli precedenti. Gli scacchi sono la sintesi delle cose mondane,
lo si dica chiaramente, sono stati il luogo in cui uomo e macchina
hanno perpetrato una sfida lunga quanto la storia più
recente, e sono stati, e questo in un periodo più lungo che
arriva fino agli albori della nostra storia, appena dopo Cristo, il
luogo del potere, il luogo dell’uomo alle prese con quanto di
più grande c’è intorno a lui,
l’infinito. Muovere trentadue pedine su un quadrato
di legno è la metafora dell’esistenza, la metafora
delle possibilità, lo scontro con l’ampiezza, con
la dimensione invalicabile della scomposizione, della rifrazione di
un’intelligenza alle prese col suo altro speculare. Gli
scacchi mettono l’uomo davanti a se stesso, sono uno
strumento terribile che moltiplica gli accenti del possibile, e che
dunque impone una prospettiva innumerevole anche alle cose del
quotidiano. La guerra più grande, quella che si verifica tra
il bianco ed il nero, tra due schieramenti di pari valore e forza,
è la guerra che fa da sfondo a quella più
sanguinaria dell’uomo solo contro l’uomo solo,
dell’uno contro l’uno. Ed in questa guerra, va da
sé, tutto è possibile. Sarà forse per
questo che numerose volte il gioco degli scacchi è stato
messo all’indice, proibito da parecchi regimi totalitari,
ultimi tra tutti quello dell’Iraq post Saddam Hussein e
quello dei Talebani in Afghanistan. Gioco terribile, gioco che mette
l’uomo in condizioni di sentirsi soggetto, e di farlo nella
relazione con l’altro, con se stesso. Sarà anche
per questo, forse, che altri regimi totalitari, quello sovietico nella
fattispecie, hanno tentato un’altra via per annullare
l’immenso potere degli scacchi, la via
dell’assimilazione. Come a dire che ciò che non
può essere proibito, ebbene, che sia reso obbligatorio,
strumento del regime e livellamento verso l’alto delle
intelligenze individuali. E sì che la scuola sovietica di
scacchi era una vera e propria società ad intelligenza
diffusa, fatta di un concilio di Gran Maestri più simili a
monaci benedettini che a liberi pensatori, tutti intenti nella ricerca
delle partite, nello studio della tradizione, del passato di un gioco
in cui ogni partita è un libro: magari l’incipit
è lo stesso, ma dal secondo capitolo in poi si possono
scegliere delle strade in grado di stravolgere un intero schema
narrativo. Quando un regime politico ha invece
l’ardire di definirsi democratico, quando affida agli
individui la tremenda promessa di potersi autodeterminare, allora gli
scacchi si fanno forti di un potere ancora più grande di
quello del controllo. È così che nascono le
storie di Bobby Fisher e delle sue bizzarre teorie cospirazioniste,
è così che nascono le storie di Paul Morphy. Come
se non potendo tenere racchiusi tutti i possibili finali di una storia,
questi stessi finali agiscano come un moltiplicatore di prospettive,
capace di destabilizzare anche l’intelletto più
solido ed equilibrato. La storia degli scacchi si accompagna con
costanza a quella della pazzia, la storia della pazzia ha come
interlocutore privilegiato l’insondabile,
l’infinito. Borges disse, per bocca di un eresiarca di Uqbar,
“gli specchi e la copula sono abominevoli, perché
moltiplicano il numero degli uomini” (1944, p. 7). Per Borges
gli specchi, i libri, e, infine, gli scacchi sono tutti strumenti come
lo è l’Aleph, racchiudono l’infinito e
ne fanno mostra all’uomo. È stato
calcolato (Peterson 1996) che una partita di scacchi contempli
10¹²° posizioni differenti (per rendere
questa potenza un numero scritto per intero si provi a scrivere un uno
e subito dopo centoventi volte lo zero), un numero incommensurabile se
si pensa che tutto è racchiuso in un mondo fatto di
sessantaquattro caselle e trentadue figure intagliate nel legno.
È risaputa la storiella del filosofo persiano che dopo aver
battuto il proprio sovrano, durante una partita di scacchi, si
sentì dire dal re “chiedimi quello che
vuoi”. Per tutta risposta l’avveduto filosofo
chiese un chicco di riso per la prima casella, due per la seconda,
quattro per la terza e così a seguire raddoppiando il numero
dei chicchi di riso per ogni casella fino ad arrivare alla
sessantaquattresima. Il sovrano rise considerando la richiesta
irrisoria, fin quando non s’accorse che essa corrispondeva ad
un numero di chicchi di riso superiore a diciotto miliardi di miliardi
(18.466.744.073.709.551.615 per essere precisi), un numero
ragionevolmente immenso, una fortuna inesistente dal valore
inestimabile. “Il re […] aveva […]
ricevuto una lezione sui numeri elevati a potenza” (Shenk
2006, p. 25). Sessantaquattro sono le caselle degli scacchi, tante
quanti sono gli esagrammi dell’I Ching, Il Libro dei
Mutamenti, quel libro dove per il confucianesimo sono nascoste le
risposte e le possibilità del mondo intero. E quando i
numeri corrispondono, è sempre tutto più
affascinante, soprattutto se assieme ai numeri sono i colori, il bianco
ed il nero (lo Yin e lo Yang) nel nostro caso, a corrispondere. Gli
scacchi allora non sarebbero nulla di più che una gigantesca
metafora costruita attraverso il potere incommensurabile
dell’infinito, un infinito che si adagia sulle dinamiche
mondane, che le fa materia e possibilità concrete. Sempre
Borges ha sostenuto: “c’è un concetto
che corrompe e altera tutti gli altri. Non parlo del Male, il cui
limitato impero è la pratica; parlo
dell’infinito” (Borges, 1932, p. 132). E
quest’immagine si riproduce nell’opera del poeta
argentino, si riproduce nella Biblioteca di Babele, si riproduce
nell’imprevedibilità del Libro di Sabbia, nelle
volute nascoste di quel labirinto che è la vita.
È tutto dentro una piccola scacchiera, allora, che sia una
mano o un’altra a muovere i pezzi non importa, le
possibilità si approssimano all’infinito. Ecco
perché quello degli scacchi è un gioco che nel
tempo ha assunto le fattezze del luogo in cui si è
sostanziato. Perché ha sempre voluto essere immagine
concreta delle innumerevoli possibilità astratte che
rappresenta nella sua irritante vastità. Le figure delle
pedine corrispondono a quelle mondane. Prima che gli scacchi fossero
gli scacchi di oggi, si chiamavano shatranj (derivazione
del chatrang indiano), era il secolo VIII dopo
Cristo ed eravamo in Persia: al posto della regina c’era il
Ministro, in luogo delle torri c’erano i carri, gli alfieri
non erano altro che quattro elefanti. Poi, quando il gioco è
passato ad essere vezzo della cavalleria europea, e siamo nel Medioevo,
i pezzi si sono trasformati per adattarsi alle figure prossime della
realtà circostante, ed è comparsa la regina,
grazie al silenzioso potere delle sovrane medievali d’Europa.
Ecco che sono apparsi gli alfieri (vescovi nella tradizione inglese)
figura più vicina all’immaginario europeo rispetto
agli esotici pachidermi proboscidati mediorientali. Anche le regole
sono cambiate nel tempo, ma ne è rimasta tra le altre, una.
La regola del soggetto, la si potrebbe chiamare adesso. Eccola: un
pedone, il pezzo più debole degli scacchi, tanto debole da
non essere nemmeno chiamato pezzo, ha in sé un potere
immenso, può attraversare la scacchiera, arrivare
dall’altra parte di quello specchio immaginario ed infine
decidere in quale forma voler rinascere (ad esclusione del re,
altrimenti non vi sarebbero più regole valide nel gioco).
Questa regola si chiama Promozione: è
l’autodeterminazione del singolo di cui si parlava sopra, la
stessa autodeterminazione che rende gli scacchi minacciosi per i regimi
autoritari, la stessa autodeterminazione che è spesso un
fardello troppo pesante per l’uomo occidentale moderno, che
lo riduce alla schiavitù della follia, basta leggere
Vladimir Nabokov, e la storia di Lužin (Nabokov 1930). Forse pensava
anche a questo François-André Danican Philidor,
uno dei più importanti innovatori della teoria scacchistica
occidentale, nel Millesettecento, quando sosteneva: “I pedoni
sono l’anima degli scacchi”. Le regole del gioco
fanno il paio con le regole della storia, si adeguano alle dinamiche
contestuali delle differenti situazioni. Alla fine di questo tragitto
si trova allora quella sfida che più di tutto ripone
l’uomo nell’evidenza dell’infinito, ossia
dove non si sa che cosa si sia veramente. È la morte
ciò di cui si parla. Ingmar Bergman (1957) ha fatto della
vita dell’uomo una partita a scacchi, Antonius Block a
giocare con la Morte, in una tenzone irrisolvibile in cui
l’uomo non avrebbe potuto far altro che perdere, che restare
soggiogato dall’infinito personificato, quello stesso
infinito che passa sotto le mentite spoglie della fine di tutte le
cose: la morte (nonostante nel film imbrogli al gioco
l’avversario umano, essa è pur sempre la morte, o
forse lo è anche per questo). Perché
è proprio con la morte che si chiudono anche tutte le
partite di scacchi (ad eccezione delle patte, dei pareggi, va da
sé), la morte che riapre l’orizzonte ad una nuova
partita, ad una nuova possibilità, ad una nuova combinazione
di semplicissimi schemi, infiniti nel loro accidente. Al termine della
partita il giocatore vincente dichiara “scacco
matto”. E matto non vuol dire matto, folle o pazzo che dir si
voglia, vuol dire morto. Il re è morto! Shah
mat! (anche il verbo latino mactare -
uccidere, distruggere, sacrificare - ha la stessa radice). E in un
certo senso questa dichiarazione è fatta ad opera di un uomo
non solo nella realtà in cui si gioca, ma anche in quella
del gioco stesso. Perché un re non può mai
mettere sotto scacco il re avversario, possono farlo soltanto i sui
fedeli seguaci, tutti gli altri pezzi che si muovono sulla scacchiera. Recentemente
Paolo Maurensig (2003) ha ritradotto la concezione della morte negli
scacchi, la sua storia è quella di un prigioniero dei campi
di concentramento nazisti. A giocare col prigioniero
c’è il suo aguzzino, ogni pezzo sottratto dal
carnefice alla vittima corrisponde alla vita di un altro prigioniero,
una sincera lotta per la vita. Ecco di nuovo vita, morte e potere
mescolarsi nello stesso contenitore di un gioco tremendo. Si
provi allora a sedersi davanti ad una scacchiera, di fronte ad un
qualsiasi avversario, e lo si faccia tenendo presenti la storia di
questo gioco e le sue prospettive per come si danno verso
l’orizzonte dell’infinito. E si pensi a questa
frase pronunciata dal campione russo sfidato dalla macchina,
“il gioco degli scacchi è lo sport più
violento che esista” ebbe a dire Garri Kasparov. Negli
scacchi c’è tutta la violenza della condizione
irrinunciabile dell’essere umano e della sua sfida
all’infinito, quella stessa sfida che ingaggia un duello con
le macchine, quella stessa sfida che autodetermina il soggetto, che
promuove il pedone a regina, che mette la vita di fronte al suo
correlato della morte. D’altronde, come tutte le
manifestazioni cromatiche si inseriscono tra i due estremi che si
chiamano bianco e nero (nient’altro che il giorno e la notte,
nient’altro che il susseguirsi del tempo), così
tutte le manifestazioni dell’uomo sono racchiuse
all’interno di quelle sessantaquattro terribili caselle. Gli
scacchi sono un gioco violento perché sono fatti non solo di
tensione e di strategia, ma sono fatti di avanzamenti e di sacrifici.
Spesso le partite si aprono con l’offerta di un proprio pezzo
all’avversario, quello che si chiama sacrificio, gambetto nel
gergo scacchistico. Si mette subito in chiaro una cosa, che la vita e
la morte, che il bianco ed il nero, appartengono tutte allo stesso
progetto di specchi che si chiama moltiplicazione. Sta tutto dentro lo
stesso quadro di un concetto che nasce per negarsi come
d’altronde fanno tutte le cose.
Allora si concluda ancora con Borges (1960, p. 105):
Quando
si lasceranno i due rivali,
quando
il tempo oramai li avrà finiti,
il rito
certo non sarà concluso.
In
Oriente si accese questa guerra
che
adesso ha il mondo intero per teatro.
Come
l’altro, è infinito questo gioco.
:: letture ::
— J. L. Borges, 1932, Discussión, trad. it. Discussione, Adelphi, Milano, 2002.
— J. L. Borges, 1944, Ficciones, trad. it. Finzioni, Einaudi, Torino, 1955
— J. L. Borges, 1960, El Hacedor, trad. it. L’Artefice, Adelphi, Milano, 1999.
— P. Maurensig, La variante di Lüneburg, Adelphi, Milano, 2003.
— V. Nabokov, 1930, Zaščita Lužina trad. it. La difesa di Lužin, Adelphi, Milano, 2001.
— I. Peterson, The Soul of a Chess Machine: Lessons Learned from a Contest Pitting Man against Computer,
“Science News”, 30 marzo 1996.
— D. Shenk, 2006, The Immortal Game, trad. it. Il gioco immortale, Mondadori, Milano, 2008.
:: visioni ::
— I. Bergman, Det sjunde inseglet, 1956, it. Il settimo sigillo, 01 Distribution, 2007.
— S. Kubrick, 2001: A Space Odyssey, 1968, it. 2001: Odissea nello spazio, Warner Home Video, 2007.
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