“Vent’anni per dimenticare,
vent’anni per ricordare”: così James G.
Ballard, parlando in retrospettiva della stesura de L’impero
del sole, descriveva i quarant’anni che hanno
separato la pubblicazione del romanzo dalle vicende in esso raccontate
(Ballard, 2006b). Un lasso di tempo necessario perché questo
romanzo, il più noto della vasta produzione di Ballard anche
grazie al film diretto da Steven Spielberg (1987), potesse perdere gli
aspetti memorialistici e biografici per assumere quelli più
cari a Ballard della fantasia e dell’immaginazione. Ecco
perché non è un caso che L’impero
del sole, ben lungi dall’essere il romanzo
autobiografico così etichettato da larga parte della
critica, abbia un autore che parla in terza persona del giovanissimo
protagonista, quel Jim (o Jamie, come si fa chiamare) il cui cognome
infatti non sarà mai citato tra le pagine della storia. Non
solo le vicende, ma anche i luoghi reali del passato di Ballard
assumono nell’opera forme nuove e irreali, illuminate dalla
luce ultraterrena di quella bomba atomica che dà il nome
all’intero romanzo (L’impero del sole
si riferisce al Giappone, certo, ma è anche il titolo del
capitolo in cui il sole artificiale degli americani distrugge il Sol
Levante a Hiroshima e Nagasaki). Avvicinarsi a L’impero
del sole senza avere chiari questi elementi impedirebbe di
comprendere appieno la storia narrata nel romanzo: perché
anche qui, come in ogni opera di Ballard, pur sempre di fiction si
tratta, e l’esperienza reale e vissuta della guerra
è filtrata dalla vivida immaginazione del giovanissimo Jim
per il quale la guerra in realtà non è che un
grande gioco (“La guerra è finita, ma
quand’è che inizia la prossima?”
sarà la domanda costante di Jim nelle ultime pagine del
romanzo). Per diverso tempo, L’impero del
sole è stato considerato un romanzo a
sé nella produzione di Ballard. Diverso per stile e
soprattutto per genere, in quanto romanzo storico se non
autobiografico, piuttosto che fantascientifico o surreale come le
storie che lo avevano preceduto, fu inserito dalla critica nel genere
mainstream e non a caso è stata l’unica opera di
Ballard insieme a Crash a ottenere gli onori del
grande schermo. Anche un attento critico nostrano come Antonio Caronia,
traduttore italiano di Ballard, bolla quella cominciata con L’impero
del sole come “la breve e intensa parentesi
autobiografica” conclusasi con La gentilezza delle
donne (Caronia, 2001). Tuttavia diventa sempre
più opportuno rileggere il romanzo alla luce
dell’intera produzione dello scrittore permettendo
così di recuperare quei fili che lo legano alle opere
precedenti e successive. Per esempio egli stesso ammetteva in
un’intervista che il suo primo romanzo, The Drowned
World (1962), traeva una non indifferente ispirazione dalle
alluvioni stagionali che inondavano Shanghai (Ballard, 2002). La
narrativa ballardiana, del resto, è sempre stata dominata
dal tema del “microcosmo”: luoghi reali distorti al
punto da diventare veri e propri universi alieni in cui prendono vita
tutte le follie della civiltà contemporanea. A partire dai
racconti di Vermillion Sands passando per
l’isola spartitraffico di Concrete Island
(1974), il gigantesco palazzone di Condominium
(1975), il villaggio residenziale di Un gioco da bambini
(1988), il complesso turistico spagnolo di Cocaine Nights
(1996) e quello sulla Costa Azzurra di Super-Cannes (2000),
lo spazio interiore esplorato da Ballard trova nello spazio esteriore
del microcosmo il laboratorio più adatto per ardite
sperimentazioni. Ne L’impero del sole si
possono individuare ben tre microcosmi attraverso i quali si dipana la
vicenda di Jim e la tragedia della guerra: la Shanghai decadente alla
vigilia di Pearl Harbour, il campo di concentramento di Lunghua
(“universo concentrazionario” nel senso reale del
termine) e lo stadio olimpico che è forse la più
surreale tra le tappe della fuga di Jim verso Shanghai. La
Shanghai vista attraverso gli occhi di Jim assume i contorni di
“un cinegiornale di cui la sua mente era il
proiettore” (Ballard, 2006a, p. 11), un affastellamento di
immagini senza senso o – come la descriverà il
James Ballard maturo – “un presagio delle
città mediatiche del futuro, dominate da
pubblicità e giornali di diffusione di massa”
(Ballard, 2006b). La festa in costume degli europei nei sobborghi
occidentali della città sembra quasi un tentativo di
esorcizzare la paura della guerra rifugiandosi nelle fantasticherie
più sfrenate, al punto che – nota Jim –
“Shanghai sembrava diventata una città di
pagliacci”. La ricostruzione del film, dove una teoria di
clown, sultani e Marie Antoniette sfila tra centinaia di cinesi
disperati in comode Rolls-Royce e Packard, rende perfettamente questo
stridente contrasto. È il tema che ritroveremo nelle opere
più tarde di Ballard, dove la civiltà ricca e
gaudente dell’alta borghesia ricorre alle soluzioni
più estreme (sesso, droga, omicidio) per rifuggire la
mediocrità della routine. Chi appare fuori posto
paradossalmente è proprio Jim, che pur con la mente piena di
fantasticherie tipica di un ragazzino prende contatto con la guerra
prima degli adulti, inoltrandosi nell’aerodromo abbandonato
dove s’imbatte in una colonna di giapponesi pronta
all’azione. È la guerra vera, non quella sempre
fittizia e virtuale di cui parlano gli adulti, tra i cui campi di
battaglia pieni di detriti appositamente sistemati addirittura
passeggiano le “signore in abiti di seta” e i loro
“mariti in vestito grigio” (Ballard, 2006a, p. 28).
Quando la guerra scoppia davvero, il lusso e l’opulenza che
tanto hanno abbagliato il giovane Jim si rivelano mere illusioni. Nelle
grandi ville abbandonate in cui vaga in cerca di cibo, Jim rischia
quasi di morire di fame: un terribile paradosso dato che nelle ville
“lussureggianti” (come le definisce Jim) abbondano
il whisky, il gin e le curiosità più strambe,
come una collezione di denti e un cinema privato. Vuoti simulacri, come
la piscina ormai asciutta in cui Jim ritrova alcuni oggetti che aveva
perso, le ville degli occidentali sono microcosmi nel microcosmo di
Shanghai, dove i giradischi tornano a suonare solo per far ballare i
giapponesi che hanno fatto delle case le loro basi operative. Il
campo di internamento di Lunghua, che nella memoria reale di Ballard
viene assimilato a una “sudicia bidonville, lo slum di una township”
(Ballard, 2006b), diventa nella memoria filtrata dalla narrazione la
versione militarizzata di quei microcosmi così ricorrenti
nella sua produzione (complessi residenziali o turistici che siano).
Per Jim, il campo è
“l’università della vita”
senza la quale egli non sarebbe riuscito a venir fuori sano mentalmente
e fisicamente dagli anni di internamento: pur facendo del campo di
prigionia lo sfondo di un gioco per la sopravvivenza, Jim non perde il
contatto con la realtà della guerra, diversamente dagli
altri occidentali internati che – fedeli al loro stile di
vita – periranno presto o tardi per gli stenti e la
disillusione. È a Lunghua che avviene
l’evento-chiave della psicologia ballardiana, quella che
Riccardo Dalle Luche definisce: “la precoce distruzione della
sicurezza borghese [causata da] l'esperienza infantile della guerra e
dell'internamento nel lager giapponese” (Dalle Luche, 2001).
Jim impara nel campo la sconsolante verità del dover far
affidamento solo su se stesso, ed è una verità
che gli trasmette il Ballard ormai adulto che ricorda come nel campo
avesse imparato a vivere in modo indipendente dai suoi genitori,
genitori che nel romanzo (non a caso) sono rimossi.
L’indipendenza di Jim dal controllo dei genitori e in
generale dal controllo degli adulti del campo sarà
probabilmente l’esperienza alla base di uno dei
più inquietanti romanzi dell’autore, Un
gioco da bambini (1988). Lo stesso Ballard ricorda il
turbamento derivante dall’osservazione di come gli adulti
stessi, nel campo d’internamento, non offrissero la
protezione richiesta: “Vedevo adulti sotto
tensione, che è qualcosa che pochi bambini hanno
visto… e ciò è stato di grande
insegnamento – benché fosse alienante”
(Ballard, 2002). È per questo che Jim, nel romanzo, finisce
per diventare affetto da una sorta di “sindrome di
Stoccolma”, cercando nei giapponesi – formalmente e
sostanzialmente suoi nemici – i dispensatori di quella
sicurezza perduta. Del resto, la finzione ancora una volta messa su
dagli internati occidentali, per illudersi che il campo non sia poi
tanto dissimile dalle loro ville a Shanghai, non dura molto: le
conferenze, i concerti, le recite, gli incontri dei club e i corsi
della scuola da campo cessano con i primi bombardamenti americani,
l’inizio del razionamento e delle morti. Man mano, anche in
questo microcosmo la morte entra inesorabile, infrangendo le labili
speranze degli inglesi di tenerla fuori dalle loro vite come fosse un coolie
poco gradito. L’ultimo microcosmo del
romanzo è sicuramente quello più ballardiano,
poiché rappresenta un “non-luogo” per
eccellenza: è lo Stadio olimpico di Nantao voluto da Chang
Kai-shek, il generalissimo, nella speranza di ospitare nella sua Cina
nazionalista le Olimpiadi del 1940. Lo stadio è diventato
durante la guerra la centrale operativa dell’esercito
giapponese di stanza nella Cina meridionale, e quando Jim e gli
internati di Lunghua vi arrivano nel corso della loro estenuante marcia
verso Nantao trovano ad accoglierli le ombre della loro vita
precedente. Nell’enorme stadio sono stati stipati dai
giapponesi tutti i mobili pregiati, le auto americane, i tappeti
persiani e le statue di marmo appartenenti agli occidentali della
Concessione, e sottratti durante il sacco di Shanghai successivo allo
scoppio della guerra. Jim ritrova la Packard dei genitori tra le tante
auto accatastate e impolverate, e come in Crash
l’auto assurge a simulacro di un corpo, in questo caso quello
dei genitori, dei cui volti Jim non ricorda più i dettagli e
che ritornano nella sua memoria attraverso una sorta di proiezione
freudiana. Ma Jim si rende presto conto che lo stadio è un
microcosmo irreale, una grande tomba dell’imperialismo
occidentale in Cina dove non a caso si lasciano morire buona parte
degli inglesi scampati da Lunghua. La morte, ancora una volta, aleggia
tra “ruote da roulette, carrelli da bar e ninfe in gesso
dorato con lampade dai colori sgargianti sopra il capo…
rotoli di tappeti persiani e turchi frettolosamente avvolti in teli
incerati” (Ballard, 2006a, p. 267 ). Tra questi
“miseri trofei”, come li giudica giustamente Jim,
ben presto trovano la morte più di un centinaio di
prigionieri, facendo dello stadio un enorme tomba. Ed è
proprio su questa tomba, a suggellare l’irruzione della
morte, che si staglia improvvisa la luce della bomba di Nagasaki che
illumina in modo spettrale e persistente lo stadio, nonostante le
centinaia di miglia che separano la costa cinese dal luogo
dell’ecatombe. Simbolicamente, la luce della bomba unisce i
giapponesi e gli inglesi nello stadio olimpico, stendendo su entrambi
un velo di morte. I due mondi che hanno accompagnato la vita di Jim
fino ad allora scompaiono in questo momento catartico del romanzo e del
film. È la fine dell’Impero del Sole.
La luce della bomba atomica riflessa sullo stadio
di Nantao sembra quasi alludere, inoltre, a una sorta di esperienza
onirica. La scelta di Ballard per la novellizzazione della sua
esperienza autobiografica si potrebbe leggere anche in questa chiave;
in più riprese, Ballard sostenne che le vicende di Shanghai
e del campo di Lunghua gli sembrassero appartenere a una specie di
sogno. I “vent’anni per dimenticare” e
gli altrettanti “vent’anni per ricordare”
sarebbero stati perciò necessari affinché
esperienze reali ed esperienze immaginate si fondessero in un intreccio
inestricabile, l’intreccio di un romanzo. Solo negli ultimi,
con l’approssimarsi della certezza della morte, Ballard ha
avuto il coraggio di uscire per una volta dalla finzione dei suoi
romanzi - tutti, più o meno, autobiografici - per scrivere I
miracoli della vita, la vera autobiografia non romanzata dove
l’esperienza di Shanghai è stata per la prima
volta esposta nella sua realtà. Eppure, anche qui il lettore
non riesce a liberarsi dal dubbio che Ballard sia giunto a fondersi con
le sue stesse opere, facendo della sua stessa vita l’oggetto
di una grande e surreale fiction. Dopo la visione del film di
Spielberg, in un articolo Ballard raccontò,
“Christian Bale e John Malkovic [i due attori protagonisti]
sembrano prendere per mano i miei veri genitori e il me stesso
più giovane davanti alle luci della ribalta”
(Ballard, 2006b), come se tutto fosse divenuto (o fosse tornato ad
essere) solo uno spettacolo: “Ma forse, alla fine,
è stato tutto solo un film”, concludeva.
:: letture ::
— Ballard J. G., Empire of the Sun, 1984,
trad. it. L’impero del sole, Feltrinelli,
Milano, 2006.
— Ballard J. G., Miracles of Life, 2008,
trad. it. I miracoli della vita, Feltrinelli,
Milano, 2009.
— Ballard J. G., Look Back at Empire,
“The Guardian”, 4 marzo 2006.
— Ballard J. G., Interview with James Naughtie,
BBC4, 3 febbraio 2002, trascrizione di Mike Bonsall.
—
http://www.jgballard.ca/interviews/empire_naughtie_2002.html
— Caronia A., Archeologia del virtuale. Teorie,
scritture, schermi, Ombre Corte, Verona, 2001.
— Dalle Luche R., James G. Ballard e la psicopatologia
della sopravvivenza, in “Delos SF” n. 67,
2001,
http://www.fantascienza.com/delos/delos67/ballard4.html
:: visioni ::
— Cronenberg, D., Crash, 1996, Crash,
Filmauro, 2008.
— Runcie J., Shanghai Jim, BBC4, Uk, 1991.
— Spielberg S., Empire of the Sun, 1987, L’impero
del sole, Warner Home Video, 2007.
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