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The dark side of the boom: Luciano Bianciardi
di Gino Pagliuca |
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L’incipit de La Vita Agra di
Luciano Bianciardi (1963) è di quelli che spiazzano.
È arzigogolato quanto quello famoso dell’Uomo
senza qualità, ma qui, appunto, sembra
senza qualità. Uno sfoggio di erudizione filologica
apparentemente fine a se stessa che costringe anche il lettore
milanese, dopo essersi sciroppato una terribile dissertazione
sull’origine del termine Braida, dove sia una misteriosa via
Adelantemi a snebbiare ricordi ginnasiali se vuol capire qualcosa.
Siamo a Brera e precisamente in via Fiori oscuri, perché
questo è il significato di adeloi
anthemoi. Risolto il rebus il sospetto a questo punto
è che si tratta dell’ennesimo nipotino
dell’Ingegnere di cui non si sentiva il bisogno e la
tentazione sarebbe quella di chiudere e passare al sudoku. Ma sarebbe
un errore, perché basta andare avanti di poche pagine per
addentrarsi in un romanzo non solo di rara sapienza di scrittura ma
che, soprattutto, pare scritto oggi per la feroce critica al
consumismo, con una lucidità sui guasti del
“miracolo italiano” che all’epoca della
pubblicazione, a sinistra aveva solo Pier Paolo Pasolini. E che aveva
come precedente, anche se si tratta di un affresco meno ideologico, la Dolce
vita di Federico Fellini, a cui il romanzo di Bianciardi
evidentemente deve il titolo. Il nome di Luciano Bianciardi
è legato a La vita Agra, nonostante
qualche sporadica ripubblicazione di lavori singoli e una recente
apparizione delle opere complete per i tipi di Isbn in due volumi, con
il titolo polemico di Antimeridiano, per
sottolineare senza giri di parole l’incredibile esclusione
dalla collana mondadoriana dei Meridiani (peccato
che il prezzo di 69 euro a tomo sia più alto di quelli dei Meridiani
e costituisca un ostacolo decisivo all’acquisto).
Il romanzo ha continuato a ottenere una buona fortuna editoriale (un
anno dopo la pubblicazione, Carlo Lizzani ne trasse un film –
interpretato da Ugo Tognazzi – da cui provengono i fotogrammi
che illustrano questa riflessione), anche se ha costituito
una maledizione per il suo autore, rimasto spiazzato dal fatto che non
solo il testo si vendeva bene, ma anche che gli garantiva l'ingresso in
quei salotti borghesi e benpensanti che l’autore odiava per
formazione ideologica e carattere. Milano, come ebbe e dichiarare lo
stesso Bianciardi, doveva cacciarlo a calci nel sedere per come era
stata descritta e invece lo accoglieva a braccia aperte. Come fosse un
giullare; e così la forza dirompente della denuncia veniva
disinnescata. “Era tempo di finirla, con tutti quei lavativi a scarriolare terriccio fino alla bocca dei pozzi. Quando l'avanzamento ha esaurito un filone, che bisogno c'è di fare la ripiena? È tutto tempo perso, tutta gente che mangia a ufo. Si disarma, si recupera il legname, e poi il tetto frani pure. E non c'è nemmeno bisogno di tracciare gli avanzamenti a giro d'aria. Si può anche scavare a fondo cieco, basta un ventilatore che ci forzi l'aria dentro, no? Certo, la temperatura così aumenta, a volte supera i quaranta gradi, ma si può rimediare, con una tubatura che goccioli acqua davanti alla ventola... Sì, obbiettava il medico di fabbrica, la temperatura in questo modo scema, ma aumenta l'umidità, e aumentano i casi di malattia a sfondo reumatico. Ma il medico dopo tutto era un ragazzo – mio compagno di scuola al liceo, figuriamoci – e si faceva presto a chetarlo. Caro il mio dottor Nardulli, cosa si credeva lei? Che questa fosse una villeggiatura in Riviera? Che qui la gente venga per curarsi i dolori?” (pag 37). Luciano viene licenziato e si mette a fare il traduttore; le pagine sul lavoro a cottimo del traduttore richiamano la vita dei lavoratori a progetto di oggi; per arrotondare il magro bilancio familiare Anna si mette a lavorare come procacciatrice di indirizzi; esilarante il racconto: “Anna provò anche a rispondere a uno di quegli avvisi sui giornali che promettono guadagno sicuro con facile lavoro a domicilio. Le dettero un pezzo di elenco telefonico vecchio, le lettere A e B, un pacchetto di talloncini e due strisce di carta carbone. Così ora tornando dall'ufficio la trovavo seduta alla macchina, con una cartolina sulla pagina dell'elenco, per scorrerlo meglio. “Li copi tutti?” “No, soltanto i laureati, avvocati, dottori, ingegneri.” “E la carta carbone?” “Ne vogliono tre copie.” “Ma che cosa se ne fanno?” “Per spedire la pubblicità a domicilio.... Glieli pagavano una lira l'uno, tre copie. “Ma che ditta sarebbe?” “Non è una ditta. Sono due fratelli di Brescia che rivendono gli indirizzi ad altre ditte.” “A quanto le rivendono?” “A tre lire l'una la prima copia, pare. Le altre due una lira.” “Sicché su ogni indirizzo loro prendono cinque lire, ne danno una a te e ne guadagnano quattro.” “Eh già.” “Sono dei bei ladri, non ti pare?” “Certo, ti pigliano per il collo perché c'è il bisogno.” “E tu quanti indirizzi fai in un giorno?” “Un cinquecento. Se non fosse per la carta carbone da rimettere ogni volta, farei anche più presto.” “Però, anche cinquecento lire al giorno...” (pag.85). Il miracolo italiano viene deriso senza pietà: È aumentata la produzione lorda e netta, il reddito nazionale cumulativo e pro capite, l'occupazione assoluta e relativa, il numero delle auto in circolazione e degli elettrodomestici in funzione, la tariffa delle ragazze squillo, la paga oraria, il biglietto del tram e il totale dei circolanti su detto mezzo, il consumo del pollame, il tasso di sconto, l'età media, la statura media, la valetudinarietà media, la produttività media e la media oraria al giro d'Italia. Tutto quello che c'è di medio è aumentato, dicono contenti. E quelli che lo negano propongono però anche loro di fare aumentare, e non a chiacchiere, le medie; il prelievo fiscale medio, la scuola media e i ceti medi. Faranno insorgere bisogni mai sentiti prima. Chi non ha l'automobile l'avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, due frigoriferi, due lavatrici automatiche, tre apparecchi radio, il rasoio elettrico, la bilancina da bagno, l'asciugacapelli, il bidet e l'acqua calda. A tutti. Purché tutti lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a pestarsi i piedi, a tafanarsi l'un con l'altro dalla mattina alla sera (pag. 158). L’arrivo dei primi supermercati: fatte le debite proporzioni di spazi e merceologie il discorso vale più che mai per i centri commerciali di oggi: Il bottegone è una stanza enorme senza finestre, con le luci giallastre sempre accese a illuminare le cataste di scatole colorate. Dal soffitto cola una musica calcolata per l'effetto ipnotico, appesi al muro ci sono specchi tondi ad angolazione variabile e uno specialista, chiuso chissà dove, controlla che la gente si muova, compri e non rubi. Entrando, ti danno un carrettino di fil di ferro, che devi riempire di merce, di prodotti. Vendono e comprano ogni cosa; hanno la pupilla dilatata, per via dei colori, della luce, della musica calcolata, non battono più le palpebre, non ti vedono, a tratti ti sbattono il carrettino sui lombi, e con gesti da macumbati raccattano scatole dalle cataste e le lasciano cadere nell'apposito scomparto. Nessuno dice una parola, tanto il discorso sarebbe coperto dalla musica e dal continuo scaracchiare delle calcolatrici” (pag. 170). Il disprezzo nei confronti del debole e dell’emarginato. La storia dell’ubriaco stramazzato al suolo nell’indifferenza dei passanti e dei clienti di un bar è cronaca che ricorda da vicino ad esempio la recente vicenda del suonatore ambulante rumeno ucciso da una pallottola vagante nella Cumana di Napoli senza nessun soccorso dei presenti: “Ci rimase secco, e mi guardava ancora, ma senza più il sorriso ebete, anzi con occhi di vetro, e quando mi chinai a vedere meglio scorsi un filo di sangue che gli usciva dalla nuca e si spandeva nero sul selciato. Al bar lì accanto avevo già visto quattro uomini senza cravatta che giocavano a carte, e così andai là, a dire che c'era un ubriaco ferito, e che da solo non ce la facevo a rimetterlo in piedi, e che anzi provandoci m'era caduto battendo la testa. I quattro alzarono appena gli occhi, senza dire niente. “Be’” fece poi uno, visto che io non me ne andavo. “C’è un ubriaco là per terra.” “E allora?” “Datemi una mano a rialzarlo.” “Si rialzerà da sé.” “Non ce la fa. L'ho aiutato io, ma m'è ricaduto e perde sangue.” “E noi cosa ci entriamo? E' successo a lei, no? Se la veda lei.” E riattaccarono a giocare a carte. “La croce rossa” mi disse allora una donna che stava lì vicino seduta davanti a un bicchiere. “Telefoni alla croce rossa.” Andai al banco e chiesi dov’era il telefono. “Non è a gettone” mi disse l'uomo. “Mi faccia telefonare lo stesso.” “Non è a gettone” ripeté. “Là davanti, vada. Quello è a gettone.” Là davanti mi rivolsi alla cassiera: “C'è un ferito per strada, mi dia il numero della croce rossa, per favore”. “Vuol telefonare da qui?” “Sì, non è un telefono pubblico?” “Sì, ma mi raccomando, non faccia il nome del locale, questo è un locale per bene e non vogliamo storie con la croce rossa.” “Va bene, non faccio nomi. Mi dia il numero.” “Se lo cerchi sulla guida.” E mi indicò il mobiletto sotto il telefono. Cercai il numero, poi chiesi il gettone. “La moneta” fece la donna. “Cosa?” “Le venti lire.” Gliele diedi ed ebbi il gettone. La croce rossa prima risultò occupata, poi mi dissero che l'autoambulanza era fuori, ma che avrebbero provveduto subito: chiesero la strada, e io gliela indicai. Rimasi là fuori sul marciapiede, con le mani in tasca, e di fronte vedevo la figura del vecchio sempre stesa sul selciato. Qualche larva, rincasando, quasi ci inciampò. Venne una coppia, scartarono per non pestarlo, e tirarono diritto” (pag 101). Infine, spesso La Vita Agra è visto come un testo anticipatore del Sessantotto. Anna, la convivente di Luciano, parla a un certo punto delle tecniche di guerriglia di piazza: “Nel caso di dimostrazioni come questa, bada bene. Se non c'è scontro con la forza pubblica, la gente non si accorge neppure dell'agitazione, lo capisci? Perde di efficacia politica. “Insomma mandate la gente a buscarle?” “Non sempre. Vedi là, quel celerino? Lo stanno pestando. Quando si può picchiare, si picchia anche noi.” “Anche le donne?” “Si capisce. Anzi, specialmente le donne. Perché in tribunale, dopo, come fa la polizia ad ammettere di averle prese da una donna?” “E come picchiate, con la borsetta?” “Macché. Coi piedi.” “Coi piedi?” “Sì. Coi tacchetti pestoni, di punta calci negli stinchi. Ma anche meglio si fa col ginocchio.” “Col ginocchio?” “Sì. Quando il poliziotto ti prende per un braccio e sta di fronte, basta alzare il ginocchio, e lo colpisci al basso ventre.” “Ma funziona?” “Altro che. Ne ho visti stendere una decina in questo modo, da ragazzette che a vederle non gli daresti due soldi.” Passarono sotto i portici due poliziotti col viso pallido e cattivo, in mezzo un uomo basso e atticciato, col giubbotto di pelle. “Un operaio, dev'essere” feci io. “Sì. Bei fessi.” “Come, bei fessi?” “Sì, non ci sanno fare. A una dimostrazione per la pace non si manda gente vestita in quel modo.“ “Ma se è un operaio?” “Si mette il vestito della domenica, l'operaio.“ “Perché?” “Vedi, se fosse una dimostrazione pei salari, allora sì che andrebbe bene il giubbotto, ma questa è per la pace, e rivolta, come propaganda, ai ceti medi. Ai ceti medi si deve dare la sensazione che a dimostrare è gente come loro, e che la polizia picchia anche gente come loro” (pag. 59). Luciano in qualche modo si dissocia da Anna, anche se non arriva, come Pasolini a proposito dei poliziotti a Valle Giulia, a prendere le parti dei celerini perché loro sono il vero proletariato. Ettore Bianciardi però ricorda che all’epoca delle grandi contestazioni studentesche il padre gli diceva “È inutile occupare le aule universitarie, bisogna occupare le banche”. Oggi probabilmente rincarerebbe la dose.
:: letture :: — Bianciardi L., La vita agra, 1963, Bompiani, Milano, 2007. |