Il mondo è un testo che contiene innumerevoli
testi, e come tale sarebbe leggibile (comprensibile). È
questa l’assunzione di base dell’ermeneutica di
Georg Friedrich Meier (1718-1777). I testi sono tendenzialmente
sottoponibili al concetto di segno, nel senso che ogni testo contiene
una serie di segni (da cui si possono raggiungere i significati) tra
loro connessi. “Un segno è un mezzo mediante il
quale si può conoscere un’altra cosa nella sua
realtà” (Meier, 1757, cit. in Jung, 2001, p. 45).
Esistono, altresì, due tipi di segni, i segni arbitrari, il
cui autore è l’uomo (gli uomini), e i segni
naturali, il cui autore è dio. I primi garantiscono la
leggibilità del nesso mezzo-fine della cultura; i secondi
garantiscono la stessa cosa per il mondo naturale (visione
schiettamente finalistica quella di Meier). Questo significa che il
mondo è leggibile in tutte le sue manifestazioni, e
ciò è garantito dal fatto che dio stesso sia
l’autore del testo che noi chiamiamo mondo. Questi i
presupposti. Il senso autentico delle cose risiede
nell’intenzione del loro autore, nel fatto che ci
sia un’intenzione che abbia dato loro vita; la
natura è autentica, anche come testo, perché ha
un autore, dio. Il senso divino, dunque, è raggiungibile in
funzione della comprensione dell’assiomatica firma che egli,
dio, pone sul mondo. Capire la natura del mondo è capire dio
e la sua intenzione. Si provi a leggere, adesso, il Libro di
sabbia (1975) di Jorge Luis Borges nella versione ermeneutica
di Meier. E si provi, così, a parlare di dio. Il Libro
di sabbia è il testo per eccellenza, esso
apparentemente non evidenzia un senso immediato, né ne
evidenzia uno ad un’analisi attenta, in quanto non si lascia,
letteralmente, leggere, quindi la sua interpretazione deve avvenire
attraverso altre modalità. Non è possibile
seguire le pagine del libro per come si susseguono proprio
perché queste stesse pagine non si susseguono affatto. Le
pagine sono infinite, e non possiedono una successione numerica uguale
e costante, se voltate, infatti, non tornano a presentare la stessa
sequenza. Il libro appare improvviso, nascosto tra i volumi di un
venditore di Bibbie che bussa alla porta del Borges protagonista del
racconto. L’autore del Libro di sabbia
è sconosciuto, sconosciuti sono anche l’anno e il
luogo di pubblicazione. Il Borges del racconto ne resta subito
affascinato: “Lo aprii a caso. I caratteri mi erano
sconosciuti. […] Il testo era fitto e disposto in versetti.
Negli angoli in alto comparivano cifre arabe. Attrasse la mia
attenzione il fatto che la pagina pari portasse (mettiamo) il numero
40.514 e quella dispari, successiva, il 999” (Borges, 1975,
p. 99). Nel Libro di sabbia sono modificate le
dimensioni fisiche dello spazio e del tempo, e
un’indeterminatezza costante pervade la ragion
d’essere di questo testo. Quando gli è richiesto
di parlarne, il venditore di Bibbie ammette: “questo libro ha
un numero di pagine esattamente infinito. Nessuna è la
prima, nessuna l’ultima. Non so perché siano
numerate in questo modo arbitrario. Forse per far capire che i termini
di una serie infinita ammettono qualunque numero” (ibidem,
p. 100). Il libro, tuttavia, sebbene lo modifichi, opera nello spazio,
è infatti visibile, per cui le pagine, che concettualmente
hanno un numero infinito, diventano invece indefinite, in quanto sono
racchiuse tra il dorso e la copertina. Chi può concepire,
allora, una serie indefinita e concreta di numeri, sotto forma di
pagine che è possibile toccare, vedere, oltre che
immaginare? Borges ce lo aveva già detto col suo Argumentum
Ornithologicum: è dio; ed è
dall’infinito concepibile, fatto definito e indefinito, che
si desume la sua esistenza. Ricordiamolo, “Chiudo gli occhi e
vedo uno stormo di uccelli. La visione dura un secondo o forse meno;
non so quanti uccelli ho visto. Era definito o indefinito il loro
numero? Il problema implica quello dell’esistenza di Dio. Se
Dio esiste, quel numero è definito, perché Dio sa
quanti uccelli ho visto. Se Dio non esiste, quel numero è
indefinito, perchè nessuno ha potuto contarli. In questo
caso ho visto meno di dieci uccelli (diciamo) e più di uno,
ma non nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre o due uccelli. Ne
ho visti un numero tra dieci e uno, un numero che non è
nove, né otto, né sette, né sei,
né cinque, eccetera. Questo numero intero è
inconcepibile; ergo, Dio esiste” (Borges, 1960, p. 31). Tornando
a Meier, chi è dio allora? Se dio è leggibile,
non è l’autore del Libro di sabbia.
Dato che il libro effettivamente risulta
illeggibile. E il numero delle pagine, ancora, è definito o
indefinito? Secondo quanto si legge nell’Argumentum,
se fosse definito, lo saprebbe solo dio, in quanto il numero a cui
corrisponderebbero le pagine sarebbe inconcepibile, pur tuttavia
esistendo. Successivamente: presupponendo che il Libro di
sabbia, in quanto testo, sia connessione di segni, che tipo
di segni sono questi? Facciamo scaturire un ragionamento, attraverso
una sequenza di ergo, dalla considerazione
contemporanea di quanto detto finora se, ovviamente, ci interessa
leggere Borges con Meier.
1. Dio esiste ed è
l’autore del Libro di sabbia; 2.
ma il libro non si lascia leggere; 3.
dunque un’interpretazione del libro è
impossibile; 4. perciò dio non
esiste altrimenti sarebbe possibile leggere il libro; 5.
oppure, dato che abbiamo postulato l’esistenza di
dio, l’interpretazione del libro è la sua
negazione come testo.
Si può tuttavia pensare altro.
1. L’uomo esiste ed è
l’autore del libro; 2. in
questo caso il libro contiene soltanto segni arbitrari; 3.
i segni arbitrari renderebbero illeggibile il libro, ma
questi segni hanno una connessione in quanto appartengono al mondo
naturale; 4. quindi la connessione di
questi segni sarebbe garantita dalla divinità del progetto
naturale in cui rientra anche il libro; 5. perciò
l’uomo è dio in quanto il segno arbitrario
coinciderebbe allora col segno naturale.
Il primo ragionamento porta lontano dai suoi presupposti, il
secondo ben si adegua alle biforcazioni che si intende seguire. La
preoccupazione di Meier era quella di far coincidere la
realtà naturale con la realtà culturale, e di
giustificare con questa identità l’esistenza di
dio, perché sarebbe proprio l’essenza divina del
progetto designante a garantire la leggibilità del mondo. Quella
di Borges era una preoccupazione inversa: l’uomo sarebbe
illeggibile, essere infinito, che al suo interno ha dio stesso, ma,
ovviamente, nella sola misura astrattiva e indefinita
dell’infinità. Dobbiamo decidere se
accettare Borges o se accettare Meier, se non accettare nessuno dei
due, o se accettare entrambi. Molto simile al nostro
è il vecchio problema della teodicea, la giustificazione del
male in terra connesso all’esistenza di dio. Anche qui ci
sono due termini che sembrano escludersi a vicenda. Secondo gli
epicurei la questione era sintetizzabile più o meno in
questo modo: posto che il male in terra esiste, dio potrebbe muoversi
verso il voler ed il poter estirparlo. Ora se vuole e non
può, o se non può né vuole estirpare
il male, ciò significa che dio è impotente, e la
qual cosa non apparterrebbe ai requisiti della divinità. Se,
invece, può ma non vuole, ciò significherebbe che
dio è invidioso, ed anche questo, va da sé, non
è tra gli attributi della divinità. Se vuole e
può, allora non vi è giustificazione
né spiegazione al male in terra. Invidia e impotenza sono
caratteristiche strettamente umane, che lo stesso dio (quello medievale
dei peccati capitali) ha messo all’indice. “C’è
un concetto che corrompe e altera tutti gli altri. Non parlo del Male,
il cui limitato impero è la pratica; parlo
dell’infinito” (Borges, 1975, p. 123).
L’infinito che appartiene al tempo è
l’eternità, l’infinito che appartiene
allo spazio è, in Borges, il Libro di sabbia,
così come lo sono l’Aleph
(1952, pp. 150-170), la Biblioteca di Babele (1956,
pp. 69-78) e la parola Undr (1975, pp. 68-73)
(è quindi un infinito che si definisce anche nella misura
della frazione infinitesima nello spazio finito – come per
l’Aleph – per cui si definisce
infinito solo nella versione dell’indefinito). Dio e infinito
sono, dunque strettamente correlati l’uno
all’altro. Ed in Borges, la connessione tra questi due
termini esiste, ed è essa stessa a rendere possibile una
concezione dei termini dio ed infinito. La connessione è
l’uomo, che, in sostanza, ha in sé infinito e dio;
la connessione non è più il progetto divino che
sottende alla vita del mondo naturale. Crolla così la
discussione epicurea sulla teodicea, crolla ogni argomentazione sulla
sua esistenza o non esistenza perché dio è
l’uomo (e in quanto tale dio possiede caratteristiche umane),
e l’uomo è dio (e in quanto tale possiede
caratteristiche divine). Come in una striscia di Moebius, siamo tornati
al principio delle nostre parole, solo che i caratteri sono invertiti,
o meglio i personaggi della nostra storia non sono più due,
l’uomo e dio, ma il personaggio è uno:
l’uomo che è dio. Allora chi è
l’autore del Libro di sabbia, secondo
quanto si può desumere dalla versione borgesiana di Meier?
L’autore è l’uomo, l’autore
è dio. Ma l’apparenza del mondo stride,
inizialmente, con il concetto che ci siamo portati dietro, quello
dell’infinito, che poi altro non sarebbe che il ponte tra
l’uomo e dio. E ancora con Borges: “Noi
(l’indivisa divinità che opera in noi) abbiamo
sognato il mondo. L’abbiamo sognato resistente, misterioso,
visibile, ubiquo nello spazio e stabile nel tempo; ma abbiamo ammesso
nella sua architettura tenui ed eterni interstizi di
assurdità per sapere che è falso”
(1957, p. 130). Dietro al Libro di sabbia
c’è un sogno, dietro al mondo naturale
c’è un sogno, e, come nei sogni, i personaggi
spesso hanno più facce, compaiono e ricompaiono come
contingenze di uno spettro di possibilità concrete ma, a
questo punto, indefinite. Con un motto della prima ermeneutica
esegetica si afferma: aliud dicitur, aliud significatur.
Come la Bibbia che il venditore offre a Borges, così anche
il Libro di sabbia, che come la Bibbia è
in versetti, non dice quello che significa, se lo dicesse
l’uomo avrebbe ammesso a se stesso la sua essenza divina. Borges
sostiene che l’infinito, ossia la possibilità
prospettica di accettare differenti versioni della stessa cosa,
è prerogativa schiettamente umana, per questo
l’uomo è dio, perché ha la
possibilità di darsi alle possibilità,
nell’asfittica dimensione dello spazio finito,
l’uomo è in grado di trovare e di giustificare
ogni sua versione.
:: letture ::
— J. L. Borges, El Aleph, 1952, trad. it. L’Aleph, Feltrinelli, Milano, 2003.
— J. L. Borges, Ficciones, 1956, trad. it. Finzioni, Einaudi, Torino, 1995.
— J. L. Borges, Discussión, 1957, trad. it. Discussione, Adelphi, Mliano, 2002.
— J. L. Borges, El hacedor, 1960, trad. it. L’artefice, Adelphi, Milano, 1999.
— J. L. Borges, El libro de arena, 1975, trad. it. Il libro di sabbia, Adelphi, Milano, 2004.
— G. F. Meier, Versuch einer allgemeinen Auslegungskunst, 1757, cit. in M. Jung, Hermeneutik zur Einführung, 2001, trad. it. L’ermeneutica, Il Mulino, Bologna, 2002.
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