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Da un’Isola all’altra, slittando verso il fantastico
di 
Enrica Picarelli

isola.jpgVisitando il portale turistico dell’isola di Mont Saint-Michel veniamo introdotti alla storia di un luogo e di un toponimo molto singolari che, in clima di esodo estivo, danno sollievo a sindromi da insofferenza cittadina, fughe al mare e geografie dell’immaginazione. L’isola è l’orizzonte fantastico per eccellenza, la meta di un viaggio che si compie muovendosi o restando fermi, in ogni caso un tropo non solo metaforico ma anche concreto, come attesta il magnetismo di Mont Saint-Michel. Intorno all’isola tutto gira, ma che succede quando è l’isola a spostarsi e cambiare? 
Segue un arcipelago di spunti attraverso cui pensare alle isole come a un portale dimensionale e non semplici mete turistiche.
I pellegrini che nel Medioevo si dirigevano all’abbazia di San Michele, costruita su un promontorio roccioso nel nord della Francia, ne parlavano come del mons Sancti Michaeli in periculo mari, “il monte di San Michele in pericolo del mare”. E in effetti la geografia e la geologia di Mont Saint-Michel, l’architettura slanciata della sua abbazia e la fisica delle maree, che per due volte al giorno circondano d’acqua questo pugno di terra esiliandolo dalla costa, hanno scolpito una piccola meraviglia contesa tra voraci flussi marini, il vento che lambisce l’estremo settentrione francese, la terra delle greggi e dei turisti e il fuoco della religione – se ci piace continuare a viaggiare con i mistici che rinnovavano la propria fede proprio alla luce del Monte consacrato a Michele.   
Qualche riga più in basso il pamphlet turistico ci segnala che questa peculiare chimica degli elementi sta rubando l’isola al mare e sollevando una controversia topologica. Mont Saint-Michel è infatti una specie di corrugamento della costa che sta negoziando una nuova identità: non un’isola ma la materializzazione temporanea di un’isola. Leggendo dal portale, scopriamo che oggi “il Mont Saint-Michel è ‘a rischio delle terre’”: la spiaggia lo reclama, perché dopo il poldering, il metodo di bonifica che ha permesso di costruire dighe e successivamente prosciugarle per creare terreni coltivabili, le sabbie si sono espanse fino ai lembi del promontorio e l’isola non c’è più. L’Unesco e il governo francese sono intervenuti per ripristinare il paesaggio familiare della bella abbazia a picco sul mare e ridare la giusta identità alla ruga più famosa della Francia settentrionale, ma nei fatti quello che resta è lo spettacolo di un’isola che oscilla tra fasi, rinnegando se stessa a ogni marea.  
Sembra che intorno al monte di San Michele acqua e terra cospirino vorticosamente per sfigurare il paesaggio: i francesi combattono per avere un’isola, l’ingegneria e i contadini locali lo hanno trasformato in una penisola, per i mistici e i sognatori resta l’idea di un cuneo affogato nel mare. Ma intanto l’orizzonte è già cambiato sicché la terra non è più terra e l’acqua non più solo acqua; è la sabbia che dilava e torna ad accumularsi che fa emergere una nuova approssimazione e crea lo scoglio della disputa che impegna le autorità del posto e preoccupa i turisti. Il pamphlet rimane vago su questa empasse identitaria, ma ci viene assicurato che si sta lavorando per cancellare le tracce di questa imprevista trasformazione.
Di fronte alla metamorfosi di Mont Saint-Michel, che nasce dall’incontro di spazi e elementi diversi – il web, i progetti ingegneristici, l’acqua, la sabbia, la stampa di informazione, la mia curiosità, il piacere e il desiderio dei turisti, degli uccelli e delle creature acquatiche che vivono della ricchezza di questo luogo – vengono in mente le parole di Gilles Deleuze che dipinge l’Isola come un “uovo cosmico” dove “la creazione originaria resta impigliata in una ri-creazione” e l’origine è posticipata per sempre (Deleuze, 2004, pag. 13, T.d.A.). L’anno zero della genesi comincia sul tetto di un monte-diventato-isola, scrive Deleuze, da un promontorio che diventa un’oasi: l’Ararat è lo spazio sopravvissuto alle acque che avrebbe proiettato la vita al di fuori di sé e salvato il mondo dall’apnea del diluvio. Quindi nell’isola – che appartenga al mito o alle rotte turistiche – è come se si concentrasse una riserva d’energia, una speranza o, a seconda dei punti di vista, il baratro di un misconoscimento che rischia di spingere troppo in là sé stessa e coloro che la abitano. 
Facciamo un salto e mettiamo da parte la sorte di Mont Saint-Michel. Pensiamo per un momento all’isola della serie televisiva Lost. I passeggeri del volo 815 della Oceanic Airlines, partito il 22 Settembre 2004 da Sidney in direzione Los Angeles, si schiantano su un’isola vulcanica del Pacifico meridionale e per cinque stagioni è come se fossero inghiottiti da una parentesi. Niente e nessuno sa di loro perché nessuno, se non una cerchia ristretta di personaggi misteriosi, è a conoscenza dell’esistenza dell’Isola. D’altronde non potrebbe essere diversamente visto che non esiste su nessuna mappa geografica. Nell’episodio “316” (5x06, 18/2/2009 in USA) Eloise Hawking informa i superstiti che l’Isola “è sempre in movimento” e può essere raggiunta solo attraversando “finestre” che si aprono per periodi di tempo limitati e in luoghi diversi del mondo. Che strana questa cartografia che parla di una mappa che aspetta sempre di essere disegnata. Schiacciati ai margini di un planisfero appiattito sul pavimento di una cripta, i protagonisti osservano un pendolo gigantesco oscillare sugli oceani del pianeta e azzardare le coordinate geografiche della prossima, possibile manifestazione dell’Isola. I calcoli scarabocchiati su una lavagna a poca distanza da Jack confermano la realtà di questa cartografia inaffidabile: quando l’Isola c’è è anche già oltre se stessa, in migrazione verso un altrove che si muove con Lei e non esiste prima di Lei. L’isola è causa ed effetto di se stessa, un atlante in divenire, un buco nero che attrae i protagonisti, gli interessi scientifici ed economici di organizzazioni oscure come la Dharma Initiative, la Hanso Foundation e le Widmore Industries, nonché la curiosità di milioni di spettatori. Come afferma Desmond Hume alla fine della seconda stagione: “non esiste il mondo esterno”, là fuori “non c’è niente” (2x23, Live Together, Die Alone, 24/05/2006 in USA).
Sembra che anche quella di Lost sia la storia di un rinnovamento e di una seconda origine che nasce da un singhiozzo della geografia, da uno spaesamento, da un’interruzione del flusso – degli eventi, delle rotte turistiche, delle vite dei personaggi, delle correnti marine e non che proteggono l’isola da occhi indiscreti. I sopravvissuti non saranno praticamente mai più ritrovati e coloro che torneranno alla vita prima dell’incidente, come Michael e suo figlio Walt, continueranno a vivere su un’isola o su un’appendice dell’Isola. La pagina di Lostpedia ci informa infatti che l’Isola non è solo una realtà fisica, ma la totalità di una serie di rotte possibili che “procedono oltre il suo territorio geografico” spingendosi fino al “mondo esterno” (Lostpedia, voce “Island”).
Quindi l’Isola è il principio e il phenomenon della sua nomadologia: non l’effetto di uno sdoppiamento ma un vettore che segna “dimensioni o piuttosto di direzioni in movimento [e][n]on ha inizio né fine, ma sempre un centro, dal quale cresce e deborda” (Deleuze e Guattari, 2006, p. 57). Il suo perimetro frastagliato delimita uno spazio assoluto lungo il quale elementi umani, animali, artificiali e naturali si avvicinano fino a creare strani compromessi. Sull’Isola niente è immobile, ma non sempre il cambiamento è l’effetto di uno spostamento. Si può restare distesi a dormire e svegliarsi diversi, come succede a Charlie in “Fire+Water” (2x12, 26/01/2006 in USA). In questo e in altri episodi i sopravvissuti vivono strane esperienze sensoriali durante le quali vedono e sentono cose inspiegabili. Kate ritrova il cavallo nero che le ha permesso di sfuggire a una condanna per omicidio, Jack rivede suo padre, morto prima dell’incidente, Hugo incontra l’amico immaginario Dave, mentre Charlie salva il piccolo Aaron dai flutti e poi incontra sua madre, vestita da angelo, sulla spiaggia dell’Isola. Anche in questo caso, come per Mont Saint-Michel, non sono le distanze a cambiare la geografia. I rapporti tra le parti e, all’interno delle parti, le possibilità che essi si dispieghino a partire da quello che già esiste, si lasciano attraversare da un flusso di potenza che arriva a inclinare diversamente lo spazio e il tempo. L’arco topografico delimitato dalle oscillazioni del pendolo di Eloise segnala i limiti della misurazione metrica di fronte ai piegamenti di una superficie astratta. Gli stati alterati vissuti da Jack, Charlie e gli altri, il ritorno impossibile al passato prima dell’incidente, i viaggi nel tempo e nello spazio dell’Isola, l’eterna giovinezza di Richard Alpert che non invecchia nemmeno di un giorno, sono punti di una “topologia differenziale” in cui convivono un numero infinito di variabili in ricombinazione continua. Alpert, ricordiamolo, è uno dei protagonisti di Lost che vive stabilmente sull’Isola da molto tempo prima dell’incidente. Egli è stato visto in diversi periodi storici, ma non è mai invecchiato. In questa dimensione molteplice, o in questa moltiplicazione infinita di dimensioni verosimili, “alcune parti dello spazio non cambiano per niente, altre lo fanno lentamente mentre altre ancora si trasformano rapidamente” (de Landa in Buchanan e Gregg, 2005, p. 84, T.d.A.). Si direbbe che, come scrive Gabriele Frasca, “la storia […] prima che la storiografia la fissi buttandola giù per sempre dalla sua onda, parrebbe avere come lo spazio hilbertiano un numero sbalorditivo di dimensioni, e il passato […] è come se fosse entangled col presente” (Frasca, 2007, pp.16-17). Manuel de Landa, artista messicano, chiama “zone di intensità” quegli ecosistemi soggetti a variazioni locali di stadio, temperatura e gradiente che producono la differenziazione naturale. Per de Landa questa diversificazione non è ancora un fenomeno materiale ma il requisito necessario a produrre la varietà delle forme di vita e delle esperienze umane. Come principio virtuale e attuale, le zone di intensità creano infatti “uno spazio di possibilità” a partire da cui si snodano un insieme di curve possibili (de Landa in Buchanan e Gregg, 2005, p. 83, T.d.A.).
Nell’ultimo episodio della trilogia di Pirati dei Caraibi intitolato Ai confini del mondo la ciurma di manigoldi capitanata da Barbossa (Geoffrey Rush) si imbarca alla ricerca di Jack Sparrow (Johnny Depp), disperso, forse morto, oltre le terre conosciute. In effetti il pirata non è più tra i vivi ma non è nemmeno estinto: si trova bloccato nel limbo di Davy Jones, incastrato su una distesa di sale e perseguitato da un esercito… di copie di se stesso. Le prova tutte ma è destinato a rimanere lì, almeno fin quando la Perla Nera, la sua nave, non avrà attraversato le colonne d’Ercole sopravvivendo al salto vertiginoso della cascata che attende gli avventurieri che osano oltrepassare i limiti del mondo. Scandita dall’apparire periodico di una mappa strappata, di un orizzonte fumoso, della scia tremolante di una nave o dell’ombra ingannatrice di una vela gonfiata dal vento, questa storia parla ancora una volta della disfatta della frontiera e della perdita dell’orientamento. In uno strano rimando intertestuale, la bussola di Jack, come quella di Sayid in Lost, non segna mai il Nord ma solo il corso di un tentativo. Dopo il baratro della cascata non c’è un altro mondo e nemmeno la fine del mondo, ma l’oceano e le stelle onnipresenti che, alla luce di un salto nel vuoto, tracciano sommariamente il percorso di un’avventura in cui i desideri dei protagonisti riescono a modulare la curva dell’orizzonte. Il Limbo è un angolo dimenticato alimentato dalla sete di vendetta di Davy Jones, ma non un mondo parallelo a quello su cui naviga Barbossa. 
È la consapevolezza di possedere già le coordinate di quest’avventura insolita che spinge la prua della Perla Nera verso il Limbo, perché sarà proprio l’esplorazione di questa piega sconosciuta del mondo che creerà una nuova mappa da dissacrare. Dopo aver sottratto Sparrow alla sua sorte, la Perla ripeterà il tragitto d’andata ma questa volta non sarà la cascata a segnare il salto della curva su cui si staglia l’isola dei non-morti. In una delle scene più belle del film Jack scoprirà che quello che apparentemente sembra un indovinello nascosto nella mappa svela invece un tradimento: è infatti solo capovolgendo le rotte mercantili che si può tornare alla vita. E così accade, in una rivisitazione del mito dell’Arca, la Perla Nera fa una capriola affogando il ponte sott’acqua e esibendo la chiglia al sole. Tornano in mente Noè, l’“uovo cosmico”, Deucalione e Pirra, Calipso e le Sirene, ma perché parlarne ancora? Meglio non costringere l’Isola a tornare sui suoi passi, meglio lasciarla ridisegnare l’atlante prima che gli incrociatori della MSC Crociere la confinino tra gli altri puntini verdi sulla pagina di un depliant turistico.

 


 

:: letture ::

— Deleuze G., Desert Islands and Other Texts, The MIT Press, Cambridge, MA. & London 2004.

— Deleuze G., Guattari F., Mille Plateaux, 1980; trad. it. Mille Piani, Castelvecchi, Roma 2006.

— De Landa M., Space: Extensive and Intensive, Virtual and Actual in Buchanan I. e Lamber G. (a cura di), Deleuze and Space, Edinburgh University Press, Edinburgh 2005.

— Frasca G., L’Oscuro Scrutare di Philip K. Dick, Meltemi, Roma 2007.

 


 

:: visioni ::

— Abrams J.J., Lindelof D., Cuse C., Lost “316” (5x06, 18/2/2009 in Usa)

— Abrams J.J., Lindelof D., Cuse C., Lost “Fire+Water” (2x12, 25/1/2006 in Usa)

— Abrams, J.J., Lindelof D., Cuse C., Lost “Live Together, Die Alone” (2x23, 24/5/2006 in USA)

— Verbinski G., Pirates of Caribbean: At World’s End, USA, 2007, Pirati dei Caraibi. Ai Confini del Mondo, 2007, Buena Vista Home Video, 2007.