Visitando il portale turistico dell’isola di Mont
Saint-Michel veniamo introdotti alla storia di un luogo e di un
toponimo molto singolari che, in clima di esodo estivo, danno sollievo
a sindromi da insofferenza cittadina, fughe al mare e geografie
dell’immaginazione. L’isola è
l’orizzonte fantastico per eccellenza, la meta di un viaggio
che si compie muovendosi o restando fermi, in ogni caso un tropo non
solo metaforico ma anche concreto, come attesta il magnetismo di Mont
Saint-Michel. Intorno all’isola tutto gira, ma che succede
quando è l’isola a spostarsi e cambiare? Segue
un arcipelago di spunti attraverso cui pensare alle isole come a un
portale dimensionale e non semplici mete turistiche. I
pellegrini che nel Medioevo si dirigevano all’abbazia di San
Michele, costruita su un promontorio roccioso nel nord della Francia,
ne parlavano come del mons Sancti Michaeli in periculo mari,
“il monte di San Michele in pericolo del mare”. E
in effetti la geografia e la geologia di Mont Saint-Michel,
l’architettura slanciata della sua abbazia e la fisica delle
maree, che per due volte al giorno circondano d’acqua questo
pugno di terra esiliandolo dalla costa, hanno scolpito una piccola
meraviglia contesa tra voraci flussi marini, il vento che lambisce
l’estremo settentrione francese, la terra delle greggi e dei
turisti e il fuoco della religione – se ci piace continuare a
viaggiare con i mistici che rinnovavano la propria fede proprio alla
luce del Monte consacrato a Michele. Qualche
riga più in basso il pamphlet turistico ci segnala che
questa peculiare chimica degli elementi sta rubando l’isola
al mare e sollevando una controversia topologica. Mont Saint-Michel
è infatti una specie di corrugamento della costa che sta
negoziando una nuova identità: non un’isola ma la
materializzazione temporanea di un’isola. Leggendo dal
portale, scopriamo che oggi “il Mont Saint-Michel
è ‘a rischio delle terre’”: la
spiaggia lo reclama, perché dopo il poldering,
il metodo di bonifica che ha permesso di costruire dighe e
successivamente prosciugarle per creare terreni coltivabili, le sabbie
si sono espanse fino ai lembi del promontorio e l’isola non
c’è più. L’Unesco e il
governo francese sono intervenuti per ripristinare il paesaggio
familiare della bella abbazia a picco sul mare e ridare la giusta
identità alla ruga più famosa della Francia
settentrionale, ma nei fatti quello che resta è lo
spettacolo di un’isola che oscilla tra fasi, rinnegando se
stessa a ogni marea. Sembra che intorno al monte di
San Michele acqua e terra cospirino vorticosamente per sfigurare il
paesaggio: i francesi combattono per avere un’isola,
l’ingegneria e i contadini locali lo hanno trasformato in una
penisola, per i mistici e i sognatori resta l’idea di un
cuneo affogato nel mare. Ma intanto l’orizzonte è
già cambiato sicché la terra non è
più terra e l’acqua non più solo acqua;
è la sabbia che dilava e torna ad accumularsi che fa
emergere una nuova approssimazione e crea lo scoglio della disputa che
impegna le autorità del posto e preoccupa i turisti. Il
pamphlet rimane vago su questa empasse identitaria,
ma ci viene assicurato che si sta lavorando per cancellare le tracce di
questa imprevista trasformazione. Di fronte alla metamorfosi
di Mont Saint-Michel, che nasce dall’incontro di spazi e
elementi diversi – il web, i progetti ingegneristici,
l’acqua, la sabbia, la stampa di informazione, la mia
curiosità, il piacere e il desiderio dei turisti, degli
uccelli e delle creature acquatiche che vivono della ricchezza di
questo luogo – vengono in mente le parole di Gilles Deleuze
che dipinge l’Isola come un “uovo
cosmico” dove “la creazione originaria resta
impigliata in una ri-creazione” e l’origine
è posticipata per sempre (Deleuze, 2004, pag. 13, T.d.A.).
L’anno zero della genesi comincia sul tetto di un
monte-diventato-isola, scrive Deleuze, da un promontorio che diventa
un’oasi: l’Ararat è lo spazio
sopravvissuto alle acque che avrebbe proiettato la vita al di fuori di
sé e salvato il mondo dall’apnea del diluvio.
Quindi nell’isola – che appartenga al mito o alle
rotte turistiche – è come se si concentrasse una
riserva d’energia, una speranza o, a seconda dei punti di
vista, il baratro di un misconoscimento che rischia di spingere troppo
in là sé stessa e coloro che la abitano. Facciamo
un salto e mettiamo da parte la sorte di Mont Saint-Michel. Pensiamo
per un momento all’isola della serie televisiva Lost.
I passeggeri del volo 815 della Oceanic Airlines, partito il 22
Settembre 2004 da Sidney in direzione Los Angeles, si schiantano su
un’isola vulcanica del Pacifico meridionale e per cinque
stagioni è come se fossero inghiottiti da una parentesi.
Niente e nessuno sa di loro perché nessuno, se non una
cerchia ristretta di personaggi misteriosi, è a conoscenza
dell’esistenza dell’Isola. D’altronde non
potrebbe essere diversamente visto che non esiste su nessuna mappa
geografica. Nell’episodio “316” (5x06,
18/2/2009 in USA) Eloise Hawking informa i superstiti che
l’Isola “è sempre in
movimento” e può essere raggiunta solo
attraversando “finestre” che si aprono per periodi
di tempo limitati e in luoghi diversi del mondo. Che strana questa
cartografia che parla di una mappa che aspetta sempre di essere
disegnata. Schiacciati ai margini di un planisfero appiattito sul
pavimento di una cripta, i protagonisti osservano un pendolo gigantesco
oscillare sugli oceani del pianeta e azzardare le coordinate
geografiche della prossima, possibile manifestazione
dell’Isola. I calcoli scarabocchiati su una lavagna a poca
distanza da Jack confermano la realtà di questa cartografia
inaffidabile: quando l’Isola c’è
è anche già oltre se stessa, in migrazione verso
un altrove che si muove con Lei e non esiste prima
di Lei. L’isola è causa ed effetto di se stessa,
un atlante in divenire, un buco nero che attrae i protagonisti, gli
interessi scientifici ed economici di organizzazioni oscure come la Dharma
Initiative, la Hanso Foundation e le Widmore
Industries, nonché la curiosità di
milioni di spettatori. Come afferma Desmond Hume alla fine della
seconda stagione: “non esiste il mondo esterno”,
là fuori “non c’è
niente” (2x23, Live Together, Die Alone,
24/05/2006 in USA). Sembra che anche quella di Lost
sia la storia di un rinnovamento e di una seconda origine che nasce da
un singhiozzo della geografia, da uno spaesamento, da
un’interruzione del flusso – degli eventi, delle
rotte turistiche, delle vite dei personaggi, delle correnti marine e
non che proteggono l’isola da occhi indiscreti. I
sopravvissuti non saranno praticamente mai più ritrovati e
coloro che torneranno alla vita prima dell’incidente, come
Michael e suo figlio Walt, continueranno a vivere su un’isola
o su un’appendice dell’Isola. La pagina di Lostpedia
ci informa infatti che l’Isola non è solo una
realtà fisica, ma la totalità di una
serie di rotte possibili che “procedono oltre il
suo territorio geografico” spingendosi fino al
“mondo esterno” (Lostpedia, voce
“Island”). Quindi l’Isola
è il principio e il phenomenon della sua
nomadologia: non l’effetto di uno sdoppiamento ma un vettore
che segna “dimensioni o piuttosto di direzioni in movimento
[e][n]on ha inizio né fine, ma sempre un centro, dal quale
cresce e deborda” (Deleuze e Guattari, 2006, p. 57). Il suo
perimetro frastagliato delimita uno spazio assoluto lungo il quale
elementi umani, animali, artificiali e naturali si avvicinano fino a
creare strani compromessi. Sull’Isola niente è
immobile, ma non sempre il cambiamento è l’effetto
di uno spostamento. Si può restare distesi a dormire e
svegliarsi diversi, come succede a Charlie in
“Fire+Water” (2x12, 26/01/2006 in USA). In questo e
in altri episodi i sopravvissuti vivono strane esperienze sensoriali
durante le quali vedono e sentono cose inspiegabili. Kate ritrova il
cavallo nero che le ha permesso di sfuggire a una condanna per
omicidio, Jack rivede suo padre, morto prima dell’incidente,
Hugo incontra l’amico immaginario Dave, mentre Charlie salva
il piccolo Aaron dai flutti e poi incontra sua madre, vestita da
angelo, sulla spiaggia dell’Isola. Anche in questo caso, come
per Mont Saint-Michel, non sono le distanze a cambiare la geografia. I
rapporti tra le parti e, all’interno delle parti, le
possibilità che essi si dispieghino a partire da quello che
già esiste, si lasciano attraversare da un flusso di potenza
che arriva a inclinare diversamente lo spazio e il tempo.
L’arco topografico delimitato dalle oscillazioni del pendolo
di Eloise segnala i limiti della misurazione metrica di fronte ai
piegamenti di una superficie astratta. Gli stati alterati vissuti da
Jack, Charlie e gli altri, il ritorno impossibile al passato prima
dell’incidente, i viaggi nel tempo e nello spazio
dell’Isola, l’eterna giovinezza di Richard Alpert
che non invecchia nemmeno di un giorno, sono punti di una
“topologia differenziale” in cui convivono un
numero infinito di variabili in ricombinazione continua. Alpert,
ricordiamolo, è uno dei protagonisti di Lost che vive
stabilmente sull’Isola da molto tempo prima
dell’incidente. Egli è stato visto in diversi
periodi storici, ma non è mai invecchiato. In questa
dimensione molteplice, o in questa moltiplicazione infinita di
dimensioni verosimili, “alcune parti dello spazio non
cambiano per niente, altre lo fanno lentamente mentre altre ancora si
trasformano rapidamente” (de Landa in Buchanan e Gregg, 2005,
p. 84, T.d.A.). Si direbbe che, come scrive Gabriele Frasca,
“la storia […] prima che la storiografia la fissi
buttandola giù per sempre dalla sua onda, parrebbe avere
come lo spazio hilbertiano un numero sbalorditivo di dimensioni, e il
passato […] è come se fosse entangled
col presente” (Frasca, 2007, pp.16-17). Manuel de Landa,
artista messicano, chiama “zone di
intensità” quegli ecosistemi soggetti a variazioni
locali di stadio, temperatura e gradiente che producono la
differenziazione naturale. Per de Landa questa diversificazione non
è ancora un fenomeno materiale ma il requisito necessario a
produrre la varietà delle forme di vita e delle esperienze
umane. Come principio virtuale e attuale, le zone di
intensità creano infatti “uno spazio di
possibilità” a partire da cui si snodano un
insieme di curve possibili (de Landa in Buchanan e Gregg, 2005, p. 83,
T.d.A.). Nell’ultimo episodio della trilogia di Pirati
dei Caraibi intitolato Ai confini del mondo
la ciurma di manigoldi capitanata da Barbossa (Geoffrey Rush) si
imbarca alla ricerca di Jack Sparrow (Johnny Depp), disperso, forse
morto, oltre le terre conosciute. In effetti il pirata non è
più tra i vivi ma non è nemmeno estinto: si trova
bloccato nel limbo di Davy Jones, incastrato su una distesa di sale e
perseguitato da un esercito… di copie di se stesso. Le prova
tutte ma è destinato a rimanere lì, almeno fin
quando la Perla Nera, la sua nave, non avrà attraversato le
colonne d’Ercole sopravvivendo al salto vertiginoso della
cascata che attende gli avventurieri che osano oltrepassare i limiti
del mondo. Scandita dall’apparire periodico di una mappa
strappata, di un orizzonte fumoso, della scia tremolante di una nave o
dell’ombra ingannatrice di una vela gonfiata dal vento,
questa storia parla ancora una volta della disfatta della frontiera e
della perdita dell’orientamento. In uno strano rimando
intertestuale, la bussola di Jack, come quella di Sayid in Lost,
non segna mai il Nord ma solo il corso di un tentativo.
Dopo il baratro della cascata non c’è un altro
mondo e nemmeno la fine del mondo, ma l’oceano e le stelle
onnipresenti che, alla luce di un salto nel vuoto, tracciano
sommariamente il percorso di un’avventura in cui i desideri
dei protagonisti riescono a modulare la curva dell’orizzonte.
Il Limbo è un angolo dimenticato alimentato dalla sete di
vendetta di Davy Jones, ma non un mondo parallelo a quello su cui
naviga Barbossa. È la consapevolezza di
possedere già le coordinate di quest’avventura
insolita che spinge la prua della Perla Nera verso il Limbo,
perché sarà proprio l’esplorazione di
questa piega sconosciuta del mondo che creerà una nuova
mappa da dissacrare. Dopo aver sottratto Sparrow alla sua sorte, la
Perla ripeterà il tragitto d’andata ma questa
volta non sarà la cascata a segnare il salto della curva su
cui si staglia l’isola dei non-morti. In una delle scene
più belle del film Jack scoprirà che quello che
apparentemente sembra un indovinello nascosto nella mappa svela invece
un tradimento: è infatti solo capovolgendo le rotte
mercantili che si può tornare alla vita. E così
accade, in una rivisitazione del mito dell’Arca, la Perla
Nera fa una capriola affogando il ponte sott’acqua e esibendo
la chiglia al sole. Tornano in mente Noè,
l’“uovo cosmico”, Deucalione e Pirra,
Calipso e le Sirene, ma perché parlarne ancora? Meglio non
costringere l’Isola a tornare sui suoi passi, meglio
lasciarla ridisegnare l’atlante prima che gli incrociatori
della MSC Crociere la confinino tra gli altri puntini verdi sulla
pagina di un depliant turistico.
:: letture ::
— Deleuze G., Desert Islands and Other Texts, The MIT Press, Cambridge, MA. & London 2004.
— Deleuze G., Guattari F., Mille Plateaux, 1980; trad. it. Mille Piani, Castelvecchi, Roma 2006.
— De Landa M., Space: Extensive and Intensive, Virtual and Actual in Buchanan I. e Lamber G. (a cura di), Deleuze and Space, Edinburgh University Press, Edinburgh 2005.
— Frasca G., L’Oscuro Scrutare di Philip K.
Dick, Meltemi, Roma 2007.
:: visioni ::
— Abrams J.J., Lindelof D., Cuse C., Lost “316” (5x06, 18/2/2009 in Usa)
— Abrams J.J., Lindelof D., Cuse C., Lost “Fire+Water” (2x12, 25/1/2006 in Usa)
— Abrams, J.J., Lindelof D., Cuse C., Lost “Live Together, Die Alone” (2x23, 24/5/2006 in USA)
— Verbinski G., Pirates of Caribbean: At World’s End, USA, 2007, Pirati dei Caraibi. Ai Confini del Mondo, 2007, Buena Vista Home Video,
2007.
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