di Gennaro Fucile
Un tema da svolgere come quelli che ogni estate si ritrovano
gli studenti alle prese con la maturità, la prova scritta a
partire da una traccia vaga quel tanto che basta per poterla un
po’ tradire, oppure, un leit-motiv da eseguire anche
apportando delle variazioni. Il numero di Quaderni d’Altri
Tempi che avete virtualmente tra le mani è nato
così, chiedendo ad alcuni dei nostri collaboratori di
raccontare un frammento del proprio immaginario, un luogo
dell’anima, spazi in qualche modo legati all’arte e
interiorizzati, non più separabili dal proprio io. Ecco il
motivo per cui abbiamo preso a prestito il titolo di una vecchia
canzone di Mogol/Battisti, portata al successo dall’Equipe
84, per dare un nome a questo Speciale. Ne potete apprezzare un
frammento mentre scegliete dove dirigervi tra le dodici cartoline che
ne sono saltate fuori. Un numero concepito diversamente dal solito
andava anche dotato di una struttura e di una veste grafica diversa.
Insomma uno Speciale, niente di più. Per la
verità, questo numero avrebbe dovuto essere dedicato
all’avvenimento epocale, che un po’ tutti ricordano
quest’estate, l’allunaggio, avvenuto
quarant’anni fa. Noi ne abbiamo parlato intenzionalmente nel
primo numero di quest’anno, perché per natura
agiamo in un tempo dickianamente fuori di sesto. Qualcosa di quella
strana estate però, l’abbiamo dimenticata e qui
sarebbe utile ricordarla: uno strano andirivieni che si
verificò tra i corpi celesti. Ci fu il viaggio che
portò i due alieni provenienti dal pianeta Terra a
passeggiare sulla superficie lunare, anzi a saltellare come dei
canguri. Piccoli balzi piuttosto goffi, ma solo in apparenza,
trattandosi in realtà di un rituale magico di straordinaria
potenza, capace di sprigionare una forza talmente grande da abolire il
futuro. Ci fu anche, però, un altro viaggio, che invece
condusse da località varie e sconosciute circa
cinquecentomila alieni in una località campestre dello Stato
di New York. Il posticino anonimo si chiama Woodstock e fece da teatro
ad un altro rituale di tale potenza da segnare per sempre la storia
degli uomini: la fine delle generazioni e l’ingresso
nell’era della categoria, del pubblico, del target giovani.
Gran parte dell’assortimento culturale che oggi pervade il
quotidiano in Occidente ha le sue radici in quei tre giorni che, non
senza traumi, iniziarono a rendere istituzionale la rivoluzione
culturale che si era fatta largo nel corso di tutto il decennio e di
cui l’industria dell’intrattenimento prima e
l’intero universo dei consumi poi si sarebbe progressivamente
appropriato. Non tutto avvenne immediatamente,
all’epoca, l’immaginazione era ancora ambiziosa,
volava altissima, disinvolta, le contraddizioni erano ovunque e davvero
era grande il disordine sotto il cielo. Una strepitosa prova di
ciò risale proprio al 1969, anno in cui una certa Lucia
Pamela, nata a St Louis, nel Missouri, il 1° maggio del 1904,
registrò il primo e unico disco della sua lunghissima vita
(ci ha lasciato a 98 anni, nel 2002). L’ellepì si
intitola Into Outer Space With Lucia Pamela. La
musica è quanto di più strampalato si possa
immaginare, qualcosa come filastrocche interpretate con un piglio punk
ante litteram a ritmo di ragtime e con condimento di strane
sonorità, come quelle che amava sperimentare Sun Ra,
musicista proveniente da Saturno, a sentir lui. Fin qui siamo
nell’orbita di un’ordinaria follia, Lucia Pamela fa
parte di diritto di quella ristretta congrega di artisti autori di
incredibly strange music, per usare un’indovinata definizione
della rivista RE/Search. Allora perché ricordare Lucia
Pamela? Ebbene, perché lei, che all’epoca aveva
già sessantacinque anni, sostenne e mai smentì di
aver registrato il disco sulla Luna. Non solo, ebbe anche modo di
lamentarsi dell’acustica lunare, che faceva suonare
“ogni cosa in modo differente da qui”, come lei
stessa annotò. Diamine, una signora, che sembrava prelevata
da chissà quale casa di bambole, che arrivò al
termine della sua vita ad avere una quarantina tra nipoti e pronipoti,
come fece a spararla così grossa? Era un po’
lunatica… forse, oppure il tutto fu frutto di una
necessità sotterranea della Storia: quella di esigere
metafore esagerate in occasione delle grandi svolte. In questo caso,
chi meglio di una nonna poteva esprimere il tramonto di
un’epoca, realizzando l’ultimo sbarco immaginario
sulla Luna degno di essere ricordato? Comunque sia, ormai è
un’avventura dimenticata, Lucia Pamela, oggi, sembra uno di
quegli astronauti morti, orbitanti intorno alla Terra, che abitano nei
racconti di James Ballard, un esperto in morte del futuro. Figure
spettrali che ognuno di noi può scorgere, in queste sere
d’estate, senza bisogno di avere un grande cielo stellato.
Basta uno specchio e imitare il gioco degli specchi del telescopio, in
modo da far emergere dal nostro spazio interiore queste immagini,
magari cogliendo per un attimo anche la bizzarra Lucia Pamela, o un
luogo caro al nostro immaginario, come è avvenuto per ognuno
degli autori di questo numero.
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