di Roberto Paura
“Soldati!
Dall’alto di queste Piramidi quaranta secoli di storia ci
contemplano”. Questa storica frase pronunciata da Napoleone
alla vigilia della battaglia delle Piramidi (21 luglio 1798)
è probabilmente tutto ciò che rimane
nell’immaginario popolare della grandiosa spedizione militare
e scientifica guidata dal generale Bonaparte in Egitto alla fine del
XVIII secolo. Un fiasco strategico, al termine del quale il giovane
generale preferì imbarcarsi in gran segreto su un anonimo
bastimento (la sua grande flotta era stata annientata da Horatio Nelson
ad Abukir) per fare ritorno in Francia e assumere il potere. La
storiografia napoleonica ha sempre considerato la campagna
d’Egitto poco più di una parentesi, una spedizione
voluta dal Direttorio per sbarazzarsi di un generale troppo popolare
dopo le vittorie italiane, ma anche un antico progetto di Napoleone per
bloccare la via delle Indie agli Inglesi e coprirsi di gloria in
Oriente dato che, com’egli disse una volta, “tutte
le grandi cose vengono da lì”. Eppure frutto di
quella spedizione fu la riscoperta di un’intera
civiltà dimenticata e seppellita nelle sabbie del deserto,
riportata alla luce dall’oblio attraverso
un’operazione che fu il coronamento di tutta
un’epoca, quella dei Lumi, che aveva sistematizzato
l’intero sapere occidentale nella formidabile Encyclopédie,
e che riversò le immense conoscenze acquisite nel corso di
quella spedizione in un’opera monumentale, la Description
de l’Égypte. Il primo volume apparso nel
1809, all’apogeo dell’Impero, fu seguito da altri
22 e l’intera opera fu completata solo nove anni dopo, nel
1818, quando il suo ideale ispiratore, Napoleone, languiva sullo
scoglio di Sant’Elena aspettando la morte e la leggenda. La
seconda edizione in 37 volumi, nota come edizione Panckoucke dal nome
del tipografo reale che la stampò tra il 1821 e il 1826, fu
voluta da Luigi XVIII per sostituirla alla celebrativa edizione
Imperiale precedente. Charles Gillispie, docente di storia della
scienza, dà un’idea della monumentalità
dell’opera:
Per
contenere la Description de l’Égypte era
necessaria una libreria di mogano progettata su misura:
l’opera consisteva in 10 volumi in-folio di tavole che
misuravano 50 per 65 centimetri e due atlanti, di 65 per 100
centimetri, contenenti 837 incisioni su rame (50 delle quali a colori e
molte con più illustrazioni), un terzo atlante con una carta
topografica dell’Egitto e della Terrasanta in 47 fogli, e
nove volumi di testo [comprendenti] circa 7000 pagine di memorie,
descrizioni e commentario, il tutto diviso in tre parti: Egitto antico,
Egitto moderno e Storia naturale.
(Gillispie, 1994).
Non stupisce quindi che l’opera integrale non sia
mai più stata pubblicata, anche se può essere
rintracciata nelle più importanti biblioteche, mentre
l’ultima collezione completa delle sue tavole è
stata edita dalla Taschen in un’edizione economica nel
2007. La Description era
già stata immaginata da Napoleone prima ancora di imbarcarsi
a Tolone alla volta dell’Egitto. La meta finale di quella
spedizione navale era sconosciuta a tutti, fuorché a pochi
membri dello Stato maggiore, ma oltre ai 32.000 soldati il generale in
capo aveva voluto farsi accompagnare da un altro esercito, formato in
questo caso da 151 studiosi tra ingegneri, architetti e medici. Sulla
sua ammiraglia, l’Orient (colata a picco
ad Abukir), Napoleone installò una piccola biblioteca da
campo in cui alle opere amate nella giovinezza – Plutarco,
Livio, Tacito – si aggiungevano i Viaggi
di James Cook, il Corano, i Veda, Ossian, Omero, I dolori del
giovane Werther: [Un] bagaglio di sollecitazioni
molteplici e tra loro diverse e contrastanti con il quale Napoleone, e
con lui molti di coloro che gli sono vicino, muove verso
l’Oriente egiziano. (Mascilli
Migliorini, 2002). La grande sete di conoscenza lo
portò a fondare al Cairo, strappata ai Mamelucchi di Murad
Bey, l’Institut d’Égypte, che divenne la
centrale operativa delle spedizioni scientifiche dei suoi membri, e di
cui ci tenne a farsi nominare vice-presidente (il presidente era lo
scienziato Gaspard Monge, tra i pochissimi a rientrare con Napoleone in
Francia nel 1798, mentre gli altri studiosi restarono in Egitto con il
resto dell’armata fino alla capitolazione nel 1802).
L’Institut d’Égypte fu creato sulla
falsa riga dell’Institut per eccellenza, quello francese, di
cui Napoleone era stato fatto membro dopo la campagna
d’Italia: egli stesso era solito firmarsi come
“membro dell’Istituto” nei dispacci in
Egitto per conquistarsi l’ammirazione degli scienziati al suo
seguito (Falcone, 1992). Fiasco militare, la spedizione
d’Egitto divenne così una delle prime
“imprese coloniali” della storia contemporanea.
Edward Said, nel suo fondamentale studio sull’Orientalismo
(Said, 2002), definì la Description de
l’Égypte “la grandiosa
appropriazione collettiva di un paese da parte di un altro”.
Said individuava nella lunga Prefazione storica all’opera,
scritta dal segretario dell’Institut Jean-Baptiste-Joseph
Fourier, l’atteggiamento colonialista della Francia nei
confronti dell’Egitto, riassumendo: [La
Description] fu resa possibile, anzi sostenuta, dall'idea napoleonica
di assimilazione dell'Egitto per mezzo delle risorse materiali e
intellettuali dell'Occidente. In effetti Fourier nella sua
Prefazione sosteneva che la spedizione di Napoleone avesse avuto il
merito di riportare alla luce una terra obliata dalla barbarie dei
popoli arabi, sostenendo quindi implicitamente la necessità
di cancellare secoli di storia per riportare l’Egitto alla
sua antica gloria. Concludeva perciò Said:
La
Descrìption divenne l'ammirato modello di tutti i successivi
sforzi di avvicinare l'Oriente all'Europa, poi di inglobarlo
completamente e – ciò che più contava
– di cancellare o almeno ridurre di molto la sua stranezza;
nel caso dell'Islam, anche la sua temibilità.
(Ibidem)
Simbolo della grandiosa spedizione napoleonica e della
riscoperta dell’Egitto operata dai suoi studiosi restano
senza dubbio le Piramidi. Esse infatti non furono solo le silenti
spettatrici della più celebre vittoria di Napoleone in
Egitto, ma oggetto di studio dello stesso generale e degli scienziati
della spedizione. Il “Moniteur Universel”, il
bollettino ufficiale francese dell’epoca, riportò
il resoconto della visita di Napoleone nella Grande Piramide di Cheope,
avvenuta il 12 agosto 1798 (25 Termidoro dell’anno VI).
Accompagnato dallo Stato maggiore e da molti membri
dell’Institut, Napoleone entrò nella Piramide dove
lo attendevano mufti e imani con l’incarico di mostrargli le
meraviglie interne della costruzione. Giunto nella più
interna delle camere, Napoleone si sedette su un sarcofago di granito
ormai privo della propria mummia e interrogò i musulmani su
chi avesse costruito la Piramide e per quale fine. Gli fu risposto che
a costruirla fu il faraone Cheope, per “impedire che dei
sacrilegi venissero a turbare il riposo della sua cenere”. Al
ché Napoleone avrebbe risposto: “Il grande Ciro si
fece seppellire in piena aria, perché il suo corpo
ritornasse agli elementi: non pensi che fece meglio?”
(Falcone, ibidem). Lo spirito rivoluzionario del generale si ribellava
all’idea che migliaia di schiavi avessero dovuto lavorare per
anni sotto il sole per erigere la dimora di un faraone capriccioso. In
realtà probabilmente il racconto è apocrifo.
Bourrienne, che fu segretario personale di Napoleone in Egitto,
rivelò nella sua biografia dell’imperatore che
egli non entrò mai nella Piramide ma chiese ad alcuni membri
del suo seguito di farlo al posto suo per sapere se vi fosse qualcosa
di interessante. Alla risposta negativa (in effetti la Piramide di
Cheope, come le altre, è del tutto spoglia), egli si
limitò a calcolare misure e dimensioni del complesso
dall’esterno. Così, sicuramente apocrifa
– anche perché non compare in nessuna biografia
– è l’aneddoto che Napoleone avesse
trascorso una notte nella cosiddetta “camera del
re” all’interno della Piramide, e vi fosse uscito
la mattina seguente pallido in volto. Napoleone si sarebbe sempre
rifiutato di raccontare cosa accadde quella notte, persino in punto di
morte a Sant’Elena quando gli vennero nuovamente domandate
spiegazioni, rispondendo che “nessuno vi avrebbe mai
creduto”. Dopo la partenza di Napoleone, le Piramidi
furono oggetto di studio da parte dei membri dell’Institut
rimasti in Egitto. La prima spedizione scientifica fu diretta dal
colonnello Jean-Marie-Joseph Coutelle, ingegnere che Napoleone aveva
voluto con sé in Egitto per fabbricare delle mongolfiere da
usare nel corso della spedizione, grazie ai suoi studi pionieristici
sull’argomento. Le mongolfiere non vennero mai realizzate
perché la nave che portava il materiale di Coutelle venne
distrutta insieme alle altre navi francesi ad Abukir, ma la sua
esperienza fu messa al servizio dell’Institut
d’Égypte per scopi ben diversi da quelli militari.
L’8 febbraio 1801 un’équipe diretta dal
colonnello Coutelle e dall’architetto Le Pére, con
cento soldati francesi di guardia e centocinquanta operai turchi,
piantò le tende ai piedi delle Piramidi e iniziò
i suoi lavori. Le relative “Observations sur les Pyramides de
Gyzeh” furono successivamente pubblicate nel nono volume
della Description de l’Égypte.
La spedizione lavorò assiduamente scavando intorno alle
Piramidi e facendo anche riemergere parzialmente la Sfinge dalle
sabbie. Vennero seguite inoltre le prime misurazioni scientifiche
riguardanti le straordinarie dimensioni e i rapporti matematici della
grande Piramide di Cheope e del complesso di El-Giza. Risalgono a
questa spedizione le splendide tavole in cui si vedono degli uomini
impegnati nel disseppellimento della Sfinge e dei soldati a cavallo
davanti alle Piramidi illuminate dal sole nascente (Taschen,
2007). La descrizione più completa della
piana di El-Giza è tuttavia opera di
Edme-François Jomard, una delle anime della Description
de l’Égypte, di formazione
ingegneristica (aveva studiato al Polytechique fondato nel 1794) ma
– come tutti gli illuministi – capace poi di
riciclarsi come geografo, archeologo e letterato. Facendo seguito nel
1802 alla prima spedizione del colonnello Coutelle, Jomard redasse la
“Description genérale de Memphis et des
Pyamides” nel volume quinto e le interessantissime
“Remarques et recherches sul le Pyramides
d’Egypte” nel volume nono, in cui si rivela tutta
la sua non indifferente capacità di archeologo. Nella sua
“Description genérale”, Jomard
analizzò la topografia delle Piramidi e ne
ricalcolò con maggiore precisione le misure, ancora oggi
validissime, non riuscendo a nascondere tutto il suo stupore per lo
spettacolo del complesso di El-Giza: “Quello che si prova non
è solo l’ammirazione che scaturisce dalla visione
di un capolavoro dell’arte, ma è
un’impressione profonda. L’effetto sta nella
grandiosità e semplicità delle forme, nel
contrasto e nella sproporzione tra la statura dell’uomo e
l’immensità dell’opera che è
uscita dalla sua mano” (Description de
l’Égypte, vol. V). Proprio questo
sgomento, che colpì i francesi in Egitto – dal
semplice soldato all’illuminato studioso, fino allo stesso
Napoleone – è ben rappresentato nelle tavole
dell’opera, dove l’immensità delle
strutture architettoniche è spesso confrontata in scala con
le stature umane: ad esempio la veduta presa da est della Piramide di
Chefren in cui si intravede un piccolo omino che sembra quasi alzare le
mani al cielo di fronte all’immensità dello
spettacolo che gli si para davanti (Taschen, ibidem).
Un’osservazione particolarmente curiosa fatta da Jomard
è quella riguardo le fattezze della Sfinge: per lo studioso
francese, i tratti sono quelli di un ‘negro’, come
dimostrerebbero i capelli crespi, la fronte bassa e rientrante, il naso
schiacciato (già all’epoca il naso in
realtà era stato distrutto, e secondo Jomard proprio questa
circostanza avvalorava la sua ipotesi, perché nei
bassorilievi e nelle statue egizie i nasi sono sempre aquilini).
“Lungi da noi l’idea di denigrare con
quest’osservazione le razze dei neri”, chiariva
l’autore, ma non si capiva allora perché dare
queste fattezze alla Sfinge quando tutte le altre opere antropomorfe
egizie rivelavano l’appartenenza di questo popolo alla razza
caucasica (Description, ibidem). Benché
ci sia una certa concordia tra gli egittologi moderni
nell’attribuire le fattezze del volto della Sfinge a quelle
del faraone Chefren, nel 1993 il “New York Times”
pubblicò il lavoro di Frank Domingo, medico legale in
pensione del dipartimento di polizia di New York, che attraverso una
comparazione al computer delle fattezze di Chefren e della Sfinge
rigettò l’ipotesi della somiglianza sostenendo
invece che la Sfinge avesse evidenti tratti
‘africani’, ‘nubiani’ o
‘negroidi’ assenti nel volto di Chefren. La tesi fu
sostenuta anche da un ortodontista per il quale la conformazione del
volto sarebbe più vicina a quella delle popolazioni africane
ancestrali. Il riaccendersi del dibattito non può che far
attribuire un nuovo punto a favore di questo pionieristico egittologo
francese. Jomard non si pronunciò nelle
sue relazioni sull’epoca di costruzione del complesso di
El-Giza, sostenendo anzi nelle “Remarques et
recherches”: “C’è qualcosa di
misterioso nell’origine delle Piramidi”.
Benché anche Napoleone avesse sostenuto nella sua famosa
affermazione che le Piramidi dovevano avere circa 4.000 anni
(“quaranta secoli”), lo studioso era
dell’opinione che persistesse
“un’oscurità pressoché
completa sull’epoca della fondazione delle Piramidi e i nomi
dei loro fondatori” (Description, vol.
IX). Anche se veniva riportata l’attribuzione di Erodoto sui
fondatori delle piramidi (Cheope, Chefren e Micerino), Jomard
riportò nella sua relazione anche le opinioni di autori
arabi che sostenevano che le Piramidi fossero state costruite
“tre secoli prima del diluvio” – quindi
in epoche leggendarie – e il fatto che Erodoto e Plinio non
appoggiassero la tesi della funzione tombale delle Piramidi.
L’animo illuminista e ‘rivoluzionario’
dello studioso rifiutava, come quello di Napoleone, la visione delle
Piramidi come “il frutto di una vana e folle ostentazione
delle ricchezza dei re”, come sosteneva Plinio, e
argomentò nella sua relazione che la Grande Piramide (quella
di Cheope) non poteva assolutamente essere un semplice sepolcro:
“Tutto è misterioso, lo ripeto, nella costruzione
e nella distribuzione del monumento” (Description,
vol. IV). Nel sua ponderosa “Exposition du Systéme
Métrique des Anciens Égyptiens” che
occupa quasi tutto il settimo volume della Description,
Jomard propendeva piuttosto per la tesi che la Grande Piramide fosse
stata costruita con scopi di tipo matematico, scientifico e
astronomico, forse come strumento di misurazione delle distanze (gli
Egiziani, egli ricordava, erano stati i primi a calcolare le dimensioni
della terra), come dimostrerebbe il fatto che essa conservi nei suoi
rapporti le “unità di misura nazionali”
usate nell’Egitto antico (Description,
vol. VII). A ogni modo, la straordinaria riscoperta
della civiltà egizia nel corso di una spedizione militare si
può evincere dall’utilizzo di metodi piuttosto
rudimentali nello studio delle opere. Jomard effettuò a
più riprese la scalata delle Piramidi per misurarne
l’inclinazione, esercizio che sarà di moda per i
viaggiatori europei a El-Giza fino ai tempi del turismo di massa, e
riportò nella sua descrizione gli effetti di una scalata
più grossolana compiuta dagli arabi che aveva provocato la
caduta di un masso. Riportò inoltre la testimonianza dei
numerosi ‘graffiti’ lasciati sulla base della
Piramide di Cheope fin dal Cinquecento come ricordo dei viaggiatori, e
più di tutti le migliaia di firme lasciate dai soldati
francesi nel corso della spedizione napoleonica (Description,
vol. V p. 620). Il colonnello Coutelle giunse addirittura al punto da
ordinare la demolizione della cosiddetta “Quarta
Piramide” (la più grande delle tre piccole
piramidi satelliti di quella di Micerino, utilizzata probabilmente come
tomba di una delle mogli del faraone), oggi non più nota
così, ma la cui denominazione può essere
rintracciata nella pregevole tavola topografica della Description
in cui la piana di El-Giza è illustrata “a volo
d’uccello” (Taschen, ib.). La demolizione fu
ordinata al fine di trovare l’ingresso della camera
sepolcrale, o del condotto che poteva condurvi, ma gli sforzi
risultarono vani e il proposito fu per fortuna abbandonato prima della
totale demolizione della piramide come preventivato (Description,
vol. IX). Il colonnello Coutelle era, in effetti, a
metà tra uno scienziato e un ufficiale militare. Fu
successivamente decorato con la Legione d’Onore e i suoi
studi sulle mongolfiere portarono Napoleone a progettare
un’invasione dall’alto dell’Inghilterra.
Ma Coutelle rappresentava quella conoscenza interessata di cui
Napoleone desiderava dotarsi, una conoscenza come strumento di
conquista dell’altro che tuttavia si rivelò arma
inefficace. Fu un altro tipo di conoscenza, disinteressata, a vincere
la campagna d’Egitto. Nel suo acclamato romanzo Odissea
nel paese del Nilo, Tobiya Magid racconta le rocambolesche
vicende di una famiglia di contadini dell’Egitto musulmano
sconvolto dall’invasione francese. Nel romanzo sono due le
immagini che si contrappongono in maniera affascinante: la prima
è quella in cui Napoleone ordina una grande dimostrazione
della forza militare della scienza francese, effettuando un esperimento
pubblico di una mongolfiera che tuttavia si affloscia e precipita a
terra subito dopo il decollo; la seconda è quella in cui il
giovanissimo protagonista, Hathùt, e il suo amico
Shàtir, si recano nei locali dell’Institut e
restano costernati e affascinati dall’attività di
quegli uomini che classificano, disegnano, scrivono, leggono, discutono
e sistematizzano. È questa conoscenza, fine a se stessa, che
conquista i due giovani e – in un certo senso –
tutto l’Egitto. “Io non so per quale ragione questa
gente è venuta qua, ma non è il caso di dar loro
il veleno”, ammette Shàtir all’amico
dopo essere usciti dall’Institut (Magid, 2005). Non erano
serviti i proclami amichevoli di Napoleone, il suo atteggiarsi a
difensore dell’Islam, i suoi bizzarri tentativi di imitare i
costumi locali (una volta rischiò di inciampare nei larghi
abiti musulmani che indossò per aprire una seduta del
‘Divan’, l’assemblea collaborazionista da
lui creata), per conquistare l’Egitto. Ci riuscirono quei 151
scienziati che al posto delle baionette portavano con sé
tavole, pennelli e inchiostro.
:: letture ::
— Aa.Vv., Description de
l’Égypte, 37 voll., Panckoucke, Paris,
1821-1826.
— Alfonso Falcone, Studi sulla politica oltremare di
Napoleone Bonaparte, Palladio, Salerno, 1992.
— Charles C. Gillispie, The Scientific Importance of
Napoleon's Egyptian Expedition in “Scientific
American”, settembre 1994. Trad. it. L’importanza
scientifica della campagna d’Egitto, in
“Le Scienze” n. 315, novembre 1994.
— Tobiya Magid, Taghribat Banu Hathùt
ilà bilàd al-shimàl, 1988.
Trad. it. Odissea nel paese del Nilo, Jouvence,
Roma, 2005.
— Luigi Mascilli Migliorini, Napoleone,
Salerno Editrice, Roma, 2002.
— Edward Said, Orientalism, 1978. Trad. it.
Orientalismo, Feltrinelli, 2002.
:: visioni ::
— Gilles Neret, Description de l’Egypte,
Taschen, Cologne, 2007.
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