di Adolfo Fattori
Nell’Alto Lazio, in provincia di Viterbo, sul
crinale di uno sperone roccioso in peperino, la scura roccia magmatica
che modella il paesaggio attorno a Soriano nel Cimino, procedendo dalle
pianure ai piedi dell’Appennino verso il mare, sorge Bomarzo,
cittadina papalina e antico possedimento, fra gli altri, di una delle
famiglie più importanti e potenti della nobiltà
nera, gli Orsini – stirpe feudale di principi, papi,
guerrieri. Tutt’intorno, antichi boschi di
lecci, la tipica quercia centromeridionale che ritroviamo nei dipinti
dei paesaggi del Cinquecento, o nei diorami dei presepi settecenteschi
napoletani, fino all’epoca dei grand tours dei
viaggiatori europei, e che compongono la fitta selva di
Maiano. Luoghi in passato cupi, ancora selvaggi,
pericolosi per il viaggiatore inerme e impreparato, che faranno, nella
geografia improbabile dei romanzi gotici ambientati in Italia, da
scenario di oscure passioni, violenti odi, vicende inquietanti, delitti
crudeli. Tuttora luogo, il borgo e i suoi dintorni,
straniante, per il paesaggio – naturale e umano – e
per l’apparente disinteresse da parte dei locali per la
meraviglia che ospita, sfruttata davvero solo da qualche ristoratore e
dai pochi albergatori: un’opera straordinaria, il Sacro Bosco
dei Mostri, parco fatto realizzare proprio negli immediati dintorni di
Bomarzo da Pier Francesco (“Vicino”) Orsini,
principe, appunto, di Bomarzo. Intitolandola a questa
cittadina, Manuel Mujica Lainez, scrittore argentino contemporaneo di
Jorge Luis Borges, elabora e pubblica nel 1962 (Mujica Lainez, 1965;
1999) un’autobiografia apocrifa del principe Vicino,
alternando verità storica e immaginazione narrativa,
mettendo in scena una narrazione in cui lo stesso si rivolge in prima
persona – dal presente del libro, gli anni Sessanta del
secolo scorso – ai suoi lettori. Pier Francesco
Orsini è stato sicuramente uno dei personaggi più
eccentrici e affascinanti del Rinascimento italiano. Nato nel 1523, ed
erede di una delle famiglie più potenti della
“nobiltà nera”, guerriero coraggioso
– combatté per Carlo V e poi per i francesi
– ma anche fine intellettuale – tollerante e aperto
– deforme nel corpo ma affascinante nei modi, reietto dal
padre, grande viaggiatore, signore benevolo dei suoi territori, nella
maturità riuscì anche a diventare il capo della
sua casata, per la morte del padre e poi del fratello maggiore,
l’erede prescelto – per diritto di nascita e
prestanza – della signoria. Il principe, attraverso
la penna dello scrittore, racconta la sua educazione, affidata da
subito dal padre ad altri perché disgustato e vergognoso
della deformità del figlio, e quindi la propria vita e le
sue avventure, attraverso gli anni dell’infanzia e quelli
dell’adolescenza, fino alla maturità,
ripercorrendo contemporaneamente la cupa storia di quei decenni, le
brutalità, gli intrighi sotterranei, le guerre in campo
aperto e dentro le stanze del potere, la corruzione del papato, ma
anche i suoi amori, i suoi interessi, le sue passioni, gli incontri
– orchestrati da Mujica Lainez fra realtà storica
ed elaborazione fantastica – con i grandi della sua epoca, da
Miguel Cervantes a Benvenuto Cellini, ai papi di quegli anni, a
Paracelso, a Don Giovanni d’Austria, a Carlo V, fino
all’edificazione, cominciata nel 1547 e continuata almeno
fino a poco prima della sua morte, nel 1583, della sua grande opera: il
parco di Bomarzo, non solo “Bosco dei Mostri”, ma
vera e propria macchina per l’immaginazione, la fantasia, la
riflessione filosofica e sapienziale. L’andamento della
narrazione procede intrecciando gli eventi storici con le vicende
personali del principe, che Mujica Lainez fa esprimere come se stesse
scrivendo dal presente, offrendoci riflessioni che gioco forza
articolano un pensiero fuori del tempo, filtrato attraverso i secoli
che separano l’oggi del Novecento
dall’ieri del Rinascimento. Lo scrittore
argentino, dando voce all’Orsini, rende bene il senso del
Bosco come luogo in cui attraverso le dimensioni sproporzionate delle
sculture e le architetture distorte dei corpi di fabbrica di cui
è popolato il parco si possa “leggere”
la grande cultura del principe e la ricchezza delle sue radici, da
quelle classiche a quelle più vicine alle dimensioni
alchimistiche, esoteriche, sapienziali – che gli valsero
più di un sospetto da parte del Vaticano – come la
sua irrequietezza e inquietudine di fondo, connesse alla consapevolezza
del suo aspetto, certo, ma anche al senso di appartenenza solo parziale
alla sua epoca. L’organizzazione scenografica del parco
ribadisce e rafforza il senso labirintico di estraneità,
disorientamento e indeterminatezza del complesso, da leggere come un
testo da interpretare, di cui cercare la chiave fra i viali, le statue,
le costruzioni. Il Bosco dei Mostri infatti si distende in una selva
sulle pendici di uno dei colli vulcanici della zona, e si sviluppa come
un labirinto popolato di figure mitiche dalle proporzioni
straordinarie: due sfingi ad “accogliere” i
visitatori, due giganti che lottano fra loro, Ercole, un Orco, animali
giganteschi, le iscrizioni e i motti incisi nella pietra … Perché
il parco del principe non è solo popolato di sculture
gigantesche, dalle proporzioni sghembe e dalla postura a volte
improbabile, o di costruzioni sbilenche, grottesche, come viste
attraverso una lente distorta, ma è pieno anche di citazioni
e versi incisi nelle rocce e nella pietra di cui sono fatti i mostri
che lo abitano e i piccoli edifici che lo contrappuntano, frasi
a volte oscure, altre più comprensibili, che danno
conto della grande cultura di Vicino, delle sue passioni, della sua
curiosità nei confronti del bizzarro,
dell’esoterico, del panico – e del desiderio di
stupire, disorientare e incuriosire il visitatore. Un luogo
magico, che con la sua stessa topografia allusivamente labirintica e
perturbante, i suoi sentieri e le sue radure ci si propone come
espressione dell’interiorità del principe Orsini,
e che necessariamente apre ad altri luoghi dell’immaginario
– architettonico e narrativo: prima di tutto la Villa
Palagonia di Bagheria in Sicilia, conosciuta come “la Villa
dei mostri”, gioiello del barocco siciliano, fatta costruire
nel 1715 dal principe Gravina, fra l’altro per i grovigli dei
giochi dinastici imparentato alla lontana con l’Orsini, che
sembra riprendere, attraverso le figure mostruose che la popolano,
quasi dei gargoyles tradotti nella lingua del barocco, alcuni dei temi
del parco di Bomarzo, complesso studiato non solo da architetti e
storici dell’arte, ma anche come espressione della
personalità psicotica del Gravina. O anche il
fluviale romanzo L’osceno uccello della notte
del cileno José Donoso, pubblicato nel 1970, capolavoro
della narrativa sperimentale sudamericana, in cui si narra, fra
l’altro, di un signorotto che, a differenza di Giancorrado
Orsini – il padre di Vicino – alla nascita di un
figlio mostruoso, per amore e compassione, fa edificare per lui nei
suoi possedimenti una tenuta inaccessibile al
mondo, e spedisce i suoi emissari e i suoi scherani in giro per le
contrade confinanti a raccattare tutti gli storpi, i mostri, i deformi
che vi vivono, per ospitarli e popolarne il mondo che ha riservato al
figlio, e non farlo sentire diverso dagli altri esseri viventi. Ma
oltre a queste suggestioni dirette, interne, il romanzo dello scrittore
argentino offre di più: se immediato è il
riferimento a Memorie di Adriano pubblicato da
Marguerite Yourcenar nel 1951, un’altra straordinaria opera
del Novecento, sotto traccia possiamo riconoscervi le cadenze gotiche
di romanzi come Il Monaco di Matthew G.
“Monk” Lewis, e ancor di più, per le
riflessioni offerte dall’attualità
dell’epoca di pubblicazione, il calco di Melmoth
l’errante, il romanzo gotico di
Charles Robert Maturin dato alle stampe nel 1820, la storia di un uomo
che non può morire, che vaga per il mondo alla ricerca di
una pace che è condannato a non raggiungere mai, e che
rimanda alla leggenda dell’ebreo errante,
l’uomo che secondo la tradizione cristiana avrebbe colpito
Gesù sulla via della croce, e sarebbe stato
perciò condannato a vagare sulla Terra fino al
“Secondo avvento”. Lo stesso Manuel Mujica
Lainez (nato nel 1910, è scomparso nel 1984) fu un
personaggio a suo modo notevole: discendente di uno dei fondatori di
Buenos Aires, educato dalla nonna all’amore per la
letteratura, romanziere, saggista, giornalista, vincitore, come Julio
Cortàzar, del premio intitolato a John F. Kennedy, negli
anni della sua educazione passò due anni a Parigi dove
cominciò a esprimere il suo talento per la letteratura
dedicandosi alla narrativa storica, scrivendo un romanzo dedicato a
Luigi XVII, continuando poi con una raccolta di racconti che
ripercorrono la storia di Buenos Aires, e altri romanzi ancora,
compreso Bomarzo, da cui fu tratta anche
un’opera lirica di Alberto Ginastera, il cui libretto
è dello scrittore, e che fu rappresentata per la prima volta
nel 1976 a Washington perché proibita subito in patria per
oscenità – una comoda scusa per la dittatura
Videla appena insediatasi per impedirne la diffusione in patria, data
la personalità del protagonista, un principe
“… artista e anarchico” (Bredekamp,
1989). Quest’ultima circostanza, per certi versi eccentrica,
anche se non unica, rispetto al consueto “percorso”
di un romanzo, ci da, anche se solo indirettamente, una cifra del
carattere di Bomarzo, e forse di tutte le opere che
mescolano realtà storica e immaginazione narrativa. Intanto,
l’immaginazione dello scrittore, nel riempire i vuoti, gli
interstizi che si creano fra fatti reali e presunti, riesce a compiere
una operazione necessaria alla comprensibilità delle cose:
dare un senso specifico, se si vuole desunto, agli eventi e alle loro
sequenze. E questo vale per le biografie, e a maggior ragione per le
autobiografie “apocrife”, scritte, fra
l’altro secoli dopo il periodo in cui il/la protagonista ha
vissuto. Un senso che ce lo/la rende comprensibile, affine, e ci rende
solidali e contigui a lui o a lei, permettendo allo scrittore
– e a noi lettori – di affermare qualcosa di
più anche di noi stessi. Nel caso del romanzo di Mujica
Lainez c’è di più, qualcosa connesso
alla struttura intrinseca dell’opera. La scelta del
personaggio centrale, non certo una delle figure più note
nella storia del Rinascimento, permette sì allo scrittore
maggiore libertà nell’intrecciare Romanzo e
Storia, ma gli consente anche di dare lustro a un personaggio
straordinario e misconosciuto, e di valorizzare un luogo che definire
affascinante è poco, oltre che di disporre di un perfetto
filo conduttore per raccontare le vicende dell’epoca. Ancora,
la sua costruzione, il registro linguistico, il clima complessivo che
Mujica Lainez imbastisce, fa del romanzo una macchina unificante degli
immaginari e dei generi, facendo viaggiare il lettore non solo nel
tempo, dal passato degli archivi, al presente attuale, al passato
metastorico dell’immaginazione, al presente presunto da cui
ci parla il protagonista, ma da un genere narrativo
all’altro, inducendolo a individuare connessioni, definire
legami, istituire rapporti, regalandoci un’opera che, in
pieno Novecento, ripropone la tradizione del romanzo storico,
attualizzandola e legittimandola.
:: letture ::
— Bredekamp H., Vicino Orsini e il Sacro Bosco di
Bomarzo. Un principe artista ed anarchico, Edizioni
dell'Elefante, Roma, 1989.
— Lewis M. G., The Monk, 1820, trad. it. Il
monaco, Bompiani, Milano, 2000.
— Maturin C. R., Melmoth the Wanderer, 1820,
trad. it. Melmoth l’errante, Utet,
Milano, 2008.
— Mujca Lainez M., Bomarzo, 1962, trad. it. Bomarzo,
Rizzoli, Milano, 1965; Settecittà, Viterbo, 1999.
— Yourcenar M., Mémoires d’Hadrien,
1951, trad. it. Memorie di Adriano, Einaudi,
Torino, 2005.
:: ascolti ::
— Ginastera A., Bomarzo, CBS, USA, 1967.
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