Siamo sempre pronti a dire, agli altri, cosa fare
riguardo a tutto, nonostante i continui riscontri di
inutilità (del dire). Ognuno sa già cosa
sarebbe meglio fare, riguardo a molte cose: il vero punto è
che non riesce a farle, perché magari non ha maturato
ancora, dentro di sé, le condizioni complessive per
riuscirci. È facile essere edificanti riguardo agli
argomenti in oggetto; più difficile
è intercettare i soggetti, le persone,
la loro vita, le loro difficoltà. Queste sono le premesse di
ogni semplice discorso sulla pretesa
pedagogicità–psicologicità di qualsiasi
relazione, umana o professionale. Sono premesse ovvie, eppure, spesso
dimenticate. Accade altrettanto spesso di dimenticarle anche a
proposito della dieta, uno dei più importanti presidi
terapeutici, uno degli aspetti più significativi di un
corretto stile di vita e quindi, conseguentemente, unao dei capisaldi
dei processi educazionali in un mondo che ha fatto del corpo
e del cibo due fulcri simbolici fondamentali. Troppe volte insegniamo
la vita, dicendo solo quello che va fatto… Dispieghiamo
un sapere autoritario e non al servizio, con tutta
la concentrazione solo sull’oggetto–dieta e il
calcolo preciso dei punti, e non sul soggetto, il suo lavoro, i suoi
orari… ma il cibo è tante cose, il cibo
è troppe cose. Cose belle/cose brutte: non possiamo qui
riportarle tutte. Ci esibiremo dunque solo in una rapida e schematica
carrellata degli aspetti che ne sono riguardati. La prima
forma di rapporto affettivo si sperimenta attraverso la suzione dal
seno materno: la bocca resta quindi, poi, fortemente investita di
significati in tal senso. Nel suddetto rapporto, per esempio, ogni
madre esprime il concetto che ha del proprio bambino e glielo
trasmette: se risponde con il cibo ad ogni tensione,
quest’associazione tensione/cibo si fissa nel bambino,
impedendogli di maturare l’autoconsapevolezza della
diversità dei bisogni. La funzione alimentare diventa
così pseudo-soluzione dei problemi, quando non si distingue
la sensazione di fame da altri stati di tensione fisica ed emotiva. Una
madre molto protettiva induce una forte dipendenza orale,
strutturando nel bambino come solo linguaggio e unica forma di reazione
a ogni circostanza, solo un domanda continua di affetto materno,
facendogli sviluppare, quindi, poca autonomia. A lungo termine, questa
domanda d’affetto sarà troppo esagerata
perché possa essere sempre soddisfatta: eventuali ammanchi
in tal senso dovranno essere compensati in modo secondario, per esempio
attraverso l'assunzione del cibo. La fase biologica
dell’autoindividuazione, l’adolescenza,
potrà poi confermare o risolvere questa situazione: questo
è solo un esempio di come l’oralità, la
nostra sfera psico-affettiva, si riverbera sempre sulla bocca,
sul nostro rapporto con il cibo o su forme diverse di nevrosi orali,
dal fumare al mangiare le unghie. La suzione, prima fondamentale
esperienza dell’uomo, mediava oltre che nutrimento e
proteine, anche sentimenti, affetto e rapporto: allo stesso modo, il
mangiare media sempre in qualche modo anche gratificazione e compenso
affettivi. Resta un’esperienza legata alla
sensazione di benessere, pace, sicurezza, amore, protezione. Implica
simbolicamente il ricevere, l’incorporare, il possedere.
Stimola una zona erogena. Per questo motivo, ogni discorso di
cultura alimentare, e quindi pietistico, andrebbe sempre ben
contestualizzato in un contesto più generale, relativo alla
sfera orale e alla sfera emozionale/nervosa. Basti pensare che
la medicina integrale, nelle tabelle degli eventi stressogeni, assegna
alla dieta un punteggio simile a quello delle malattie gravi. Sempre,
comunque, il cibo si collega all'atmosfera di una
famiglia. Nel vissuto emotivo dell'ora di pranzo si sintetizza il senso
di calore e di rifugio, o di tensione nei conflitti interfamiliari. Il
tempo e il modo dello stare in tavola sono quindi
importanti indicatori degli andamenti relazionali e del grado di
benessere di un sistema familiare. Tanto che il modo contemporaneo di
alimentarsi, nella società occidentale, è uno
degli oggetti cardine della pubblicità, una
pubblicità che guarda caso promoziona
un’alimentazione ipercalorica e un uso tossicomaniaco del
cibo. Il fatto che si sacrifichi sempre più il tempo umano
al tempo produttivo, condiziona inoltre fortemente i tempi della nostra
alimentazione. Si mangia sempre più velocemente, con sempre
meno attenzione estetica nei confronti degli
aspetti rituali e conviviali del mangiare. In molti ambienti
sociali la corpulenza ha costituito un valore (l’abbondanza),
la pancia ha descritto un’autorevole phisique du
role (l’ommo de panza), e
l'obesità ha addirittura contrassegnato la classe
sociale (le mogli degli emiri). Nel nostro dopoguerra, il
frigo pieno costituiva un rimando d’immagine
sociale, un po’ come adesso certi pranzi sociali o
matrimoniali. Oggi ci sono più macellerie nei quartieri
più poveri, dove la carne a tavola
è ancora culturalmente un simbolo di status conquistato. In
altri casi, dalle Veneri archeologiche ai dipinti ottocenteschi alle
modelle, il valore è costituito dalla magrezza. Possiamo
quindi dire, in generale, che nelle società ricche il valore
estetico è dato dalla magrezza, e in quelle povere dalla
corporatura abbondante. L’organizzazione formale del mangiare
descrive il senso sociale che il cibo sta mediando, dal pranzo
d’affari alla cenetta intima, alle grandi tavolate.
Culturalmente, dividere o no lo stesso cibo, ha sempre avuto precisi
significati simbolici, dal segno di pace e d’amicizia (per
gli indiani d'America), alla divisione di casta (in India), ai riti
religiosi (anche cattolici). In generale si può affermare
che in nulla s’identifica il carattere di un’etnia,
quanto nelle tradizioni culinarie. Tutte le
commistioni cui abbiamo accennato, tra cibo e diversi livelli culturali
e psicologici, non a caso ricadono fortemente sul linguaggio che,
proprio a proposito del cibo, si complica di metafore e doppi sensi: i bocconi
amari non digeriti, per descrivere la fame
d’affetto dei soggetti ulcerosi; un peso sullo
stomaco, i rimorsi; le coliti, il purgare i cattivi
pensieri; l'intestino, le viscere, le parti basse del
rimosso, dello sporco; ti mangerei,
per descrivere l’irrefrenabile sentimento verso
l’oggetto dell’affetto; non abbiamo mai
mangiato nello stesso piatto, un sentimento contro,
di non condivisione affettiva, d’estraneità. Si
potrebbe continuare con infiniti esempi. Tutte le implicazioni
considerate, non potevano alla fine non investire il cibo anche di un
valore psicologico aggiunto. Schematicamente, potremmo indicare degli
esempi di cibi che rimandano in tal senso ad alcuni valori, dai
“cibi sicurezza”, come il latte, ai “cibi
consolazione”, i dolci, ai “cibi forza”,
come le bistecche, e ancora i “cibi prestigio”: il
caviale, i “cibi adulti”: il vino, il
caffè… Così condizionamenti e
gratificazioni possono intervenire con eguale forza
nell'iperalimentazione: la pubblicità, il condizionamento
individuale (il bambino che mangia è un bimbo buono; quello
che non mangia è cattivo: per molte mamme il bambino che si
ingozza è buonissimo), ma anche disfunzioni ormonali reali.
E poi gratificazioni alternative, come il bisogno di compensazione o di
sicurezza affettiva; la sostituzione nevrotica, in cui
l’emozione stressante si riverbera sul rapporto con il cibo,
in certi casi facendo mangiare, in altri togliendo l’appetito. Come
la magrezza rimanda a un gruppo di significati psicosociali fortemente
connessi ad elementi positivi, così
l’obesità si carica di significati psicodinamici
di segno diverso: la paura di dare, il desiderio di
rimanere attaccato all’infanzia (il corpo come zavorra che
impedisce di conquistare l’indipendenza);
l’espansione negata allo spirito e delegata quindi al corpo,
occupando aggressivamente spazio, grazie a un corpo
che minaccia; il desiderio inconscio di essere di peso
ai genitori con un corpo che impone la propria presenza, ma anche un
vuoto da riempire; o il desiderio di essere avvolti,
appunto nel grasso; l’autoaffermazione, per trovare spazio
vitale; o l’insicurezza: il grasso aiuta a parare/attutire i
colpi. Crediamo di aver dato così un’idea
della complessità che frequentiamo quando abbiamo a che fare
con il nostro “rapporto con il cibo”. Dovremmo
dedurne un’estrema cautela nel toccarlo/intaccarlo,
poiché si toccano/intaccano gangli molto delicati e
complessi della persona. Prima di rimuovere i chili vanno indagati i
loro motivi, le condizioni che li giustificano, le economie profonde,
le logiche che li hanno determinati. Se non sappiamo
cosa significano i nostri chili in più, non sappiamo quali
significati affrontare e risolvere per risolverli. Per questo
c’è bisogno di tempo. Difficilmente una dieta
può avere gli esiti attesi, se non si indagano prima i perché
di un certo tipo di rapporto con il cibo. Da dove vengono quei chili in
più? Cosa significano? Cosa compensa il cibo?
Perché è stata scelta proprio
quella modalità di compenso? Qual è la causa
prevalente dell’iperalimentazione in quello specifico caso
(condizionamento sociale, individuale, gratificazione alternativa,
sostituzione nevrotica, magari una vera disfunzione
ormonale…)? Una dieta troppo veloce interviene solo
sui chili, senza dare tempo al corpo, all’organismo, alla
persona e alla vita di riorganizzarsi/accomodarsi sul cambiamento.
Durerebbe poco, poiché quei corpo-organismo-persona-vita
restati gli stessi, si ridarebbero presto gli stessi, propri, loro
chili. I chili in più dell’irrisolto, i chili
stampella che servono a sostenerlo. Spesso, invece, nelle
riflessioni accademiche e nella pratica il Soggetto non viene
intercettato, né per quanto riguarda la sua motivazione, la
sua mobilitazione psicologica, come prodotto di fattori endogeni e di
fattori sociali, né per quanto riguarda la sua
organizzazione quotidiana, la sua possibilità pratica di
fare la dieta. Contano invece la vita della persona – e la
sua intenzione, la sua motivazione – la sua organizzazione
pratica, la sua personalità complessiva, i suoi desideri, i
suoi sogni…
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