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La definitiva leggerezza dell’essere: una rilettura di Kundera
di 
Adolfo Fattori

kunderaEsistono opere che arrivano sulla scena del mondo in maniera folgorante, quasi epifanica, e che si impongono subito a tutti, fino – specie nella nostra epoca – a diventare punti di riferimento, fonti quasi obbligatorie di citazioni, di rimandi, di parafrasi. È quello che è successo al quinto romanzo di Milan Kundera, esule ceco in Francia dopo il 1968 sovietico/praghese: L’insostenibile leggerezza dell’essere (1985). Titolo di straordinaria musicalità ed evocatività – almeno in italiano. Il che può spiegarne in parte l’enorme successo, e il suo collocarsi stabilmente nell’immaginario collettivo.
A questo punto, quindi, viene spontanea una domanda: 
È stato un titolo così decisamente bello, a decretarne il successo, e solo quello, o il contenuto del libro mantiene le promesse implicite nel titolo?

E  questa domanda ne produce un’altra:  
A ventiquattro anni dalla sua pubblicazione in italiano – e a venticinque da quella in Francia e addirittura a ventisette dalla sua stesura – il romanzo mantiene il valore che gli venne attribuito, o risulta meno forte, meno “canonico”, ormai datato, insomma?

In fondo, un quarto di secolo è – ai nostri tempi – un periodo enorme, quasi epocale. Rispetto a quando il romanzo fu scritto, i cambiamenti sono stati giganteschi – nella situazione geopolitica, cui fa riferimento, nelle relazioni fra le persone, che sono al centro della trama, nelle aspettative individuali e sociali, che ne sono alle spalle. Una risposta è automatica: Forse bisogna rileggerlo… oggi, a ventiquattro anni di distanza. Sapremo alla fine, dopo averlo fatto, se ne valeva la pena, e se c’è – e quale – risposta alle domande che ci siamo posti.
In breve, la trama: la vicenda riguarda un gruppo di quattro persone, composto da Tomáš (un chirurgo di fama e successo che perde il suo lavoro a causa della sua opposizione al regime comunista del suo paese, la Cecoslovacchia), la sua compagna Tereza (una ex cameriera che si scopre fotografa), l’amante di Tomáš Sabina (una pittrice) e l'amante di Sabina, Franz (un professore universitario).
Gli eventi narrati si svolgono fra Praga e la Svizzera negli anni intorno al 1968, e descrivono la vita degli artisti e degli intellettuali cecoslovacchi nel periodo fra la “Primavera di Praga” e la successiva invasione da parte dell'Unione Sovietica. Si legge nelle antologie critiche che secondo Kundera, l'essere è insostenibilmente leggero poiché gli eventi della vita sono unici. Kundera cita Ludwig Van Beethoven: Einmal ist Keinmal (ibidem, pag. 39). Ciò che accade una volta sola tanto vale non accada per niente: le decisioni che prendiamo sono di poca importanza. E siccome le decisioni non hanno importanza, sono leggere. Ma il fatto che siano trascurabili rende la vita poco importante, e contemporaneamente insopportabile – insostenibile – questa consapevolezza. Lo scrittore ceco lavora su più di un piano. Da una parte ci sono le vicende concrete che occorrono ai protagonisti: tutte incentrate su se stessi, sulla continua riflessione sulle decisioni da prendere e su quelle già prese – decisioni che nella maggior parte dei casi riguardano le relazioni sentimentali, anzi prima di tutto erotiche, che hanno. Da un'altra le riflessioni di Kundera stesso sulle vicende umane, sulla loro significatività, casualità, e – al contrario – eventuale necessità, nella forma del romanzo saggio, in cui continuamente l’autore dialoga col lettore, ed entra nell’interiorità del personaggio. Infine, c’è un piano di riflessione più generale, astratto, quasi teorico, che implica una dimensione ancora più metafisica, quasi, che concerne le vicende umane in genere, il senso della vita e del nostro essere-nel-mondo. E, nonostante il fatto che i personaggi del romanzo vivano in tempi oggettivamente difficili per loro, si trovano a dover prendere decisioni impegnative: fughe, esili, ricongiungimenti, separazioni; e a dover subire ingiustizie gravi: espulsioni dal posto di lavoro, richieste di impegno politico indesiderato, attenzioni volgari, sembra che non ne siano mai colpiti veramente in profondità. Proseguono a vivere, sempre avvolti su se stessi, rivolti verso un’interiorità fatta di desiderio infantile, di superficialità e irresponsabilità. L’unica che forse si dimostra leggermente più profonda è Tereza, la fotografa amante di Tomàš – l’unica di cui ci viene con profusione raccontata la vita da bambina e lo squallore del rapporto con la madre. In sostanza, siamo in una dimensione che poco dopo sarebbe stata definita da sociologi e filosofi della deresponsabilizzazione e dell’infantilizzazione. Una dimensione decisamente legata all’oggi, al post industriale, alla perdita degli ancoraggi, della prospettiva… Il che fa pensare al postmodernismo come corrente artistica. Come sostiene, in effetti, parte della critica.
I segni dell’appartenenza del romanzo alla fase finale della Modernità non sono però solo questi. A parte l’intero impianto, costruito sui periodici interventi dell’autore come interlocutore diretto del lettore, un altro elemento che conduce a questa interpretazione sono le considerazioni sul rapporto fra romanzo e realtà, e quelle sul rapporto fra azioni umane e loro significato.
Un passaggio in particolare, che riportiamo qui sotto per intero, dà ragione di queste riflessioni. Kundera, discutendo della simmetria dei rapporti fra romanzo e vita, racconta di come Tereza, quando raggiunge Tomàš a Praga, dopo averlo conosciuto – grazie ad una serie di coincidenze che lei imparerà a considerare inevitabili – ha sotto il braccio Anna Karenina. Il romanzo di Lev Tolstoj si apre con la donna che è sul marciapiede di una stazione ferroviaria, dove da poco qualcuno è finito sotto un treno, e si chiude con la stessa Anna che si getta sotto un altro treno. Questa simmetria può apparire troppo “romanzesca”. Ma:

Si, sono d’accordo, ma a condizione che la parola “romanzesca” non la intendiate come “inventata”, “artificiale”, “diversa dalla vita”: Perché proprio in questo modo sono costruite le vite umane.
Sono costruite come una composizione musicale… L’uomo senza saperlo compone la propria vita secondo le leggi della bellezza…
Non si può quindi rimproverare al romanzo di essere affascinato dai misteriosi incontri di coincidenze… ma si può rimproverare all’uomo di essere cieco davanti a simili coincidenze nella vita di ogni giorno…
(ibidem, pagg. 59-60)


In questo breve brano è dispiegato uno dei temi più interessanti del romanzo di Kundera: la sovrapponibilità di vita e romanzo. Siamo noi uomini, infatti, a dare senso – a posteriori – alle sequenze di avvenimenti che ci capitano, trasformandoli in narrazioni che li giustificano. La nostra identità è – alla fine – il prodotto della narrazione che facciamo a noi stessi – e agli altri – del nostro Sé (Pecchinenda). E per dargli senso, andiamo a caccia di collegamenti, di continuità, di relazioni di causa/effetto – per poi finire per impotenza, a volte, a evocare, il caso, il destino, il fato, ritornando inevitabilmente al mito, ad una spiegazione arcaica, sacra delle cose del mondo… 
D’altra parte, si tratta di catene di coincidenze – che quindi non hanno senso di per sé – seppure dobbiamo pensare che le coincidenze esistano. James G. Ballard non sarebbe d’accordo con lui. In La mostra delle atrocità, anche lui rivolgendosi direttamente al lettore, scrive perentoriamente:

Tutta la nostra vita è percorsa sotterraneamente da compiti già assegnati. Le coincidenze non esistono. (Ballard, pag. 29)

E se citiamo lo scrittore inglese, è perché scrive pochi anni dopo il ceco, e si colloca per certi versi nella stessa corrente: anche i suoi personaggi sono distanti, incapaci di relazioni profonde, disadattati mimetici della classe medio/alta. Come più tardi saranno, ad esempio, i personaggi di Michel Houellebecq (1999). Allora, lo statuto delle coincidenze: tema cruciale del tardo moderno, se si vuole, anche se sotto traccia. La Modernità ha posto al centro della sua riflessione il soggetto. Ma soggetto vuol dire scelta, quindi propensione al cambiamento, al futuro. La postmodernità, l’età del tempo reale (Candau, pag. 113), può collocare gli eventi umani solo in una rete di coincidenze. Dove la scelta non esiste più: infantilizzazione, deresponsabilizzazione. Siamo trascinati da un flusso che non dominiamo, che non possiamo governare… O almeno così ce la raccontiamo, per salvare una parvenza di senso. Perché “… le coincidenze non esistono”. Semplicemente, non decidiamo più.
Il che rende apparentemente così superficiali, unidimensionali, i personaggi del romanzo. E, di conseguenza, da approfondire le riflessioni che lo scrittore propone sullo statuto della “compassione”, parola che noi forse tradurremmo con “empatia”, sulla sua “pesantezza” (Kundera, pagg. 27-28 e 38-39). A questo punto, forse possiamo provare a rispondere alle domande che abbiamo posto all’inizio. Forse perché la riflessione sui temi proposti da Kundera è cresciuta a passi da gigante in questi ultimi anni, la sua scrittura rischia di sembrarci scontata. O forse è perché lui stesso era oggetto, senza esserne consapevole mentre ne scriveva, dei fenomeni che cercava di catturare. E questo rendeva il romanzo così attraente, per noi lettori di allora. Sta di fatto che, a tanti anni di distanza, può risultare pretenzioso, superficiale… 
Ma non può consistere proprio in questo, il profondo artificio performativo, o metalinguistico, di Kundera? La sua distanza dai protagonisti del libro non è forse un riflesso del suo voler ribadire la loro distanza dal mondo, dalle cose, dagli eventi, dalle persone? E questa distanza, nel caso dei transfughi cechi protagonisti del romanzo, Tereza, Tomáš, Sabina, non può forse essere il risultato della vita passata sotto un regime oppressivo e oscuro? È gente senza cuore, e senza metterci il cuore l’Autore li ritrae – e da essi si ritrae. 
Effetto del postmoderno che avanza… O forse una incursione nella descrizione – oggettiva, distante, impassibile – del destino degli uomini della tarda modernità, preda della depressione come “fatica di essere se stessi”, come frustrazione di fronte all’essere non più prigionieri dell’opposizione desiderio/divieto, ma di quella, ben più insormontabile possibile/impossibile (Ehrenberg, 1999). Una fatica qui dispiegata dai profughi dall’Europa orientale, figli di un’utopia dagli esiti disastrosi, nel trovarsi improvvisamente scaraventati in una libertà che li obbliga alla responsabilità, alla decisione, alle scelte. E di fronte alla quale si sentono inadeguati, incapaci: come scrive Ehrenberg, insufficienti (ibidem, pagg.  229 e segg.), attualizzando così quel male di vivere dell’uomo moderno che già Sigmund Freud aveva individuato in Il disagio della civiltà (1971). E quel titolo, uno dei più seducenti della storia della letteratura del Novecento, legittima così la sua solidità. Perché oggi è ineluttabilmente vero. L’essere è insostenibilmente leggero. La condizione preliminare per un desiderio di sparire dal mondo di cui troviamo traccia anche in altri esiti della letteratura contemporanea, come in Dottor Pasavento dello spagnolo Enrique Vila-Matas, che fra l’altro interviene anche lui, indirettamente, nel “dibattito” sul “senso” della vita, sulla biografia come narrazione, sui rapporti fra vita e romanzo. Uno dei personaggi di Vila-Matas, Ricardo Morante, ospite di una struttura per malati mentali, afferma, quasi parafrasando Kundera:

La letteratura consiste nel dare alla trama della vita una logica che non ha. A me pare che la vita non abbia trama, gliela mettiamo noi che inventiamo la letteratura (2008, pag. 82).

Con l’intima consapevolezza che la cura radicale alla nostra angoscia sarebbe solo nello sparire a noi stessi. Progetto impossibile da realizzare, se non forse abbandonandosi ai sinuosi labirinti della follia, sicuramente consegnandosi al definitivo oblio della morte. O facendo letteratura:

Scrivere è uno spossessarsi senza fine, un morire inesorabile. (ibidem, pag. 30)

 


 

:: letture ::

— Ballard J. G., The Atrocity Exhibition, 1990, trad. it. La mostra delle atrocità, Rizzoli, Milano, 1991.

— Candau J., Memoire et identité, 1998, trad. it., La memoria e l’identità, Ipermedium, Napoli, 2002.

— Ehrenberg A., La fatigue d’étre soi. Dépression et société, 1998, trad. it., La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino, 1999.

— Freud, S., Das ungluck in der kultur, 1929, trad. it., Il disagio della civiltà, Boringhieri, Torino, 1971.

— Houellebecq M., Les Particules élementaires, 1998, trad. it., Le particelle elementari, Rizzoli, Milano, 1999.

— Kundera M., Nesnesitelná lehkost byti, 1984, trad. it. L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi, Milano, 1985.

— Pecchinenda G., Homunculus, Liguori, Napoli, 2008.

— Tolstoj L., Anna Karenina, 1877, trad. it. Rizzoli, Milano, 2006.

— Vila-Matas E., Doctor Pasavento, 2005, trad. it. Dottor Pasavento, Feltrinelli, Milano, 2008.