Diciamo che tutto è cominciato con New Orleans, tra
un campo di cotone e il letame di qualche stalla. Il primo esempio che
si potrebbe dire contemporaneo di una città che detta lo
stile e il concetto di una musica, ma quello era il jazz ed era
l’inizio del Novecento. Poi c’è stato il
country di Nashville, Tennessee, a issare la bandiera della tradizione
finta e pseudo-meticcia di un popolo vario tanto quanto lo è
la molteplicità delle lingue. E gli esempi che si potrebbero
fare si allargano a dismisura, basti pensare a New York, detentrice del
titolo di patria dell’hip hop. East coast style
si chiama lo stile newyorkese del rappare ed
è un concetto di vita (una rigida Way of life)
prima di essere un filone musicale. Dopo la New York dell’hip
hop è la volta di Detroit e della techno da ballare
macchinosamente ai ritmi serrati della fabbrica. Così negli
anni Novanta è toccato a Seattle assumersi l’onere
di rappresentare un genere e di irradiare il suo grunge scheletrico ed
arrabbiato dall’alto profilo dello Space Needle fino alle
coste d’oltreoceano. Restiamo nel continente
Nordamericano, perché, che piaccia o meno, è da
lì che si sono sviluppati gran parte dei generi musicali che
tuttora sopravvivono riformulandosi e cacciandosi l’uno con
l’altro, in un gioco di costante rifondazione e rinnovamento
stilistico. Se il jazz nasce come l’anima della
subordinazione di un popolo, come il suono della vocazione
all’alto affermato sottovoce dalla negazione di una razza,
è vero anche che in tutti gli altri generi ritroviamo quello
che di sostanziale essi hanno avuto da affermare. Il country, per
esempio, è forse l’esatto opposto del jazz,
è una bellicosa immagine della bianchissima tradizione dal
grilletto facile e dell’apple pie, del bourbon e dei cow
boys. Stivaloni di pelle, speroni e una grandissima voglia di imporre
al mondo il sud provinciale e paludoso degli USA. Poi viene
l’hip hop, e lì la storia si fa veramente
metropolitana. Come se la città non fosse più
soltanto il luogo dal quale la musica prende sostanza e corpo, ma come
se fosse oramai il luogo nel quale e soprattutto grazie al quale si
interpreta nel pentagramma un fatto dello spirito. Sempre la
ghettizzazione di una razza, si direbbe, ha sospinto la nascita di
questo genere, come è stato per il jazz. E questo
è vero, ma lo è solo parzialmente.
C’è tutta una questione di spazi urbani che vi
sottende, un’amministrazione fisica del quotidiano, si
potrebbe a questo punto sostenere. È così che le
basi cadenzate dell’East coast style ricordano
quell’immagine notturna dei fari di un’auto mentre
illuminano la striscia bianca intermittente al centro di una strada.
Giovani inviperiti alle prese con il conteggio delle proprie cicatrici,
nella affannosa ricerca del proprio spazio, in una rivendicazione opaca
e fraintendibile perché satura di rancore. Nel
frattempo a Detroit, e sono ancora gli anni Ottanta, la scansione dei
ritmi della fabbrica impone uno stile fatto di un costante
tambureggiare dove è il tempo quotidiano, e non lo spazio
come per l’hip hop, a dettare tendenzialmente le linee
musicali e le battute del loop di un genere
incentrato sulle note della ciclica produzione industriale, della
catena di montaggio, in un gioco di automatismi e movimenti regolari e
standardizzati come quelli che scandiscono la vita degli operai della
General Motors. Il tempo ed il disagio per la techno, lo
spazio ed il rancore per l’hip hop. E il rancore, quasi a
dire che la musica spesso nasce dal malessere, è lo stesso
sentimento che sottende al grunge ed ai suoi graffianti e per nulla
raffinati suoni. Seattle ha fatto scuola, ha proposto alle generazioni
americane degli anni Novanta una solida alternativa all’heavy
metal ed alle sue varianti dalla matrice squisitamente europea. Il
grunge è un genere che comunemente, perché
indiscutibilmente, si incarna nella figura di Kurt Cobain, un dannato
della musica come lo è stato Jim Morrison, ma forse un
dannato un tantino più svogliato e pigro. Tanto svogliato da
essere sopraffatto dalla sua rabbia, nella rapida e mediatica
esplosione dei proiettili del suo fucile. Tuttavia,
ovviamente, dato che nulla va perduto, tutto questo sopravvive ancora.
Sopravvive nelle gang di New York che scelgono il loro colore e
gesticolano la loro difficoltà nella comunicazione.
Sopravvive nei club cittadini dove il jazz è diventato una
cosa per ricchi ed acculturati wasp con la pipa tra le labbra ed il
cappello di feltro. Sopravvive nei calzoni bassi che raccolgono
l’acqua piovana tra i gruppetti di timidi ragazzini dai
capelli lunghi. Ma fortunatamente, per quanto è concesso, si
è in grado di ritrovare una tradizione che si rigenera, e
che, come una famelica bestia affamata di spazio, invade altri luoghi,
li contamina e li colonizza trasportando con sé il fertile
lavoro delle cose passate. Così alle vecchie
città si sostituiscono altre e nuove patrie musicali. Se si
dovesse scegliere una città degli Stati Uniti
d’America, ai giorni nostri, in cui è
rintracciabile chiaramente lo spirito musicale di una visione del mondo
e di un modo di fare, andrebbe scelta senza dubbio Chicago, e non solo
per la sua classica e rinomata scuola di blues e di jazz che detta le
sue battute ai quattro venti, e nemmeno per lo stile martellante e
sequenziale della musica house che proprio da Chicago ha mosso i suoi
primi passi tra gli anni Ottanta ed i Novanta. Andrebbe scelta Chicago
perché è lì che converge buona parte
della produzione di quel genere musicale che prende la propria
definizione da qualcosa che entra nella musica solo liminarmente:
l’indie rock (dove indie sta per independent). Anche se
Boston potrebbe forse contendere a ragione il titolo di
città del nuovo rock, basti qui fare il nome di gruppi bostonians
quali Dinosaur Jr e Morphine, è Chicago che fa scuola. La
questione sta proprio nel motivo che dà il nome al genere,
l’indipendenza appunto e il prolifico lavoro di decine di
label anche semi-sconosciute. Indie, come detto, è
independent. È prima di tutto un movimento di idee che
trascende la sola concezione musicale per come essa appare
all’orecchio. Indie si affaccia sull’orizzonte
della produzione, nel lavoro costante e impagabile di piccole etichette
(non sempre troppo piccole) che contendono alla varie major il vessillo
del possesso e della promozione di un genere. E questa definizione
morbida, perché inclusiva e ingorda di prospettive, di indie
è proprio il portato di quella musica che non si identifica
con una sola wave, ma che assume da diversi generi
le proprie linee guida. Indie è la dissonanza del post-rock,
è la lentezza dello slow-core, ma è anche la
tradizione del folk, il nuovo richiamo identitario di un country
mitigato, è influenza jazz, fascino elettronico,
cantautorato classico, progressive e molto altro ancora. Per
questi motivi indie è uno stile, e non come lo sono stati
gli altri, esclusivi ed escludenti, autopoietici si potrebbe dire.
È uno stile che appartiene all’alveo generalizzato
della musica tutta. Infatti una musica che suona come indie ha la sua
ragion d’essere prima di tutto nella necessità di
sintesi, come se lo sguardo dal geometrale più alto degli States,
quello della Sears Tower di Chicago, possa arrivare a catturare le
diverse tendenze che albergano altrove negli Usa, e concentrarle in un mood
singolo, in un mixaggio continuo ed incessante dagli arrangiamenti
raffinati di chi può permettersi un punto di vista centrale
ed eminente. Forse per questo andrebbe scelta Chicago come
città dei primi anni del Duemila. Chicago che è
la più progressista delle città americane, solido
fortino del Democratic Party nei suoi
ottant’anni di continuità municipale. La Chicago
capitale economica dell’Illinois, quello stato che,
affacciato sui Grandi Laghi, ha esportato ed esporta non solo il mais
al resto del mondo, ma anche il primo presidente afro degli States.
Chicago che, in fin dei conti, è forse la metropoli
più statunitense degli Usa, effervescente e multietnica,
perché riesce a condensare le anime diverse di una nazione
forse troppo grande e forse troppo osservata per restare sempre al
proprio passo. La Windy City riesce nel suo lavoro
di sintesi nazionale apprendendo dal Midwest
ciò che generalmente avviene altrove, mondando dagli eccessi
gli scivoloni a volte imbarazzanti dell’eccezionalismo made
in USA da esportazione. La città ventosa, allora,
da una parte oltrepassa la grandeur e i sensazionalismi della Grande
Mela dimenticandosi anche della spocchia dei dintorni del New England,
ma allo stesso tempo si tiene anche alla lontana dal provincialismo dei
grossi stati del sud, con i loro deserti, le loro spesse bistecche di
manzo e i goffi cappelloni di qualche ricco petroliere.
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